Domenica

Domenica ha 84 anni ed una vita trascorsa a tutta, senza prendere fiato.
Fino a qualche anno prima, quando nonostante le gambe volessero correre dietro a nipoti e bisnipoti molesti e monelli, il suo polmone chiedeva tregua. Per poi iniziare a pretendere tempo, spazio e sempre più riposo.

Tempo, perchè cinque metri da percorrere iniziano a sembrare prima 50 metri e poi 500.
Spazio, in casa per ospitare un bombolone grigio, pieno di ossigeno, aiuto fondamentale ad un polmone che sente il peso del Tempo e chiede Riposo. Domenica lo chiama polmone ormai vecchio, i medici lo chiamano “Fibrosi Polmonare”.
Nella sostanza nulla cambia. Domenica non corre più ma arranca e si trascina stanca dietro ad uno stroller nelle stanze di una casa, sempre più strette per contenere i suoi sogni e la sua fame d’aria, ogni giorno peggiore.
Domenica che amava correre, era costretta a letto a pensare agli anni migliori della sua vita ed a temere gli anni che sarebbero sopraggiunti.

Fino ad una mattina, in cui Domenica si accorge che la parola non viene più. Perché il suo polmone non consegna più ossigeno al suo cervello. Domenica pensa al tempo di cui aveva paura di vivere ed è serena; sorride, perché si sente pronta. Sorride, perchè si sente inspiegabilmente sollevata.
Paolo

Paolo ha 84 anni ed una vita trascorsa a tutta, senza mai fermarsi.
Con i due grandi amori della sua vita, la moglie e la bici, decidete voi in quale ordine, aveva girovagato per il suo mondo e scoperto panorami, ben protetti e conservati nel loro cuore. Fino a quando un giorno le sue gambe si sono fermate e la sua bici è caduta.
Da allora è rimasta a terra perchè il corpo di Paolo ha iniziato a diventare sempre più rigido ed i suoi arti inferiori a tremare sempre di più.
L’unica cosa che è rimasto a vagare sono stati i pensieri di Paolo, sempre pronti a volare in alto, lontano dalla finestra della sua camera da letto da dove, ormai da 4 lunghissimi anni fissava inerte lo stesso orizzonte, sempre uguale, chiedendosi solo quando la sua anima avrebbe potuto essere libera dal suo corpo ormai immobile e scoprire finalmente, nuovi panorami. O ammirarne di vecchi ma con nuovi occhi.

Fino ad un mattino in cui Paolo si accorge che potrebbe essere quel tempo.
La febbre esplode fino a 40°C ed il suo corpo diventa quasi incandescente mentre la tosse gli sconquassa il petto.
La sua mente è annebbiata, vittima di una pressione e di una saturazione accomunati dallo stesso numero – 60 – che nonostante unità di misure differenti, indicano una stessa gravità clinica.
Paolo pensa alla sua bici ed alla moglie ed al tempo atteso in cui avrebbero nuovamente iniziato a cavalcare e volare insieme. Senza paura si sente incredibilmente sereno; sorride, perchè si sente pronto.
Sorride, perchè si sente inspiegabilmente sollevato.
Lina

Lina ha 90 anni, una vita trascorsa a tutta, esponendo con fierezza ed eleganza gli acciacchi di una vita lunga, difficile, faticosa ma gratificante.
Se le chiedi, ti dice che ha malattia delle ossa e della articolazioni (che penso possa tradursi in artrosi) e che “ci ha la diabbeta” (che sono certo si traduca in diabbeta, pochi dubbi) e che prende la pasticca della pressione nota come tritec (che penso possa tradursi in triatec).
Da qualche giorno Lina non sta più bene, è stanca, ha un po’ di febbre, non beve più, non mangia più, non cammina più e sta solo più a letto. Difficile dire di chi è la colpa di cosa.
Fino ad un mattino in cui Lina si accorge che di urina non c’e né proprio più.
Lina sa che, se la pipì non esce, le vittime, più che i colpevoli, sono reni stanchi di aver visto tante primavere e troppi dispiaceri.
Lina pensa alla sua vita piena ed al suo tempo mai sprecato che adesso mostra il conto. Senza paura si sente incredibilmente serena; sorride, perchè si sente pronta.
Sorride, perchè si sente inspiegabilmente sollevata.
Un giorno, in DEA
L’arrivo è a qualche ora di distanza, in successione, ai limiti dell’incredibile.
Paolo precede Domenica.
La situazione clinica è grave, la diagnosi è semplice. Shock settico da Polmonite comunitaria. L’emogasanalisi certifica una grave insufficienza respiratoria ma ancora una più grave ipoperfusione di cui i lattati sono i testimoni inconsapevoli. Ma Paolo sa cosa potrà essere e forse in cuore suo cosa si augura, ma si affida alle mani forti di medici competenti.
E niente. Paolo viene sottoposto ad una perfetta fluid resuscitation e finirà ricoverato in medicina d’urgenza con un accesso arterioso a monitorare l’effetto estetico di due amine che cercano di far sopravvivere un corpo che chiedeva solo di poter morire.

Domenica arriva dopo.
La situazione clinica è disperata, la diagnosi è semplice: Insufficienza respiratoria tipo 2 in Fibrosi polmonare Idiopatica. L’emogasanalisi certifica la stanchezza e l’esaurimento ormai terminale di polmoni, fibrotici come dicono i medici, o vecchi come preferiva Domenica. Ma Domenica sa cosa potrà essere e forse in cuore suo cosa si augura, ma si affida alle mani forti di medici competenti.
E niente. Domenica viene sottoposto ad una ventilazione non invasiva con una maschera oronasale fissata, quasi sigillata, sulla sua bocca, che a volte penso sia stata studiata appositamente per evitare di (far) sentire la voce dei pazienti. Finirà ricoverata in medicina d’urgenza con un accesso arterioso a monitorare gli effetti estetico di un doppio livello di pressione che cercano di rianimare un polmone senile e di far sopravvivere un corpo che chiedeva solo di poter morire.

Infine Lina. Gli esami forniscono una risposta che la paziente sapeva già: Creatinina 6.9 mg/dl – ega venoso con una severa acidosi metabolica – acute kidney injury (AKI) ad eziologia plurifattoriale. O forse meglio AKI senile. Lina sa che senza rene uno non può sopravvivere e per questo ha salutato la figlia prima di venire in ospedale. Più che salutato le ha detto un’ultima parola: Addio. Più che una parola, una sentenza e forse un augurio. Perché Lina sa cosa potrà essere e forse in cuore suo cosa desidera, ma si affida alle mani forti di medici competenti.

E niente.
A Lina viene nell’ordine posizionato un doppio accesso venoso nelle braccia, un catetere vescicale, un pannolone, costretta a letta, e successivamente due grossi tubi che entrano nella sua anima e nel suo corpo a livello del suo inguine destro.
Finirà ricoverata in medicina d’urgenza con la compagnia di macchina verde vicino al suo letto che con con due grosse cannule succhiano il suo sangue con la (falsa ed estetica) speranza dei medici di rianimare un rene ormai disfunzionante, ma con il timore reale ed autentico di Lina che quella stessa macchina le rubi l’anima e la sua serenità disperatamente cercata e finalmente trovata e le sporchi l’addio detto alla figlia.
Perchè?
A posteriori riguardo le traiettorie di vite di Paolo, Domenica e Lina, ma voi potete aggiungere e scambiare con qualsiasi altro nome, viso e persona, e mi chiedo perché. Mi chiedo il perché abbiamo cosi tanto paura della morte.

Salvare, sempre (e spesso comunque)!
Penso che la colpa sia della nostra formazione.
Siamo diventati medici non solo con l’obiettivo ma proprio con il sogno di salvare le persone.
Siamo cresciuti con questa fissa che è diventata la nostra ossessione e la nostra condanna.
E forse è stato li, l’errore di fondo, il vizio di partenza.
Abbiamo riempito le nostre serate di telefilm in cui pazienti sanissimi venivano letteralmente salvati da situazioni assurde e appuntamenti con la morte apparentemente inevitabili con provvedimenti incredibili da parte di medici bellissimi, geniali e brillantissimi e dopo poche ore venivano riconsegnati alla loro nuova vita, spesso più belli e gentili, ed andavano a casa sicuramente più sani, fisicamente perfetti correvano all’uscita dell’ospedale per abbracciare una moglie/un marito ovviamente fantastico e dei bambini spettacolari, almeno due, solitamente un maschio ed una femmina.
L’università ci ha formato nella cultura e nel rispetto della vita, spesso acriticamente, quasi dogmamente.

Ma nessuno ci ha mai insegnato il rispetto, la cultura, l’importanza della morte e la necessità della sua difesa.
La morte
Abbiamo sempre considerato la morte com un nostro nemico. Da combattere. Da sconfiggere. Con quel senso di onnipotenza delirante, tipico di qualsiasi medico convinto, giovane, appassionato e passionale.
Ma dobbiamo costruire una cultura della morte. Ed esattamente come è fondamentale il rispetto e la salvaguardia della vita, in ogni forma e modalità, cosi è di parimenti importanza il rispetto della morte. Dobbiamo proteggerla. Dobbiamo renderla possibile. Dobbiamo dare ai nostri pazienti la possibilità di poter morire. Con dignità e con amore. Con rispetto e serenità.

In un mondo che progressivamente ci ha insegnato che “less is more”, “meno invasivo, meglio è”, “meno è meglio“, dobbiamo imparare anche a non fare. A togliere, a rispettare, a proteggere il diritto, connaturato alla nascita, di morire.
Dobbiamo imparare a non fare cose straordinarie, ma cose giuste.

Perchè la morte, l’unica cosa sicura della vita, merita un certo rispetto.
“All’inizio della pratica della medicina tutti noi abbiamo prestato giuramento. Ci sono molte versioni del giuramento. Si riassumono tutto in una stessa sintesi: la pratica medica dovrebbe essere umana e compassionevole.”
Ricordiamocelo, ogni giorno, quando, spesso inconsapevolmente, prestiamo ad ogni nostro paziente lo stesso giuramento.

Bibliografia
- Portanova J et al. “It isn’t like this on TV: Revisiting CPR survival rates depicted on popular TV shows”. Resuscitation. 2015 Nov;96:148-50
Bellissimo articolo, che ci riporta all’umanità, visto che spesso noi medici crediamo di essere sovraumani….degli dei, insomma. Tre storie toccanti che mettono il dito nella piaga del “voler salvare ad ogni costo”.
E niente.. ogni volta che ti leggo vorrei abbracciarti e dirti grazie. Così te lo scrivo: grazie
Paola
Grazie per quanto hai scritto Davide. La prima formazione sul senso della vita e della morte si riceve in famiglia – ma non per tutti va nel senso che hai descritto. Sarebbe doveroso prevedere nel corso di laurea un approfondimento su questi temi. Tante volte una franca spiegazione della situazione permette a paziente e parenti di scegliere come gestire gli ultimi giorni/mesi di vita. Le possibilità offerte dalle moderne tecniche a volte si avvicinano a forme di tortura (quante volte occorre sedare il paziente per permettergli si proseguire la “terapia”?
Bisognerebbe davvero lanciare le direttive anticipate di trattamento: nella mia realtà purtroppo limitate alle sole malattie neurologiche invalidanti. Spesso incontriamo pazienti soporosi che non possono partecipare a un progetto di cura, e allora ci affidiamo ai parenti.
Non posso che condividere e concordare in pieno. A volte bisogna aiutare i nostri pazienti ad andare oltre il più serenamente possibile, circondati dai propri cari e non in un ambiente ostile con più aghi nelle vene e flebo e pompe e monitor che suonano la loro assordante e triste sinfonia. Sono stata , a volte testimone impotente di lacrime nel fin di vita con un senso di angoscia di cui non riesco a liberarmi.Gli anni di esperienza,pure numerosi,non mi hanno forgiato a sufficienza.
Grazie, per queste bellissime riflessioni. Come dici, c’è una necessità urgente di creare cultura della morte, che altro non è che creare cultura della vita (perché la morte non è il contrario della vita, ma sua naturale condizione).
“In questa vita non è difficile morire. Vivere è di gran lunga più difficile…” Vladimir Majakovskij.
Ornella, Paola, Luisa, Nicola, Vincenza e Samuele: Grazie mille per le riflessioni che sono accomunate dalla sentita e profonda necessità di creare, formare e condividere una cultura comune. Penso che rifletterci sopra sia il primo modo per poterla diffondere. Come ha Scritto Vergano Marco su Twitter, lui si un vero esperto ed un vero bioeticista, ““It’s common for those with an acute illness, in the context of severe frailty to be taken to a hospital, resuscitated in the ER and admitted to an ICU.
It’s difficult for anyone to stand back, to honestly explain the situation and to pluck the person off the conveyor belt”. Cerchiamo, quango è dovuto, di fare un passo indietro e di non salire su quel nastro trasportatore.
Ciao Davide, come sempre gran bel lavoro…ormai sono vecchietto (50 anni) e molto tempo passato in PS…dubbio che mi viene dalla mia routine clinica: abbiamo sempre tutti gli elementi subito in PS o MURG? O conviene prima stabilizzare e poi, con la situazione del paziente chiara in mano , decidere quanta invasività dare? Perchè, dopo alcune scelte, indietro non si torna. Poi, scusate, molta attenzione sulla dignità della morte. Ci manca. Personalmente vedo però il rischio concreto di ageismo (” è vecchio, lascialo andare” a prescindere) e di una interpretazione del less is more che fa molto comodo alle aziende ospedaliere e a tanti specialisti, che vorrebbero sempre lavorare con il paziente dell’Harrison, più che con i nostri pazienti, brutti sporchi e molto cattivi, i miei perlomeno attaccati alla pellaccia con le unghie e con i denti….
Scusa per il dubbio….Complimenti ora e sempre! Ciao
Ciao Riccardo. Sono d’accordo con te che l’ageismo non debba diventare una risposta, sostituendola con una valutazione globale e complessiva della sua persona, dei suoi bisogni e della sua richiesta di aiuto. All’età dobbiamo sicuramente affiancare, affinare ed infine sostituire il concetto di fragilità. Allo stesso tempo è necessario che una scelta di tale importanza sia ponderata e necessiti del tempo necessario perchè possa essere presa in scienza coscienza sicurezza e correttezza. Dobbiamo però, allo stesso tempo, secondo me, evitare di nasconderci dietro il “non decidere” quando in realtà abbiamo a disposizione tutti i dati. Spesso è molto più difficile non fare rispetto al fare quando tuttavia è evidente come il secondo sia la cosa più giusta, anche se più faticoso ed difficoltoso, della prima. Grazie mille per la riflessione.
ciao grandi colleghi ,umani in prima linea ,riflessioni ricordi belli brutti delusioni insucessi falllimenti vite salvate e perse.una notte ,che di fatto era un ‘alba , dal suo letto d’ospedale una gentile signora ,che avevamo aiutato a vivere fino a quasi 100 anni ,mi guardo’ con occhi dolci affettuosi e mi disse: FRANCO adesso basta non ho piu’ voglia di vivere e chiuse gli occhi.Se ne ando’ serena.SEI una carogna mi dicevano i miei collaboratori,perche’ dici ai figli che il loro padre sta molto meglio e che forse sara’ presto a casa, quando sai bene che e’ alla fine?SEMPLICE,E’ QUELLO CHE NON VOGLIONO SENTIRSI DIRE.LA storia vera della medicina reale.
RIFLESSIONI DELLA NOTTE….IL TEMPO PASSA E NON SI ARRESTA UN’ ORA,LA MORTE CI INSEGUE A GRAN GIORNATE , LE COSE PRESENTI E LE PASSATE SI FAN GUERRA ANCORA.. MA NOI MEDICI LAVORIAN SOGNANDO DI DAR VITA AL TEMPO E DI SITTRARLO ALLA MORTE.
Ciao Davide, grazie per questo meraviglioso post che sono riuscito con molte difficoltà a leggere solo in ritardo. Condivido ogni singola tua parola e noto un chiaro accanimento terapeutico in certe tipologia di pazienti per i quali il ricovero in determinati reparti piuttosto che accogliere e custodire una certa dignità nella morte si trasformano in un chiaro prolungamento del morire. Spesso i familiari ed i colleghi mi dicono “finchè c’è vita c’è speranza e bisogna provare” ma io rispondo “purtroppo non è così e quello che lei mi chiede non è gratuito! Non è Gratis! Non è gratis per un paziente che soffrirà ad ogni prelievo, ad ogni emogas rigorosamente arterioso e ad ogni procedura invasiva! Quello che è gratis per lo spettatore (medico o familiare) ovvero il lavarsi la coscienza e non affrontare un chiaro problema di responsabilità, viene pagato a caro prezzo da un paziente che non ha margini di miglioramento e vie d’uscita”.