L’altro giorno stavo parlando con un caro amico e durante la chiacchierata mi ha detto: “sai, arrivi ad un certo punto e ti chiedi che hai fatto finora, cosa hai costruito e soprattutto cosa ne hai ricavato…”.
Il discorso andava avanti, ora non vi sto a tediare, ma spesso ce lo chiediamo, in diversi punti della nostra esistenza, ed sono domande complesse che spesso ci spiazzano.
A questa persona voglio rispondere con queste considerazioni, cosicché possa capire che cosa di realmente importante ha fatto e raggiunto anche se forse non consapevolmente.
Ho iniziato a studiare medicina all’università quasi una mezza vita fa, cercando di apprendere tutto quello che potevo. Ho galleggiato tra esami ed esoneri e quant’altro, essendo costantemente con la sensazione di essere giudicata per quello che facevo.
Esami con i conseguenti voti, tirocini con successive valutazioni. Sempre alle prese con la dinamica di dover apprendere per dimostrare qualcosa. Spesso (non sempre purtroppo) con qualcuno che ti insegnava qualcosa, ti diceva come sarebbe stato meglio muoverti, parlare, studiare, lavorare…
Piano piano vai avanti nel tuo percorso e continui ad apprendere. Pezzo dopo pezzo inizi a comprendere l’effettivo significato di quelle nozioni apprese. Inizi a metterle in pratica, ma a volte, anche in quello, il tuo obiettivo è quello di essere all’altezza della situazione in cui sei. Dimostrare di essere un buon professionista che riesce a prendere in carico e affrontare le difficoltà e le sfide che ogni giorno ti si presentano.
Fino a quando sei tu che decidi, sei tu che conduci il gioco, e le responsabilità crescono.
Ad un certo punto ti senti in grado di camminare sulle tue gambe senza più essere tenuto per mano ad ogni passo, senza che qualcuno ti dica costantemente cosa devi fare o come devi farlo. Così nella vita di tutti i giorni, qualsiasi professionista si trova ad affrontare situazioni che sa gestire, oppure suppone di saper gestire nel massimo delle proprie capacità.
Ed allora, avere qualcuno che ci dice cosa fare o come farlo inizia a diventare un po’ seccante. A volte quasi un’invadenza. Sentiamo questa cosa come una mancanza di fiducia nei confronti del nostro giudizio e delle nostre capacità, come se ancora, dopo tutto questo tempo, si continuasse a non essere all’altezza.
Ma siamo proprio sicuri che sia così?
Ovvero, abbiamo davvero raggiunto il nostro massimo? O c’è sempre e comunque un qualcosa in più che possiamo fare? Possiamo migliorare o abbiamo davvero raggiunto la nostra meta ed il massimo delle nostre capacità?
Ognuno di noi può immedesimarsi in queste parole e trarne le proprie conclusioni.
Quello che ne ho ricavato io, oltre a cercare risposte, è una certezza. Credo che sarebbe molto utile per me avere un coach. Cosi come ammetto che persone che ho conosciuto e incontrato nella mia vita professionale che si sono comportati come tali, hanno davvero modificato e migliorato il mio modo di lavorare.
Ed ecco che quello che ho vissuto e vivo lo ritrovo vissuto già da altri prima di me.
Infatti, leggendo un bellissimo editoriale di Atul Gawande pubblicato qualche tempo fa su The New Yorker, l’autore si racconta in uno dei più difficili momenti della sua vita. Si chiede infatti se ha davvero raggiunto il suo Personal Best, oppure può fare qualcosa in più.
Beh, l’autore in questione è un bravissimo chirurgo di fama mondiale, noto per la sua professionalità ed inventiva. Ammetto che leggere le sue parole è stato per me molto illuminante.
Quante volte il sentirsi dire da qualcuno che potresti fare meglio se facessi “un po’ più così invece che cosà” non vi ha almeno minimamente seccato. Magari in una cosa che voi pensavate “cavolo, questo è il mio pezzo forte!”.
Quante volte cose che di norma vengono fatte quotidianamente quando si è da soli in un certo modo e spirito, diventano più complesse e intricate quando abbiamo qualcuno con noi nella stanza che pensiamo ci stia giudicando?
A me capitava, ed ancora capita…”Magari se prendessi il repere così prima della procedura… oppure se leggessi questi esami con una diversa chiave di lettura..”
…è davvero difficile accettare l’idea di modificare il modo in cui tu fai qualcosa che hai sempre fatto in una certa maniera, per provarne un altro, e sicuramente si è in difficoltà quando questi consigli effettivamente producono un cambiamento positivo nelle nostre abitudini..in quello che pensavamo fosse il nostro “personal best”…. ed ecco che appare quel sentimento misto tra la gratitudine verso gli altri, e di sconfitta verso noi stessi..
Ma cambiando la prospettiva del mio modo di intendere queste parole, non come un rimprovero alla mia “incapacità” di gestire la situazione, non come una sconfitta, ma piuttosto come spunto a migliorare ed ottenere infine un risultato più appagante, le cose per me sono molto cambiate.
Esempi di come reagiamo a “consigli” o “istruzioni” sono presenti quotidianamente: perchè accettiamo che qualcuno ci dica come, distendere il braccio nella bracciata di stile libero in piscina possa essere utile per avere maggiore potenza, o come, appoggiare il piede di punta e non di piatto su parete, ci permetta di avere un maggiore grip mentre arrampichiamo o come, spostare il nostro peso su una gamba piuttosto che sull’altra per avere un miglior servizio a tennis, è più semplice, che accettare “consigli o insegnamenti” nel nostro lavoro?
Nell’articolo Gawande descrive esempi di modelli diversi di coach in diversi scenari, dallo sport, alla musica ed alla scrittura. Infine decide di chiedere ad un suo collega e maestro di presenziare in sala operatoria per osservare il suo di lavoro.
In maniera molto tenera e personale descrive come il suo “coach” avesse annotato piccole cose che capitavano in sala operatoria che potevano comportare distrazioni. Ad esempio, come fare attenzione che la luce colpisse correttamente il piano operatorio o come egli contraeva le spalle in specifici momenti dell’atto operatorio. Questi punti di per se non erano errori di procedura. Potevano essere comunque presi in considerazione per un cambiamento, al fine di rendere il chirurgo maggiormente a proprio agio e meno affaticato durante il suo lavoro.
Inoltre, sempre con incredibile candore, descrive come, un “errore” di valutazione durante un atto chirurgico in presenza del suo coach, lo avesse fatto sentire mortificato ed in imbarazzo.
“But I had let Osteen see my judgment fail; I’d let him see that I may not be who I want to be” scrive.
E conclude come sia difficile decidere di avere un coach, soprattutto andando avanti negli anni. Infatti pensiamo che i giorni di test ed interrogazioni e prove siano finiti con la laurea, con la specializzazione, con la strutturazione e con la nostra trasformazione in professionisti.
Per cui perchè dovremmo di nuovo metterci di fronte a qualcuno che ci scrutina e cerca i nostri punti deboli?
Bella domanda.
Ma in fondo ammetto che ho scoperto una cosa: so che devo lavorare su quello che so di non sapere , su quello che so non essere il mio punto forte. Ma la cosa più complessa è che spesso non si sa davvero da dove iniziare, o come procedere nella ricerca dei nostri punti deboli.
La formula è racchiusa nel seguente algoritmo:
dobbiamo identificare e trasformare la nostra “incompetenza inconscia in incompetenza conscia, al fine di ottenere una competenza conscia che piano piano diverrà competenza inconscia”.
Ingarbugliato, vero? Ma alla fine è logico e semplice.
Questo può avvenire solamente se accettiamo che esista una nostra incompetenza inconscia e lasciamo che qualcuno vicino a noi ce la mostri, e ci guidi lungo la strada che porterà verso la nostra competenza inconscia
Dopo tutto, scrive l’autore nell’editoriale, tutti i campioni del mondo negli sport hanno un coach; gli scrittori famosi hanno un editore; i musicisti di fama mondiale un insegnante o un coach. Perchè non noi stessi nelle nostre professioni?
Basta dare il giusto significato alla parola coach. Identificare la giusta persona ed il nostro giusto momento per richiederne il parere e la guida, spesso anche senza che loro ne siano consci.
A. Gawande scrive:
“coaches are not teachers, but they teach. They’re not your boss[…] but they can be bossy. They don’t even have to be good at the sports[parlava relativamente a coach nello sport…]. Mainly they observe, they judge, and they guide.”
“Coaches are like editors. [Prende come esempio M. Perkins, editore di Fitzgerald, Hemingway o T. Wolfe]. Perkins has the intangible faculty of giving you confidence in yourself and the book you are writing[…] He never tells you what to do, instead he suggest to you what you want to do yourself.”
Per cui concludo scrivendo a questo caro amico: hai fatto molto e fai molto tutti i giorni , ispiri, guidi, e anche se non lo sai, sei stato, sei e sarai un grande coach, per me come per moltissime altre persone.
Atul Gawande ” Personal Best” The New Yorker (october 2011) link
Davvero un bel post pieno di sentimento…
Ti invoglia ad avere umiltà e cercare confronto nel nostro campo di lavoro.
avere un coach, un maestro è un pò il desiderio di tutti i medici. E’ qualcosa che ho ricercato tutta una vita ed ho incontrato solo ad Udine, breve ma intenso.
Purtroppo i maestri sono sempre più rari…
Quello che ho capito nella mia breve esperienza è che devi imparare da tutti, chiunque può insegnarti e trasmetterti. Io continuo ad imparare anche dai miei infermieri e dai miei OSS…
Susanna,
non so come dirtelo…ma tu sei un coach
Bellissimo post, in sintesi è il concetto della formazione continua. Bisogna però avere un po’ di predisposizione che non tutti, anche i giovani, hanno.