Un giorno un Pomeriggio
D. un pomeriggio si sveglia. O meglio si alza dal letto perchè questa volta il sonno non è mai arrivato. Lavora in Pronto Soccorso da quasi sei anni. E’ ormai sera. Tempo di un’ennesima preparazione in visto di un nuovo ennesimo turno notturno. Ormai da qualche tempo con meno voglia. La precisione e meticolosità delle prime volte ha lasciato sempre più spazio e tempo ad un autentico desiderio di resa. Ad una “ambizione” nascosta, imbarazzante ma sempre più autentica. Che questo turno possa essere effettivamente e davvero l’ultimo.
Un giorno un sera
E’ stato un pomeriggio travagliato ed insonne. Il riposo abitudinario pre-notte ormai da qualche mese arriva con difficoltà, sempre più breve e sempre meno sereno. Da qualche tempo sogna scenari apocalittici con militari che costruiscono tende da campo nei parcheggi degli ospedali e portano vie bare silenziose e senza nome, che non hanno neanche il diritto ad essere bagnate dalle lacrime degli affetti più cari.
D. si alza dal letto. Uno strano sentore persistente di nausea con una sorta di fastidio fisico ed un pugno di avversione piantato nel petto lo accompagna in strda fino a quando non si siede in macchina, pronto per partire. Non c’era più la paura ormai a fargli compagnia. Non aveva spazio. Era tutto occupato dalla Frustazione, dallo Sfinimento, dall’Esaurimento e dalla Rabbia. Ma poi verso chi?
Verso quelli là. Quelli là chi?
D. è Stanco. E’ Stufo. E’ Esausto. Perchè D. si sente ingannato. Come un amante fragile, prima illuso e poi abbandonato. Le cui lacrime non possono essere mostrate al mondo ma raccolte dal cuscino di un camera da letto in cui D. rimane volontariamente e non obbligatoriamente in isolamento.
L’entusiasmo e l’adrenalina di marzo hanno lasciato il campo e lo spazio alla stanchezza di un inizio inverno che appare gelido ed indifferente, senza un alito di vento primaverile di speranza. L’aria che gli sferza il viso uscito dalla macchina in direzione pronto soccorso gli sussurra solamente rimpianti, rinunce, dubbi e angoscianti interrogativi.
D. si sente, semplicemente, tradito.
Tradito Da quelli là
Tradito da quelli là. Che molto spesso sono una immagine astratta ma che non sappiamo mai concretizzare. Quelli là che dovrebbero scegliere. Che li immagini ad analizzare milioni di dati, statistiche ed andamenti. Che solitamente sono nei loro uffici, spesso pieni di telefoni quasi sempre irraggiungibili, impegnati in riunioni fiume che non bisogna mai disturbare. Quelli a cui ti affidi perchè in quelle stanze dei bottoni senza telefoni le decisioni giuste le prenderanno. Sono “studiati” apposta per quello.
Eppure non ci voleva uno scienziato, uno storico o un premio nobel a capire che la seconda ondata sarebbe stata peggio della prima. Che l’inverno è più freddo della primavera. Mio nonno mi insegnava che in estate bisogna mettere da parte il legno che ti servirà nei mesi successivi. Ma in Estate il campo non è stato seminato e la legnaia è rimasta vuota, accontentandosi che “andrà tutto bene” dovesse scelleratamente fare rima con “va bene così”.
Tradito da chi doveva decidere e ha deciso di non farlo.
Da chi ha deciso di demandare. Mesi a pensare per poi una notte montare tende. In un parcheggio. Ottima mossa per risolvere il problema annoso dei parcheggiatori abusivi. Che si riempiranno di pazienti, non so di quali medici, personale sanitario e strumentazioni. Soluzioni tardive ad un sistema che si è dimostrato clamorosamente inadeguato ed impreparato. Tappi sulla bacinella bucata del servizio sanitario pubblico che si meritava certo un’altro riguardo.
Tradito dalla società
Troppi a parlare, nessuno in grado davvero di ascoltare. Politici che fanno i sanitari e sanitari che prendono posizioni politiche. Sportivi che con rispetto e sobrietà non fanno mancare la loro opinione. Una cacofonia assordante dove mancano risposte o soluzioni. Nessuno che si dichiara umilmente incompetente per poter ascoltare chi dovrebbe studiare i dati e le situazioni per poter attuare le giuste soluzioni a problemi prevedibili.
Tradito soprattutto da voi
A marzo eravamo tutti uniti. Tutti insieme, tutti forti, quasi spavaldi. Sempre stanco ma mai stufo. In apnea ma con una boccata di ossigeno pronto e sempre disponibile. Ti sentivi vulnerabile ma praticamente invincibile. Uscivi dall’ospedale e scoprivi un nuova inebriante sensazione: una riconoscenza nazionale a cui non eri abituato, di cui in parte diffidavi ma che non riusciva a non euforizzarti.
Quel legame si è spezzato. La vera forza di quel periodo, l’unità nazionale, si è persa. Il Covid non è può una minaccia da affrontare coesi ma un problema, che se rimane tuo o di un altro, soprattutto se si tiene ad adeguata distanza, meglio così. E in una società slegata, la legge del più forte sembra predominare: vince chi urla di più. Chi prova ad infrangere le regole. Chi dimostra la sua verità, che deve per forza scomoda e nascosta. Chi nega. Chi insulta e incita alla violenza. Chi afferma se stesso con prepotenza, prevaricazione e maldicenza verso il prossimo. Ma davvero meritiamo tutto questo? Potevamo davvero essere migliori.
Platone affermava che la libertà muore quando non vi è più riguardo o rispetto per nessuno, quando si crea un disordine tale che nessuno riconosce il proprio ruolo all’interno della società. Temo allora che la libertà stia morendo. Perchè noi potremmo anche essere pronti e senza più paura ma non possiamo in fondo esserlo se siamo soli. E non possiamo esserlo senza essere liberi.
Tradito da te stesso
D. si guarda nel vetro che divide il percorso sporco dal quello pulito nella sua tuta da palombaro 3.0. Vede la sua immagine sbiadita e sente di aver tradito il suo IO di qualche anni prima, quando si affacciava al mondo dei grandi. Con inesperienza ma ardore ed impeto. Con Ingenuità ma dedizione. Con timore ma voglia di spaccare. Il tutto tradito da un personale baratto, giustificato dalla sua (davvero?) ineluttabilità: medicina d’urgenza che diventa la medicina della fretta. Senza essere la medicina che vorrebbe fare.
Game over. D. in quella tuta, in quello specchio, in quel turno non spera più.
Cosa vorrei ormai senza sperarci
Vorrei una cultura della colpa che non la neghi ma ne determini un assunzione di responsabilità. Vorrei volti che mi dicano cosa e magari perchè hanno sbagliato e che adesso mi dicano che sanno cosa fare.
Non vorrei una notte in cui nuovamente affogare nella disperazione di chi cerca non di fare solo bene il proprio difficile lavoro ma solamente un posto dove visitare un paziente, una barella dove scaricarlo, un posto ossigeno in cui attaccare la sua maschera venturi. A pietire un ventilatore per non compilare l’ennesimo ISTAT. A razionalizzare risorse che sono inevitabilmente sempre più limitate. A non essere dilaniato da dilemmi etici, dovendo anche considerare la giusta ma faticosa ottica di una giustizia distributiva e di una equa allocazione delle risorse sanitarie disponibili.
Abbiamo tute ma non abbiamo corpi che la indossino. Abbiamo guanti ma non mani che li possiamo trasformare in dita che abbracciano, lavorano, operano. Abbiamo la rabbia per qualcosa che doveva essere differente. Ma non abbiamo più la pazienza, l’ingenuità, la leggerezza e la forza per dire “andrà tutto bene”.
Un giorno una mattina
D. visita l’ultimo paziente del suo turno alle sette e trenta. Carlo ha 90 anni ed ha atteso tutta la notte seduto. Osservando e pazientando. Non ha urlato. Non ha inveito. Entra, D. gli chiede scusa per l’attesa. Lo guarda. Gli chiede “posso?” e senza aspettare una risposta lo abbraccia.
D. una mattina rientra fortificato. Capisce che forse c’è ancora del buono nel suo lavoro. Forse gli unici antidoti possibile per non arrendersi rimangono la capacità di intravedere la bellezza e l’ironia di colorare tutto il resto. Perchè bellezza e ironia sono rifugi sempre sicuri, anche, in tempo di pandemia.
Allora D. Prende il sacco pelo e va in campeggio nella nuova tenda del suo ospedale, leggendo le vignette di Leo Ortolani. Ricordando che siamo Italiani, buona, ironica e geniale gente. E Ricordando di conservare la memoria di ciò che sta capitando. Perchè possa e debba non succedere ancora.
Per il momento è sufficiente così, in attesa di tempi migliori.
Bellissima e profonda riflessione. Grazie
Uno scienziato operativo in corsia e specializzando nell’anima ci fa sperare in un mondo migliore. Nel tempo libero dovrebbe coltivare la scrittura che mi ha incantato.
Ti voglio bene ?
Grazie … sono piemontese , sono medico di base , ed ho tre figli medici che hanno imparato non dal padre come VOI SEI ma dalla MADRE che non c’è più e , a leggerti , mi sono sentito un lillipuzziano di fronte ad un GIGANTE !!!
Grazie Davide! Anche questa volta sei riuscito a dare voce in modo profondamente piacevole a quello che in tanti stiamo provando e vivendo!
Grazie…..
Come sempre sei splendido, le tue parole riescono sempre a colpirmi e toccare corde che a volte non vorremmo scoprire…hai rappresentato perfettamente quello che sento e sentiamo ogni giorno in questa ennesima sfida…ti mando un abbraccio virtuale…grazie
La speranza non potrà mai esserci rubata in modo definitivo. Un mondo migliore è possibile così come un’Italia migliore.
Ahimè, se la classe medica è tanto bistrattata oggi è anche colpa di tanti medici che hanno cavalcato e accarezzato la politica più che la Medicina, quale professione.
Bellissime parole in cui mi rispecchio in pieno
Grazie Collega
♥️♥️♥️
Hai preso le mie sensazioni e le hai portate per mano.. grazie
Incantato dal tuo modo di scrivere così chiaro e affine al mio pensiero resto in attesa di poter leggere, prima o poi, il tuo primo libro.
Grandissimo Davide!
Grazie a tutti dei commenti al mio post.In un momento così delicato, ho l’immensa fortuna di un blog di medicina d’urgenza, un logo di scambio di informazioni ed aggiornamenti clinici ma anche di sensazioni ed emozioni. Ed un posto dove cercare la speranza, quando alla sera rischio spesso di dimenticare dove la avevo posata. Perchè come dice Nicola, “La speranza non potrà mai esserci rubata in modo definitivo”. Ed insieme a questa, la consapevolezza che un mondo ed un modo migliore di lavoro possa essere possibile, perchè di quel mondo siamo parte anche noi.
Doc Davide non sono una Sanitario anche se opero in emergenza urgenza CRI da volontario e da volontario presso la più grande ONG di soccorso medico umanitario, ti ho letto e medito ancora sulla tua profonda testimonianza. Grazie.
Consola un po’ sapere di non essere soli a sentirsi sconfitti e delusi dal sistema…Spero che questa esperienza insegni a noi medici a fare più gruppo ed a qualcun altro a prendere le proprie responsabilità più seriamente…
Emozionante! Come ora in pochi riescono ad esserlo!
Complimenti!
Vi seguo da tempo e premetto che mi dispiace lasciare, come mia prima traccia qui, un commento polemico, ma non posso non ammettere che ho condiviso quasi del tutto questo post fino alla sua conclusione, in cui mi sembra di vedere un intento consolatorio: d’accordo, le cose vanno malissimo, non sappiamo più dove mettere i pazienti, non abbiamo i mezzi e gli strumenti per trattare al meglio le persone… però facciamo comunque il lavoro più bello del mondo.
Intendiamoci: è vero, facciamo il lavoro più bello del mondo. Ma il problema è che in questo momento non lo stiamo facendo più, quel lavoro: passiamo (o, almeno, io passo) la maggior parte dei nostri turni a tentare di risolvere problemi che non sono medici, e che non dovrebbero essere affrontati da un medico di pronto soccorso; inventiamo percorsi, stiliamo in pochi minuti protocolli, telefoniamo a destra ed a manca per sapere come trattare questa o quella situazione, che sapevamo benissimo si sarebbe presentata ma che “chi di dovere” non ci ha indicato come trattare. In poche parole: improvvisiamo, perché non possiamo fare altro; perché siamo l’unico, maledetto posto in tutto l’ospedale dove non puoi chiudere le porte, dove se si presenta qualcuno alla porta non puoi dirgli “No, questo è un reparto pulito, lei non può entrare” o “No, qui non posso trattarla, vada da qualche altra parte”: insomma, perché siamo quelli che, come al solito, devono sobbarcarsi i limiti di un sistema che sta fallendo a dare risposte, benché abbia avuto tutto il tempo per prepararsele. Stiamo seriamente rischiando di non poter trattare bene i nostri pazienti, perché chi avrebbe dovuto prepararsi a questa seconda fase tanto temuta non l’ha fatto, perché ha preferito dire “Vabbè, magari il Covid mi passa vicino e non mi vede”, e noi, invece che con loro, ce la stiamo prendendo con uno sparuto gruppo di persone che non vuole mettersi la mascherina (non parlo con l’autore di questo post, ma con tanti medici ed infermieri che ho visto scrivere post e tweet in cui dicevano, essenzialmente, “vieni in corsia con me e ti faccio vedere che ce n’è, di Coviddi”): con chi ci sta mettendo praticamente di fronte ad un ricatto, dicendoci “queste sono le condizioni, se vuoi lavorare così, bene, altrimenti non lavorare affatto”. E questa situazione, credo, dovrebbe riempirci di una rabbia senza consolazione.
Grazie per lo spazio e scusate lo sfogo.
Ciao Gabriele, scusa per il ritardo nella risposta e grazie per il tuo sentito sfogo. Tutto giusto e perfetto, il tuo ragionamento. Penso però che non debba esistere una rabbia senza consolazione. Perché temo porterebbe inesorabilmente al passo successivo: crollare. Possiamo e dobbiamo scegliere, a mio avviso, di non cedere. Ed appigliarsi a qualcosa per mettere in pratica la nostra qualità più sofisticata e spesso celebrata: la resilienza. Non per passare per fessi. Ma per continuare ad essere spesso l’unico “faro nella notte”, come il Dr. De Iaco, ad un convegno SIMEU di qualche tempo fa, aveva definito il pronto soccorso e la sua specialità in senso lato. In attesa di tempi migliori, che dovremo iniziare realmente a costruire. Ma anche questo, in fondo, ho la convinzione e per il momento la speranza che dipenda da noi.