domenica 6 Ottobre 2024

Appendicite ed ecografia: più di una semplice conferma

Questo paziente ha un’appendicite. Per essere più precisi, questo paziente ha un’appendicite complicata. Come appassionato di ecografia d’urgenza mi piace spremere all’osso le possibili informazioni che possiamo ottenere dalla metodica, particolarmente quelle che permettono di identificare i pazienti ad elevato rischio. Quale migliore utilizzo degli ultrasuoni allora potremmo immaginare se non per differenziare le appendiciti complicate da quelle non complicate?

L’ecografia è senz’altro utile nel confermare l’infiammazione del processo appendicolare del cieco e rivaleggia con la TC nell’accuratezza diagnostica sebbene sia ad essa inferiore, sia per sensibilità, sia nella capacità di identificare le complicanze. Diciamo la verità: nella realtà italiana la TC non è un’indagine utilizzata comunemente per questo quesito diagnostico. Grazie al cielo. Di là dall’impatto che un utilizzo indiscriminato della TC avrebbe sulle risorse di un sistema sanitario come il nostro, è poco giustificabile l’esposizione radiologica quando la combinazione di valutazione clinica, osservazione e saggio utilizzo degli ultrasuoni possono garantire una gestione ottimale. Ad onor del vero, tuttavia, l’ecografia in questo ambito è spesso sottoutilizzata anche in una patria di amanti dell’ecografia come la nostra. È un atteggiamento che trovo disdicevole anche perché l’ecografia può consentire di identificare le forme complicate, ossia quelle in cui lo spazio per un trattamento conservativo si azzera.

Recentemente è stato pubblicato uno studio che ha preso in esame quali aspetti ecografici correlano con la perforazione. Sono state rivisitate le ecografie di 161 pazienti pediatrici con diagnosi operatoria di appendicite. In particolare sono state valutate le sensibilità e specificità dei seguenti segni ultrasonografici:

– presenza di ascesso (Sens 36.2%, Spec 99%)
– presenza e quantità di grasso periappendicolare esogeno (Sens 19.3%, Spec 89.3%)
– liquido libero non in prossimità dell’appendice (Sens 33%, Spec 78.4%)
– presenza di appendicoliti (Sens 54.4%, Spec71%)
– perdita dell’ecogenicità della submucosa (Sens 74.5%, Spec 52.9%)

Nella fascia al di sotto degli otto anni questi ultimi due riscontri davano risultati ancora più incoraggianti. L’attenuazione dell’ecogenicità della submucosa infatti raggiungeva una sensibilità del 100% ed una specificità del 73%, mentre il riscontro di appendicoliti avveva una sensibilità del 68.4% ed una specificità del 92%.

L’articolo chiosa affermando che l’ecografia è efficace nel differenziare le forme non perforate da quelle perforate. A sostegno di questa affermazione, dobbiamo dire che altra letteratura ha evidenziato l’utilità di tali aspetti ecografici giungendo a conclusioni simili. Per capire tuttavia perché in particolare questi riscontri siano indice di perforazione è utile correlarli alla progressione del processo patologico sottostante.

Si ritiene che la patogenesi dell’appendicite risieda principalmente in un processo di ostruzione del lume. Fecaliti, corpi estranei o iperplasia linfoide impediscono il deflusso del contenuto appendicolare incrementando la pressione transmurale. L’aumento di quest’ultima causa congestione venosa e un’ipoperfusione relativa che con il progredire dell’infiammazione diviene una vera e propria ischemia. Tale stato flogistico ed ischemico comporta la colonizzazione batterica della parete e il suo sovvertimento strutturale sino alla perforazione.
Per quanto è possibile che alcune forme riescano a risolversi spontaneamente, molte appendiciti suppurative progrediscono verso la perforazione in seguito al danno ischemico segmentario della parete oppure, caso ancora peggiore, evolvono verso forme gangrenose che si estendono a gran parte del viscere.

Quando la visualizzazione dell’appendice è soddisfacente, l’ecografia permette di indentificare lo stato di avanzamento di questo processo patologico.

Appendicite non complicata.
Le fasi iniziali dell’infiammazione sono caratterizzate dall’edema. La diretta conseguenza è un incremento del diametro trasverso del viscere, particolarmente significativo quando è al di sopra dei 7 mm (o anche un incremento dello spessore murale >3mm). L’analisi doppler evidenzia segnali vascolari diffusamente aumentati in ragione dell’iperemia che caratterizza le fasi precoci.
La parete è estesamente ispessita e la submucosa appare ben delineata ed ecogena. Inoltre il lume è disteso dall’accumulo di pus che appare anecogeno.

 Con il progredire dello stato infiammatorio la pressione endoluminale inizia a schiacciare le pareti ed in particolare lo strato più interno, la mucosa. In questa fase la parete, inizialmente ingrossata, si presenta al contrario assottigliata ma con una submucosa ancora ecogena e ben definita.

Appendicite complicata.
Presentando ai chirurghi i casi di appendicite complicata che diagnostico con l’ausilio dell’ecografia spesso mi viene chiesto se ho osservato la presenza di liquido libero. Comprensibilmente il riscontro di liquido endoperitoneale o retroperitoneale è un indice di alto sospetto per perforazione. Tuttavia è solo uno dei segni possibili e non è indispensabile per porre la diagnosi di perforazione.
La compromissione dell’integrità della parete è individuabile, innanzitutto, dalla riduzione o completa perdità di ecogenicità della submucosa. Questo cambiamento può essere anche molto focale e localizzato, più spesso, alle porzioni terminali del viscere. Un criterio fondamentale nella differenziazione tra appendicite complicata e non complicata all’ecografia consiste proprio nell’impossibilità di confermare la normale stratificazione della parete.

La migrazione dell’essudato infiammatorio luminale si estende al grasso del meso e successivamente a quello mesenterico o omentale. Il grasso appare intensamente ecogeno ed ingrossato. Queste caratteristiche ultrasonografiche semplificano l’identificazione dell’appendice perché il grasso forma un manicotto intensamente ecogeno circonferenziale che mette in evidenza il viscere.

Un altro elemento che correla con le complicanze sono gli appendicoliti. Quest’ultimi non significano di per sé perforazione anche se di solito sono causa di una ostruzione tenace che facilita la rottura dell’appendice. Sebbene con risultati un po’ variegati, dai dati disponibili in letteratura, i fecaliti sono statisticamente associati alle forme complicate.

Non tutti i processi appendicolari perforati producono la formazione di un essudato cospicuo. Talora, infatti, prevale un processo infiammatorio esteso ai tessuti circostanti con la formazione di una massa complessa che altro non è che un flemmone dell’appendice. Dal punto di vista ecografico talvolta queste immagini sono di difficile interpretazione perché il riconscimento dell’appendice può risultare difficile nel contesto. Quando invece l’essudato purulento è l’aspetto prevalente, si formano raccolte anecogene esterne che circondano l’appendice con dimensioni variabili. La presenza di liquido libero è frequentemente un segno di perforazione anche quando trovata a distanza dall’appendice.

Ancora una volta però le parole non possono sostituire le immagini. Pertanto vi lascio al secondo video sulle appendiciti ed ecografia. Tre dei video utilizzati sono stati presi dal sito di Sonocloud che invito gli appassionati di ecografia a frequentare e contribuire ad accrescere.

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Mattia Quarta
Mattia Quarta
Dott. Mattia Quarta Direttore di Pronto Soccorso Ospedale di Camposampiero Padova Specialista in Medicina Interna con Indirizzo d'urgenza Appassionato di ecografia d'urgenza. Supporter di FOAM @squartadoc | + Mattia Quarta

13 Commenti

  1. Complimenti!
    Finora ho avuto poca fiducia in me stessa e raramente provo a vedere con l’eco una sospetta appendicite….forse bisogna essere più tenaci.
    Grazie per la chiarezza
    Emanuela

    • Grazie Emanuela!
      Bisogna avere anche tenacia nel diffondere l’idea nella diretta controparte, i chirurghi, che è possibile porre diagnosi con l’eco. Io ho incontrato spesso diffidenza, particolarmente quando l’esame è eseguito dall’emergentista e non dal radiologo. è comprensibile. Rimane aperto il difficile capitolo della refertazione. Non si tratta di una FAST. Il referto a margine del verbale di PS non è sempre bene accetto per chi deve prendersi l’onere di portare il paziente in sala operatoria, particolarmente quando la clinica non è eclatante. Trovo molto utile nei casi un po’ controversi eseguire l’ecografia alla presenza del chirurgo, spiegando il decorso e le caratteristiche dell’appendice, e, inoltre, verificare, nel limite del possibile, l’esito dell’intervento per avere riprova della diagnosi ecografica.
      Bisogna essere sistematici, anche nel caos del DEA.

  2. Caro Mattia, ho letto, anche in questo caso e come sempre con grande interesse, i tuoi post sull’argomento US in emergenza-urgenza dedicati alle “appendicopatie”. Il lavoro è stato assai meticoloso e ricco di riferimenti di letteratura e iconografici. Ma, e ne hai fatto cenno durante l’argomentare, ci sono almeno due questioni sulle quali occorre soffermarsi un poco di più. La prima è la variabile tempo. Quando in un ps come il mio devi valutare, in un turno “medio”, c.a. quaranta Pz. dei quali almeno la metà (se non di più) richiede una “goal-directed” o comunque una “integrata” per una DD, quanto “tempo” puoi dedicare alla (per altro utilissima) discriminazione US dell’appendice complicata vs non complicata? Secondo punto (corollario): nel mio percorso formativo sull’ECO (comune a molti di noi) ho imparato a dare risposte “1-0” – “SI-NO” e poi, piano piano, ad approfondire su aspetti più complessi e salire la (difficile!) china delle descrizioni più fini ed articolate (v., ad es., i molti “incidentalomi” che scopri nelle traslazioni della sonda, pur navigando con i percorsi codificati nei vari algoritmi di studio ecografico in emergenza-urgenza). In sostanza: la ricerca ecografica sulle appendicopatie richiede tempo (molto di più, almeno per me) di una R.U.S.H. dove, fra l’altro, la variabile “tempo” per il trattamento ha un valore inestimabile. Se l’appendicite acuta complicata è un possibile “focolaio” settico, gli aspetti “descrittivi” sostanziali che ho imparato sono 3-4: dolorabilità-incomprimibilità-diametrie-fluido periviscerale. Se l’appendicite acuta è in DD nel dolore del QID senza elementi settici complicanti il quadro generale, anche in tal caso valgono, credo, le predette “regole” (in ordine di sequenza e complementarietà alla clinica e al laboratorio). C’è infine un aspetto, “not least”: il dolore. In ragione anche dell’alta variabilità anatomo-topografica dell’appendice ciecale, spesso devi “spazzolare” parecchio sull’addome. Nella donna hai anche altri “focolai potenziali” da studiare, tra l’altro. Specie in età fertile. Come ben sai. Il dolore DEVE essere trattato per primo e richiede anche questo “tempo”. Solo con un efficace trattamento del dolore lo studio diventa fattibile, tecnicamente e, soprattutto, umanamente (!). Concludo: il tuo lavoro rappresenterà sicuramente un ulteriore punto di riferimento nel mio approccio al problema, ma dubito, in virtù sia della consapevolezza di non riuscire a superare (aimé) i miei limiti, sia del quotidiano affollamento del mio piccolo box, di poter mai raggiungere la “finezza” diagnostica da te proposta.
    Con stima e cordialità – mauro casazza – m.c.a.u. – p.o. sant’andrea – sp

    • Caro Mauro grazie per il commento. Grazie davvero: tutti i punti che hai toccato sono più che reali e sono felice di poter rispondere alle tue osservazioni puntuali. Dirò di più: i tuoi dubbi sono stati anche i miei.

      Permettimi, ciononostante, di dilungarmi un po’ per farti comprendere il mio punto di vista, partendo da una premessa. Il post deve essere interpretato come atto divulgativo, non come una chiamata alle armi per impadronirsi della diagnostica ecografica tout court. Esiste, tuttavia, un problema reale. Il DEA è il punto di approccio delle appendiciti ed è un fatto statisticamente e clinicamente rilevante. A fronte di ciò l’ecografia dell’appendice è frequentemente orfana di esecutori, lasciandoci come alternativa la diagnostica radiologica, l’osservazione protratta e una quota più o meno invariata negli anni di laparotomie inutili.

      Il tempo è un fattore limitante per il PS. Guardiamo, in effetti, le cose dalla stessa prospettiva. Anche nel mio lavoro ho puntate personali, particolarmente notturne, di 40-50 pazienti.
      Per indole non sono uno che ama i sofismi nel DEA.
      L’ecografia d’urgenza ha quesiti e risposte semplici e combina efficienza a efficacia. Questo però è particolarmente vero per i pazienti critici o a rischio di rapida evoluzione. Ma per un dolore addominale dà meno frequentemente una risposta definitiva.

      I video che ho utilizzato (a parte tre) sono tutti collezionati durante l’attività clinica ordinaria nel corso di uno o due anni. Penso sia tempo ben speso considerando che l’esame di per sé non porta via che alcuni minuti. Il punto sta nell’identificare l’appendice, se possibile, e il resto è abbastanza semplice, purché si sappia cosa guardare.

      Ma non voglio tirare acqua al mio mulino. Fosse pure che, sopratutto nelle fasi iniziali della curva di apprendimento, l’indagine richieda dieci-quindici minuti credo che il gioco valga ancora la candela. Bisogna mettere sul piatto della bilancia dieci minuti contro ore di tempo speso in osservazione e rivalutazione, in attesa, magari, di ottenere un’indagine ulteriore e in prospettiva, potenzialmente, di una laparotomia/laparoscopia diagnostica.
      Non mi fraintendere utilizzare il tempo di osservazione per giungere ad una diagnosi è una opzione ragionevole e valida. Credo che sia riducibile a vantaggio del carico di lavoro del DEA. Quanto sia la quota di diagnosi possibili non sono in grado di dirlo. La quantificazione di questi approcci è spesso difficile.
      La mia visione, senza dubbio, è estremamente piena di bias ed è aneddotica. Dalla letteratura che ho riportato però emerge una sensibilità/specificità piuttosto elevate che sono incoraggianti.
      Credo che come per la ‘colecistopatie’ si possa giungere ad una diagnosi ecografica attendibile da parte dei medici urgentisti, quanto meno, come tu hai osservato, per il quesito: “appendicite sì/no?”

      Affidarsi solo ai diametri però può essere fallace. Parliamo di pochi mm. Conoscere qual’è l’aspetto dell’appendice nelle fasi di evoluzione della flogosi aumenta di molto l’affidabilità della diagnosi. Richiede tuttavia uno shift culturale che, mi rendo conto, è apparentemente difficile e non scevro da ripercussioni.

      Rimango dell’idea, ciononostante, che al momento vi sia un vuoto diagnostico colmabile di cui credo l’urgentista possa farsi carico.

      Ancora un punto che hai toccato e che mi sta a cuore: il dolore. Sono un nemico giurato dell’oligoanalgesia, anche quando eseguo l’ecografia che oramai coincide con la visita del paziente. Io credo all’ecografia facilitata dagli analgesici e generalmente il momento dell’esame sonografico coincide, nella mia pratica, con la somministrazione di una analgesia rapidamente efficace (100 anche 200 mcg di fentanyl) senza alcun indugio.
      Ma questo è ovviamente il mio personale e modesto punto di vista, seppure a lungo ponderato.

      Grazie ancora per il tuo commento.

      • Caro Mattia, a questo punto potrei limitarmi a scrivere che condivido la tua risposta. E’ supportata oltre modo da “evidenze” che provengono dal nostro confronto con la realtà quotidiana. Il dolore è il sintomo che preoccupa i nostri Pz. prima ancora della sua causa.
        La massima riduzione della sofferenza cagionata dal dolore deve essere un imperativo categorico e imprescindibile. Prima di qualunque nostra azione. Diagnostica e terapeutica consequenziale. Al bando, dunque, l’oligoanalgesia! E con tutti i mezzi che abbiamo a disposizione (come Fabio De Iaco & C. mi hanno magistralmente insegnato!). Poi “vediamo” che ci sta sotto.

        Nelle “appendicopatie” (così come nelle colecistopatie, nelle coliche renali, in molte fratture maxillofaciali, nelle traumatologie senza evidenza di danno d’organo, etc. etc.) c’è un’ampia “zona grigia”.

        Essa va ben oltre le “cinquanta sfumature” di certa letteratura e le molte, molte di più di quelle che ci rimanda il trasduttore sullo schermo.

        Appare sempre più evidente come certe sindromi e le sottese eziopatogenesi siano ormai entrate nel capitolo di un libro ancora non scritto: “Patologie ad alta prevalenza ed incidenza: orfane”. Esse sono da subito nostre figlie adottive quando si presentano in PS. Diamo loro (come nei casi da te descritti) nomi e cognomi definiti.
        Diamo loro dignità esistenziale e “jus soli” (in ER). Le iniziamo a trattare e ci apprestiamo a indicare nel referto le “disposition”.
        Aspettano solo una “casa” che possa accoglierle. Ma… e qui inizia la zona grigia e l’indeterminatezza del loro destino… tornano ad essere “orfane ed homeless” nel momento in cui (per le varie ragioni che hai elencato) non sono ancora “abbastanza chirurgiche vs impropriamente mediche”.

        I “deus ex machina DRG”, dall’alto del suo sproporzionato e indiscutibile potere, rende le nostre scelte frustranti e sempre più spesso di ripiego. OB su inospitali barelle appoggiate ai muri dei corridoi del PS… e per le più fortunate (spersonalizzo volutamente l’elemento umano portatore della sofferenza) forse una stanza in medicina d’urgenza…

        E, infine, l’ultima opzione, la “Casa” (il domicilio legale): “ritorni se peggiora…vediamo come passa la notte…controlli la febbre… etc etc” (confidando nella nostra capacità di aver ben interpretato la “compliance” del Pz. – spesso minore – e del contesto familiare).

        Hai ragione da vendere Mattia! Vale la pena dedicare quei preziosi minuti in più (strappati al malefico “overcrowiding”) per non rendere “orfane” situazioni – anche – potenzialmente letali.
        Con ancor maggiore stima e cordialità 🙂 – mauro.

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