Sei stato un vero pugno allo stomaco. Senza preavviso, in pieno centro. Il 118 aveva provato ad avvertirci allertandoci del tuo arrivo. “Rosso cardiologico, giovane con defibrillatore” erano state le parole ad un’ora dalla smonta. Giovane, ma quanto giovane… non avevo riflettuto abbastanza su quelle parole. Non le avevo soppesate correttamente. Giovane poteva anche essere un cinquantenne con cardiopatia ischemica e mi ero convinto fosse così. Non sono stati i piedini bianchi, pallidi che ho visto quando ho aperto le porte dell’ambulanza appena fuori il nostro Pronto Soccorso nè il rianimatore che mi gridava mentre continuava a massaggiare. È stato il tuo viso senza un filo di barba con ancora i brufoli il vero cazzotto. Non me l’aspettavo, mi hai steso fin da subito.
Ricordo che i tuoi genitori sono arrivati in Sala Rossa solo qualche istante dopo. Ricordo che qualcuno li aveva invitati ad uscire per fare lavorare i medici. Ricordo che gridai contro qualcuno e non in modo grazioso. A che punto della storia abbiamo deciso che un ragazzo debba andarsene solo senza i suoi genitori? A che punto della storia abbiamo deciso di privare un genitore anche di questo? A che punto della storia abbiamo perso l’empatia?
Non è questione di letteratura scientifica è questione di mera etica, nulla più nulla meno. Capire cosa sta succedendo dall’altro lato della barricata. Siamo pagati anche per questo, siamo pagati anche per scavalcare quotidianamente questa barricata e guardare con altri occhi.
A che punto della storia abbiamo deciso che il paziente è il nostro nemico? E se il paziente è il mio nemico chi ha deciso che io sono il nemico del mio paziente? Decidere di interrompere le manovre è un supplizio ed andiamo oltre, oltre. Finiamo la rianimazione esausti, sudati, affannati, stanchi.
Ci sono 15 persone in Sala Rossa. In molti ci siamo alternati nel massaggio… questa volta stacchiamo le mani dal petto arrabbiati e un po’ più bruciati dentro. Più degli altri giorni… anche noi abbiamo perso qualcosa.
Da allora è stata una caduta in basso, difficoltà a lavorare correttamente, a concentrarmi, a lavorare con serenità ed a mente serena nelle settimane successive. Purtroppo sono cascato anch’io nella trappola Burn-out: la stanchezza fisica e morale, la difficoltà ad affrontare un turno, la difficoltà ad assumere le responsabilità o ad effettuare una scelta complessa, l’esaurimento morale.
Molti dicono di non legarti ai pazienti, di staccarsi, di staccare la spina quando finisci il turno di lavoro. Ma è l’empatia la causa del burnout? È l’empatia, che facendoci soffrire con il paziente o con i familiari, ci consuma un po’ e come una piccola scintilla accende il fuoco del burnout?
La relazione tra burnout ed empatia è chiara in letteratura, non è chiaro se sia causa o soluzione però. Sir William Osler, di cui nutro una grande stima, nel lontano 1912 asserì che solo “neutralizzando le loro emozioni fino al punto da non provare nulla nei confronti della sofferenza, i medici potranno vedere dentro e quindi studiare gli aspetti interiori della vita del paziente.
(… neutralizing their emotions to the point that they feel nothing in response to suffering, physicians can “see into” and hence “study” the patient’s “inner life”).
Ma è davvero così semplice? Così facile? E’ davvero il modo corretto? Eclisso i miei sentimenti, divento un automa, mi estraneo dalla sofferenza del paziente ed il gioco è fatto?
Riesco davvero a farlo:
Quando ho sulla barella in sala Rossa un ragazzino di 15 anni? Quando un ragazzino autistico ha paura perché non vuole dati i punti di sutura? Quando sulla barella c’è un tuo vecchio zio che ha paura di aver posizionato un sondino naso-gastrico?
Nessuno ha la risposta, io ho la mia. Ho letto molto sul burnout in questi ultimi mesi, paragonarlo alla sindrome da stress post traumatico non è errato… hanno molti aspetti in comune e lo stretto e continuo contatto con la morte è un chiaro fattore di rischio.
Recentemente la American Thoracic Society ha pubblicato un lavoro che ha ruolo di review e di “call for action” , una richiesta di aiuto, in quanto non esistono chiare terapie EBM. Il titolo del lavoro è: A CRITICAL CARE SOCIETIES COLLABORATIVE STATEMENT: BURNOUT SYNDROME IN CRITICAL HEALTH-CARE PROFESSIONALS. A call for action.
Analizziamolo insieme.
Il burnout è una sindrome che colpisce individui professionalmente legati ad altri. Non solo è responsabile di un peggioramento della qualità di vita del sanitario ma è anche responsabile di un calo della qualità delle cure tramite un aumento di episodi di negligenza e di meri errori medici. Le aree di emergenza-urgenza sono quelle con più alta prevalenza di burnout, con percentuali che superano il 50%.
Nella prima fase gli individui provano stress emotivo ed disillusione verso il proprio lavoro, dopo di ciò perdono l’abilità ad adattarsi al lavoro, ai colleghi ma anche ai pazienti.
Sono tre gli aspetti del burnout da considerare:
– Esaurimento: esaurimento delle proprie energie, fatica, fisica e mentale
– Depersonalizzazione: indifferenza verso il lavoro, cinismo, atteggiamenti scorretti nei confronti dei colleghi, biasimare il paziente per il proprio male, incapacità ad esprimere empatia o dolore nei confronti del paziente
– Ridotta realizzazione personale: tendenza a dare una valutazione negativa del proprio lavoro e dei colleghi
Esistono poi dei sintomi aspecifici come la frustrazione, la rabbia, la paura e l’ansia e veri e propri sintomi fisici quali la stanchezza, sintomi gastrointestinali quali la diarrea, cefalea.
Uno strumento efficace per la diagnosi di Burn-Out è il Maslach Burnout Inventory, una sorta di questionario a 22 domande autocompilabile.
Prevalenza
L’incidenza è alta, troppo alta. Circa il 25-30% degli infermieri di Area Critica manistestano severi sintomi di Burnout e fino all’86% manifestano uno dei tre classici sintomi. Il sintomo più comune tra gli infermieri di area critica è l’esaurimento emotivo (73%), seguito dalla perdita di soddisfazione personale (60%) e dalla depersonalizzazione (48%).
Solitamente vi è una sorta di effetto nicchia, vi sono unità con pochi soggetti colpiti da Burnout ed unità in cui divampa. I meccanismi possono essere un effetto “contagio” da parte dei colleghi “infetti” nei confronti di chi ha ancora voglia e stimoli verso il lavoro (“ma che fai?”, “chi ti ci porta?”, “tanto qua è tutto una merda”, “se lavori così devo sbracciarmi pure io?”) oppure un effetto legato all’unità operativa o alla struttura in generale in cui si lavora davvero male e senza mezzi (ciò innescherebbe il burnout in tutti i lavoratori). I due meccanismi non sono mutualmente escludibili. Ovviamente la situazione in cui versa il nostro sistema sanitario con i tagli ed i contro-tagli è carburante e comburente per il nostro Burnout.
Fattori di Rischio
I fattori i rischio per il burnout possono essere suddivisi in 4 categorie:
1. caratteristiche personali
2. fattori organizzativi
3. qualità delle relazioni lavorative
4. esposizione a problematiche di fine vita
Analizziamoli uno alla volta.
Punto 1. Tra le caratteristiche personali abbiamo l’essere troppo critici con se stessi, deprivazione di sonno e rapporto vita privata/lavoro sbilanciato. Altri fattori di rischio sono rappresentati da idealismo, perfezionismo ed overcommitment (super-impegno). Il documento sottolinea che queste qualità sono presenti nei migliori dipendenti, nei migliori lavoratori. Una volta ritenuto un problema di fine carriera, il burnout invece è risultato essere un problema di inizio carriera (quasi il doppio dei colleghi anziani, anche gli studenti non sono esenti). E’ possibile che a fine carriera si riescano a sviluppare dei meccanismi difensivi.
Punto 2. Aumentato carico di lavoro, assenza di controllo, scarso riconoscimento, conflittualità al lavoro.
I problemi organizzativi che causano burnout sembrano differire tra infermieri e medici. Gli infermieri sembrano soffrire il rapido turn-over di pazienti e il ridotto potere decisionale. I medici sembrano soffrire di più le notti insonni ed il carico di lavoro in generale.
Parlando di decisioni riguardanti il fine vita, spesso l’infermiere soffre nel subire la decisione del medico con “impotenza”, il medico soffre nel doverla prendere.
Il sentirsi abbandonato dalle strutture di controllo, dalle strutture superiori (come la Direzione Sanitaria o peggio dal Ministero della Salute) è un chiaro fattore di rischio di Burnout. Chi di noi nei momenti di disperazione (quando non hai nemmeno una barella per visitare il prossimo paziente) non ha pensato “ma se non gliene fotte niente a loro perchè devo fottermene io”?
Il non avere un posto di lavoro stabile e lavorare nell’urgenza: avere un contratto a 6 mesi e dovere lavorare in trincea… ditemi se non causi un malessere interiore che può sfociare in burnout.
Punto 3. Nulla da aggiungere: le relazioni conflittuali con i colleghi e con i pazienti sono una sorgente inesauribile di Burnout sia che tu sia medico che infermiere. E’ qualcosa però sulla quale si può sempre lavorare, attivamente, in modo costruttivo, giorno per giorno.
Tutti noi abbiamo colleghi con i quali non riusciamo a lavorare correttamente (dalle mie parti si dice “non riuscire a fare pane assieme”) ma nulla ci vieta di sforzarci a creare un punto di incontro.
Punto 4. Avere a che fare con la morte brucia, è evidente. Le unità operative con più alta mortalità hanno il rischio di Burnout maggiore.
Improvvisiamo un debriefing in lacrime insieme al cardiologo interrogando l’ICD… una sorta di autopsia, capire cosa è successo attenua, lenisce ma non dà pace…
CONSEGUENZE DEL BURNOUT
Il Burnout può sfociare in disordine da stress post-traumatico, abuso di alcolici ed idee suicidarie. E’ dimostrato che i medici americani hanno un maggiore prevalenza di questi problemi rispetto alla popolazione generale. Il disturbo da stress post-traumatico può insorgere dopo un singolo evento catastrofico o con la cronica (ripetuta) esposizione ad eventi “tragici” (anche la visualizzazione di ferite aperte o sanguinamenti massivi può essere considerato tale).
Il Burnout favorisce il turn-over del personale dai reparti. Il personale abbandona il reparto (nei casi più gravi il tipo di lavoro) con conseguente ri-organizzazione dell’unità operativa che si ritrova periodicamente dei novellini da instradare e formare. Ricordo che quando arrivai in Pronto Soccorso mi dissero “qui si ricomincia sempre da capo, poi vedrai”.
Tutto ciò ha un costo economico ovviamente.
Ultimo, ma non ultimo, anche la performance lavorativa è influenzata dal burnout. Vi è una forte correlazione con qualità dell’assistenza, scarsa soddisfazione del paziente, incremento del numero di errori medici, aumento delle infezione health-care e mortalità a trenta giorni.
Cimiotti JP, Aiken LH, Sloane DM, Wu ES. Nurse staffing, burnout, and health care-associated infection. Am J Infect Control 2012;40:486–490
Poghosyan L, Clarke SP, Finlayson M, Aiken LH. Nurse burnout and quality of care: cross-national investigation in six countries. Res Nurs Health 2010;33:288–298.
La correlazione con l’errore medico è bidirezionale: l’errore porta al burnout, il burnout porta all’errore.
INTERVENTI PER PREVENIRE O TRATTARE IL BURNOUT
Non esistono reali interventi EBM per prevenire o trattare il burnout. Le strategie per combattere il burnout sono il lavorare fianco a fianco nel modo migliore possibile. Promuovere un ambiente di lavoro salutare (healthy come dicono gli inglesi) basato sul rispetto del collega e soprattutto del paziente sembra essere uno strumento utile a combattere e prevenire il burnout.
Basandoci su di un report dell’American Association of Critical-Care Nurses sono sei i punti da attenzionare per ricreare un ambiente di lavoro Healthy
1) skilled communication
2) true collaboration
3) effective decision-making
4) appropriate staffing
5) meaningful recognition
6) authentic leadership
Condivido molto questi punti. Ma non è facile ottenerli, il lavoro deve essere costante. Altri punti aggiuntivi possono essere “evitare e gestire i conflitti” e “migliorare le cure end-of-life”.
Altro punto importante sembrerebbe essere il “de-brifieng”. Succede qualcosa di “grosso” di importante, ci si siede tutti a tavolino e si cerca di capire cosa è successo.
Il succo del discorso è che spesso si finisce nel burn-out da soli a causa di un ambiente malsano ma si esce a stento da soli: bisogna lavorare tutti insieme. Il succo del discorso è che non ci si può salvare da soli.
CONSIDERAZIONI PERSONALI
Il burnout è una sindrome complessa, figlia della interazione tra il sanitario in questione e l’ambiente. Non vi sono precise cause scatenanti ma è più corretto parlare di fattori di rischio. L’ambiente di lavoro, ed in particolare l’ambiente di lavoro dei Pronto Soccorso Italiani in cui tutti noi (possiamo dirlo a gran voce) siamo stati ABBANDONATI dallo Stato e dalle nostre strutture dirigenziali, rappresenta a mio avviso il più grosso fattore di rischio. Non è solo lo stress il responsabile del burnout, vi è anche la noia. L’annoiarsi a lavorare. Supponiamo un PS in cui tutto viene demandato allo specialista (ce ne sono tanti), il paziente transita dall’Area di Emergenza, ma viene trattato e gestito nei vari reparti. Eldorado per tanti colleghi, zona di frustrazione e scarsa soddisfazione professionale per chi in questo cazzo di lavoro ci crede.
C’è chi considera essere il medico una missione, c’è chi considera essere medico un buon modo per fare tanti “piccioli”, c’è chi lo considera una scienza.
C’è chi dice che non è importante essere gentili e dolci, basta sapere curare bene le malattie. Infatti vengono licenziati solo i medici incapaci, magari gentili, ma la Direzione Sanitaria non toccherebbe mai un sanitario sgarbato ma molto bravo. Questo è vero. Ma il soggetto di questa affermazione non è il medico ma il dirigente medico. C’è una grossa differenza tra essere medico ed essere dirigente medico. Non so se essere medico sia una missione. Sono certo che essere dirigente medico non lo sia. Spesso per essere un ottimo dirigente medico, schiavo di organi superiori, si deve essere un pessimo medico.
Non avete idea di quante volte mi sia sentito medico ed in pace con me stesso andando oltre l’essere un buon dirigente medico.
Credo che essere medico sia principalmente empatia, sapere andare dall’altra parte della barricata. Credo fermamente che l’empatia e la simpatia verso il paziente siano strumenti necessari a non bruciarsi.
“Empathy Is a Protective Factor of Burnout in Physicians: New Neuro-Phenomenological Hypotheses Regarding Empathy and Sympathy in Care Relationship” Front Psychol 2016 7:763
L’empatia è molto probabilmente un fattore di rischio per il burnout. E’ impossibile non soffrire con le persone che ci circondano per quanto poco le possiamo conoscere. E’ possibile che ci si stanchi di soffrire con i pazienti. E’ probabile che per quanto piccoli ci bastino i problemi che abbiamo tutti noi a casa e non ne vogliamo di nuovi. E’ certo però che l’assenza di empatia vada considerata burn-out in stadio avanzato. E se l’empatia è un fattore di rischio preferisco camminare sul ciglio del precipizio che precipitare in caduta libera.
Medico cura te stesso...
Ho trovato pace su una panchina dell’Ospedale all’inizio di un anonimo turno notturno settimane dopo. Tuo padre mi è venuto a cercare per chiacchierare, anche lui cercava pace. Cercava risposte. Abbiamo parlato di te, mi ha raccontato chi eri, chi volevi essere e conoscendoti ti ho rivisto con nuovi occhi…
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“Alcuni pescatori dicono poi che nelle giornate più belle si intraveda l’ombra di un ragazzo che nuota placido in mezzo al mare”.
A.E.M.
P.S. Solitamente curo molto l’aspetto iconografico dei vari post. Finita la stesura qualcosa mi ha detto che non era necessario aggiungere nulla.
Grande. Davvero grande. Perfettamente in linea con quello che noi SAUusti diciamo da anni e che abbiamo approfondito nel corso di Medical Humanities. Quelli come te che fanno dell’aspetto umano una competenza, sono i veri medici d’urgenza. Ti abbraccero’ a Napoli.
Ehi Mario, grazie mille del commento… è un post molto sentito. Non sono riuscito a scriverlo di pancia, ho dovuto attendere un po’ prima di poterlo scrivere. Ho dovuto elaborarlo e capire che taglio dare. Sono contento che Ti sia piaciuto! Un abbraccio, spero di vederti a Palermo il giorno 11 Ottobre
Bellissimo. Grazie. Questo post fa sentire meno soli, probabilmente cura il burn out.
Grazie ancora.
Bellissimo post. Mi riconosco in tutto quello che hai scritto.
Ottimo post, da diffondere
Complimenti. E’ un argomento da condividere e di cui si dovrebbe parlare spesso.
A livello organizzativo credo che ci vorrebbe una Burnout Stewardship analoga alla Antimicrobial per gestire il problema in ottica più ampia.
Concordo assolutamente con te. Allo stesso modo penso che il bisognerebbe inserire il consulto psicologico obbligatorio (in modo tale da non essere tacciati) dopo ogni evento tragico o quantomeno un de-briefing obbligatorio con membri di una task-force anti-burnout
Assolutamente.
E’ appena uscita una meta-analisi a riguardo: http://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(16)31279-X/fulltext
Caro Mauro
ricordo di aver visto delle immagini che ritraevano l’ospedale dove tu lavori e di aver pensato che finire il turno e vedere il mare potesse essere qualcosa di davvero straordinario e rilassante…ma le giornate di merda lo sono indipendentemente da cosa c’è fuori dal tuo ospedale e chi è medico o infermiere nell’ambito dell’urgenza lo sa meglio di chiunque altro.
Lo sa perché ha scelto un lavoro in cui tutto è veloce, caotico, sporco, disordinato, confuso…tutto si svolge in minuti che sembrano ore e alla fine rimane la sensazione di aver urlato o inveito senza sapere né cosa si è detto né tanto meno a chi lo si è detto…
Le sale emergenza e le ambulanze sono come il “miglio verde”: ciò che succede mentre lo si percorre rimane lì, non perché sia un segreto da mantenere ma perché solo chi ha condiviso con te quei minuti sa cosa sono stati…ed è questo il nostro vero problema: quel senso di appartenenza e condivisione, ci fa sentire soli quando lo scenario ” cambia”…
Sapessi quante volte ho maledetto il giorno che ho scoperto questo lavoro mi piace e probabilmente non saprei fare altro. E se il burn-out fosse un meccanismo per dire basta, aiuto, non ce la faccio più?
Sergiuzzo, non so dirti se il burn-out è un meccanismo di difesa. è qualcosa che ti costringe a rallentare e che dovrebbe costringerti a rimettere tutto in discussione.
Qualcosa si è infranto, come faccio a rimettere insieme i cocci!
grazie
Mauro, grazie davvero per l’articolo! Hai dato voce e parole a un aspetto importante del nostro lavoro. Mi piace un sacco condividere che “il succo del discorso è che non ci si può salvare da soli” !!!
Ciao Raffa! Grazie mille!!! Sono davvero convinto che non ci si possa salvare da soli. La collaborazione è sempre il modo migliore per ‘salvarsi’, anche quando ci si trova a 100 km i distanza. Ricordi quando mi aiutato per quella ematemesi? Hai piantato un piccolo semino di albero anti-burn-out
Sono dieci minuti che penso a come rispondere, ma non riesco a costruire un discorso concreto.
Mi spiego.
Mi sono laureato lo scorso anno, ho iniziato come tutti con sostituzioni, guardie mediche, centri estivi, qualcosa con il 118, insomma, le solite cose prima di entrare in specialità per potersi dire da soli “ho studiato come un pazzo 6 anni per mettermi un camice, finalmente posso usarlo!”, in pratica 5-6 mesi di lavoro. Un tempo infimo per chiunque bazzichi su questo blog.
Bene.
Primissime volte da solo, primissime volte a dover parlare con un paziente, fare una diagnosi, dare una terapia il più consona possibile; primissime paure, indecisioni, pazienti che si inalberano più o meno giustamente, e soprattutto casi gravi, brutti, fra tentati suicidi, glioblastomi, ESA, peritoniti e simili.
Onestamente non sono mai stato estremamente empatico, emozionale, anzi, la pochissima pratica fatta negli anni di studio mi ha insegnato a distaccarmi sempre il più possibile.
Però poi si è lì, davanti a qualcuno che stà davvero male, a cui hanno dato una prognosi di qualche mese o che stà già morendo davanti ai tuoi occhi, e si è soli dannazione, non c’è il tutor o il collega che ti dà una mano, e tutto questo a 26 anni, quando il resto dei coetanei sta pensando a metter su famiglia, trovare i primi lavori seri o farsi le vacanze.
Ho appena iniziato, ma ho già trattenuto il pianto un buon numero di volte, e altrettante volte mi sono dovuto chiudere dietro alle mie nozioni e a quattro algoritmi, a fare finta che tanto non ci sono io steso per strada o su un letto ma uno sconosciuto.
Tutto questo per dire che, cavolo, non è facile come sembri, da una parte ci si strazia nella proprio impotenza davanti all’inevitabile e dall’altra si perde del tutto l’empatia come meccanismo di difesa (sapendo di sbagliare), e in tutto ciò non c’è un cane con cui confidarsi.
Non prendiamoci in giro, anche con gli altri amici, e non colleghi, medici nessuno direbbe mai “cavolo, sono quattro giorni che penso a quella signora che si è buttata” quanto piuttosto “ma secondo te ho fatto bene a alzare il dosaggio di x e mandarla da y? Magari dovrei aggiungere z in terapia?”.
E’ un mestiere difficile, che, forse, differentemente da tanti altri, ti prende e non ti lascia durante la giornata, non ci si toglie mai del tutto quel camice appeso in studio. E, lo ripeto ancora una volta, ho notato, in questo pochissimo tempo, il deserto emotivo che ci si costruisce e in cui si lavora;
grazie, come ogni volta, a empills e a Mauro per esser sempre sui punti critici della medicina e sulla medicina.
Non c’è vergogna a confrontarsi con i propri colleghi sugli argomenti di etica e di morale. Sono stato settimane a parlare con Carlo (D’Apuzzo) di questo post e di questo ed altri casi. Non si può ovviamente parlare di questi argomenti con chiunque, fanno parte di una parte nascosta e delicata di noi, ci vogliono degli amici veri per confidarsi. Per rimanere in tema con Alessandro (Riccardi), cintando i Pink Floyd: “and if I show you my dark side will you still hold me tonight?”.
Grazie per l’apprezzamento per il post ed in bocca al lupo.
Di recente mio padre, in una lettera che rispondeva ad una mia missiva nella quale manifestavo stanchezza per il mio lavoro, mi ha scritto che quello di medico di pronto soccorso, seppur lacerante per i motivi che hai elencato, è quanto di più vicino ai valori e agli ideali che sono per me insindacabili. La sua concezione di me evidentemente è inquinata dalla benevolenza della paternità. Ma forse è una spiegazione: sono umano, mi stanco, spesso sono stravolto, frustrato, solo, terribilmente solo; ma non rinuncio. Perché sarebbe come vivere la vita di un altro. E la vita è una soltanto. Io sono un medico. E sono un uomo. Tu invece sei un grande, al quale devo una riconoscenza senza eguali.