Vivendo e lavorando in un contesto urbano e tutto sommato temperato, le patologie da estremi di temperatura hanno sempre fatto parte di quel gruppo di argomenti che rimanevano molto teorici, destinati ad essere rispolverati di quando in quando, ma a non essere mai consolidati dall’esperienza effettiva.
Le temperature elevate di questa estate tuttavia hanno provocato un tale aumento degli accessi nel nostro PS per colpi di calore veri e propri tale da obbligare noi giovincelli che non avevano vissuto professionalmente l’ondata di calore del 2003 a rivedere in fretta e furia questi argomenti.
La presenza di picchi di mortalità in corso di ondate di calore è un fenomeno noto: 700 morti in più rispetto al trend usuale sono state registrate nella città di Chicago nel 1995, 14800 morti aggiuntive in Francia durante l’ondata del 2003(1). Come prevedibile una elevata percentuale di questi morti sono rappresentati da anziani, pazienti in condizioni di povertà o comunque con una debole rete sociale, pazienti affetti da patologie psichiatriche, pazienti con comorbidità cardiovascolare e respiratoria. E’ interessante notare infatti che l’eccesso di mortalità in corso di ondata di calore non sia spiegabile solo come effetto diretto delle morti da colpo di calore, ma veda un aumento significativo della mortalità cardiovascolare e respiratoria, attraverso meccanismi non del tutto chiariti.
Dal punto di vista concettuale il nostro corpo può essere considerato un motore a combustione: i processi che si svolgono anche in condizioni basali sono esotermici, il che vuol dire che, anche in condizioni di assoluto riposo, produciamo calore che deve essere smaltito. Un uomo di 70 kg produce circa 100 kcal/h, il che si tradurrebbe, in assenza di meccanismi di compenso, ad un aumento di circa 1 grado Celsius all’ora della nostra temperatura. Per mantenere l’omeostasi termica il nostro corpo sfrutta tutti i meccanismi fisici possibili (conduzione, convezione, irradiazione ed evaporazione), ma è quest’ultima ovvero la conversione di liquido (il sudore nel nostro caso) in gas, che rappresenta il metodo più’ importante di dispersione del calore nell’uomo.
L’efficacia di questi meccanismi dipende in modo significativo anche dalle condizioni ambientali: l’aumento dell’umidità e della temperatura dell’aria possono ridurre significativamente la velocità di trasferimento del calore dal corpo all’ambiente.
Lo sbilanciamento tra la produzione di calore endogeno e la capacità di smaltire le calorie prodotte porta all’aumento della temperatura corporea e alla comparsa di uno spettro di patologie, che rappresentano in un certo modo un continuum di cui il colpo di calore (heat stroke) rappresenta l’estremo. Si parla di heat stroke classico in presenza di fattori esogeni che riducono la capacità del corpo di liberare una quantità adeguata di calore, mentre in presenza di un eccesso di produzione di calore (come nel caso di attività fisica estremamente intensa) si parla di exertional heat stroke.
La diagnosi di colpo di calore prevede la presenza di un’elevazione persistente della temperatura corporea (tipicamente almeno 40 gradi C) associata a segni di disfunzione d’organo. La severità dei danni si rapporta più’ al tempo di ipertermia che agli eventuali picchi di temperatura raggiunti. Le alterazioni più’ comuni sono quelle neurologiche e comprendono la comparsa di edema cerebrale ed emorragie petecchiali intraparenchimali. L’aumento della gittata cardiaca come meccanismo di compenso e la concomitante deplezione di volume portano ad un quadro di scompenso iperdinamico; dal punto di vista delle resistenze è presente un quadro di shock distributivo con vasodilatazione massiva a livello cutaneo, al fine di massimizzare lo scambio di calore, ed una vasocostrizione del distretto splancnico come compenso all’ipovolemia relativa che si è pertanto instaurata.
Poiché ci troviamo di fronte ad un coinvolgimento multiorgano il quadro di presentazione del paziente è spesso multiforme. Pressoché sempre presenti sono le alterazioni neurologiche, che però possono variare da sintomi aspecifici come l’ansia, l’irrequietezza o il disorientamento fino al coma. Dato che si tratta spesso di anziani non è sempre agevole riuscire a rendersi conto quanto ci sia di nuovo e quanto faccia parte della normalità del nostro paziente ed è pertanto necessario mantenere un elevato indice di sospetto se le condizioni climatiche sono suggestive e sono presenti fattori di rischio. Analogamente devono essere sempre considerati ad alto rischio di heat stroke i pazienti in terapia psichiatrica.
Dato che la sudorazione non è una funzione della temperatura corporea ma piuttosto del volume circolante è possibile che questa sia ancora presente pur in presenza di temperature estremamente elevate, o che sia cessata nonostante la temperatura corporea sia ancora in range non estremi.
Infine la presenza di danno epatico ed il conseguente rialzo delle transaminasi sono un aspetto così costante da essere ritenuto uno dei criteri diagnostici. Il resto della valutazione ematochimica mostrerà quanto ci aspettiamo da un quadro di MOF: insufficienza renale, acidosi lattica, iniziale ipocapnia compensatoria, CID.
MA QUALE TEMPERATURA?
Finora abbiamo parlato di patologie da calore e di temperature… ma a quale temperatura dobbiamo prestar fede? Sappiamo che la temperatura cutanea può differire sensibilmente dalla temperatura centrale, e che questa discrepanza risulta particolarmente sensibile alle temperature estreme (2, 3). D’altra parte mai come in questa situazione siamo interessati ad avere una misurazione accurata della temperatura centrale. Diventa pertanto fondamentale l’utilizzo di un termometro alternativo. I siti più agevolmente raggiungibili sono rappresentati dal retto, dall’esofago e dalla vescica. Noi ultimamente usiamo i termometri vescicali, che sono posizionati all’interno di un catetere vescicale apposito e pertanto sono semplici da posizionare e non richiedono di infilare un’altra sonda nel paziente.
TRATTAMENTO
Il primo provvedimento terapeutico deve essere iniziare il raffreddamento del paziente, dato che il prolungarsi dell’insulto termico è associato ad un aumento significativo della mortalità. Il primo passo consiste ovviamente nel rimuovere il paziente dall’ambiente caldo in cui si trova e portarlo in un luogo fresco (sperabilmente il PS dovrebbe soddisfare questo requisito…). Poiché il sudore perso attraverso i vestiti rimuove una quantità di calore inferiore rispetto al sudore che evapora direttamente dalla pelle il paziente dovrebbe essere spogliato completamente. Il metodo più’ efficiente per raffreddare il paziente è la convezione con un’interfaccia liquida, ma questo richiederebbe l’immersione in acqua fredda e non è quindi applicabile al di fuori del primo soccorso. L’evaporazione rappresenta invece un metodo efficiente quasi quanto la convezione ma più facile da mettere in atto: basta bagnare il paziente ed esporlo ad una corrente d’aria a temperatura ambiente. Nel P.S. dove lavoro da quest’estate abbiamo cominciato ad utilizzare l’unità che normalmente utilizziamo per il riscaldamento ad aria dei pazienti ipotermici, settata alla temperatura ambiente, associata a dei telini bagnati; altrettanto efficace però è l’utilizzo di un ventilatore ambientale e di uno spruzzino con cui detergere in maniera regolare la superficie corporea del paziente. Ad un osservatore esterno potrà apparire poco professionale ma vi posso assicurare per esperienza diretta che funziona alla grande! E’ importante che l’aria sia a temperatura ambiente (quindi niente condizionatore) perché un getto troppo freddo provocherebbe una vasocostrizione cutanea e quindi una riduzione dello scambio di calore dal nucleo corporeo al distretto cutaneo. L’utilizzo di ghiaccio o altri dispositivi commerciali per il raffreddamento può essere considerato un supporto ma non ci sono studi che ne dimostrino una maggiore efficacia rispetto ai metodi tradizionali. Attenzione infine all’utilizzo della fisiologica fredda dato che le alterazioni della coagulazione sono frequenti in questi pazienti ed il rischio di diluirli eccessivamente è elevato.
Le procedure di raffreddamento dovrebbero continuare fino al raggiungimento dei 39 gradi per poi essere sospese: il rischio infatti è di fare overshoot e di raffreddare troppo il paziente. Il target da mantenere nelle prime ore è compreso tra 37-38 gradi.
Al di là del raffreddamento questi pazienti necessitano di un sostegno intensivo delle funzioni vitali; anche se la temperatura viene rapidamente normalizzata il processi fisiopatologici instaurati dall’ipertermia si protraggono anche una volta che l’insulto termico si è esaurito.
Dal punto di vista delle vie aeree è spesso richiesta l’intubazione, in parte a causa della riduzione del sensorio causato dall’edema cerebrale, in parte perché la loro ventilazione spesso non è adeguata alle aumentate necessità metaboliche. Vale la pena di sottolineare che il questi pazienti il rischio di iperkaliemia è alto; questo, associato alla possibilità di una ipertermia maligna nella diagnosi differenziale, rendono sconsigliabile l’uso della succinilcolina per la miorisoluzione. Il rocuronio rappresenta un’alternativa più’ sicura. Poiché questi pazienti hanno tipicamente un quadro di shock distributivo la scelta dell’agente di induzione e del dosaggio deve tenerne conto.
Dal punto di vista emodinamico questi pazienti sono, un po’ contro intuitivamente, relativamente pieni. Inoltre il raffreddamento, provocando una graduale vasocostrizione cutanea, sposterà parte del volume ematico alla circolazione centrale. Per questo motivo le richieste di liquidi sono di solito modeste (1-2 litri), e in caso di persistenza di ipotensione è bene valutare la contrattilità cardiaca e pensare precocemente ad un inotropo da associare eventualmente ad un vasopressore, prestando attenzione a tenersi ai dosaggi più bassi possibili così da limitare la vasocostrizione periferica che ridurrebbe lo scambio del calore dal centro alla periferia.
Durante la fase di ipertermia sono comuni tachiaritmie di vario tipo, che normalmente si risolvono con la normalizzazione della temperatura e che quindi possono giovarsi di un approccio “wait and see”. Da notare inoltre che sono stati descritti casi di sottoslivellamento del tratto ST associati a heat stroke, che di norma non sono associati a lesioni coronariche(4, 5).
Infine è fondamentale monitorare la diuresi, anche in considerazione del rischio concreto di rabdomiolisi e quindi della necessità di fornire un’adeguata quantità di volume ai reni. Se ci credete il mannitolo può trovare un ruolo in questi pazienti(6, 7).
Vale infine la pena di notare che, dato il diverso meccanismo fisiopatologico rispetto alla febbre (nella quale il centro termico a livello ipotalamico viene resettato su un nuovo target di temperatura), antipiretici ed in particolare il paracetamolo non hanno nessun effetto nel colpo di calore, e possono potenzialmente essere nocivi data la sofferenza epatica.
Al di là di tutto il colpo di calore rimane un problema associato ad una elevata mortalità e che richiede un uso intensivo di risorse da parte delle strutture sanitarie, e dato l’aumento delle fasce più fragili della popolazione costituisce una evenienza clinica con cui dovremo confrontarci sempre più spesso.
BIBLIOGRAFIA
- Bouchama A, Knochel JP. Heat stroke. N Engl J Med 2002 06/20; 2015/08;346(25):1978-88
- Huggins R, Glaviano N, Negishi N, Casa DJ, Hertel J. Comparison of rectal and aural core body temperature thermometry in hyperthermic, exercising individuals: A meta-analysis. J Athl Train 2012 May-Jun;47(3):329-38
- Mazerolle SM, Ganio MS, Casa DJ, Vingren J, Klau J. Is oral temperature an accurate measurement of deep body temperature? A systematic review. J Athl Train 2011 Sep-Oct;46(5):566-73
- Doshi HH, Giudici MC. The EKG in hypothermia and hyperthermia. J Electrocardiol 2015 0;48(2):203-9
- Muniz AE. Ischemic electrocardiographic changes and elevated troponin from severe heatstroke in an adolescent. Pediatr Emerg Care 2012 Jan;28(1):64-7
- Scharman EJ, Troutman WG. Prevention of kidney injury following rhabdomyolysis: A systematic review. Ann Pharmacother 2013 Jan;47(1):90-105
- Zimmerman JL, Shen MC. Rhabdomyolysis. Chest 2013 Sep;144(3):1058-65