In area rossa
N: “Che fai, lo cardioverti, vero?”
Carlo: “No, pensavo di aspettare”
N: “Aspettare cosa?”
Carlo: “Che si cardioverta da solo”
N: “Aspetta e spera”
Questo in sintesi il contenuto di una conversazione di alcuni anni fa tra Carlo -detto anche, ma non solo, il modesto- e un collega a proposito di un paziente con fibrillazione atriale da qualche ora.
Cardiovertire, cardiovertire, cardiovertire…

“Cardiovertire il paziente”…è il mantra con cui sono cresciute generazioni di medici d’urgenza e cardiologi. Il timore di regalare un aumentato rischio embolico, l’inconsapevole pensiero che il ritmo sinusale sia il meglio per il paziente, il fastidio che spesso provoca al paziente avere il cuore ballerino, perchè no il piacere inconfessato di portare a termine una procedura, la certezza che si debba fare così perché si è sempre fatto così…
Da anni Carlo è convinto che si possa fare diversamente, ma mancavano studi solidi a conforto della sua intuizione; giusto un paio di studi osservazionali, uno fatto in Tasmania – link, paese noto per le leggendarie tempeste e per un piccolo mammifero dall’“ottimo” carattere…il diavolo della Tasmania. Come me.
Il RACE trial
Gli autori olandesi del RACE 7 ACWAS trial -per gli amici RACE e basta- link hanno disegnato, condotto e pubblicato i risultati del trial di non inferiorità multicentrico randomizzato in aperto per rispondere al quesito: se aspetto a cardiovertire che succede?
Prima dei risultati…facciamo PICO!
Popolazione
Pazienti emodinamicamente stabili che si presentano in Pronto Soccorso con fibrillazione atriale da meno di 36 ore. Sono stati esclusi i pazienti con segni di infarto del miocardio, scompensati o giunti con sincope.
Intervento
Adottare una strategia “aspetta e vedi” -wait and see per i Brexit fans- che consiste nel controllo della frequenza con obiettivo a meno di 110 battiti per minuto con l’uso di beta bloccanti/Ca-antagonisti/digitale se necessario e dimissione del paziente a controllo della frequenza raggiunto con rivalutazione in PS entro le 48 ore dalla insorgenza della aritmia e cardioversione farmacologica o elettrica se ancora presente.
Controllo
Utilizzare la strategia standard, cioè cardioversione in acuto -prima farmacologica, poi elettrica se inefficace- appena possibile in Pronto Soccorso
Outcome
Outcome/esito primario: mantenimento del ritmo sinusale a 4 settimane dalla prima visita in PS
Risultati
Dei 437 pazienti randomizzati, 427 hanno completato lo studio.
Nei 218 del gruppo “aspetta e vedi” la percentuale di pazienti in ritmo sinusale a 30 giorni è stata del 91% vs 94% nei 219 assegnati al gruppo “cardioverti in acuto”.
La differenza non è statisticamente significativa. Non vi sono differenze in termini di effetti avversi tra i due gruppi ma gli eventi sono stati così rari che poco si può dire sull’argomento.
Conclusione degli autori
La strategia “aspetta e vedi” è NON inferiore alla strategia “cardioverti in acuto”. Nella discussione gli autori magnificano i vantaggi della strategia “aspetta e vedi”…
Quindi: “Chi va piano, va sano e va…in ritmo!” Carlo aveva ragione!
Trovo lo studio interessante e potenzialmente utile per la nostra pratica clinica.
È esperienza comune lasciare il paziente in qualche angolo del Pronto Soccorso in attesa che si verifichino le condizioni logistiche per una cardioversione elettrica e trovarselo in ritmo sinusale al momento in cui si potrebbe fare la procedura.
Lo stesso studio, andando a controllare i dati pubblicati in appendice- rivela che 34 dei 219 soggetti assegnati al gruppo “cardioverti in acuto” -pari al 15,5%- sono rientrati in ritmo spontaneamente. E 150 pazienti dei 218 del gruppo “aspetta e vedi” -pari al 68,8%-erano già in ritmo sinusale a 48 ore e non hanno quindi avuto necessita di sottoporsi a somministrazione di ulteriori farmaci o terapia elettrica.
Facendo i conti della serva significa risparmiare il 50% delle cardioversioni… con tutti i benefici in termini di potenziali ridotti effetti avversi, riduzione di tempo di permanenza in PS del paziente e risparmio di risorse per trattare una patologia che nella maggioranza dei casi pare risolversi da se.
Avere quindi la possibilità di organizzare la procedura qualora effettivamente servisse in un secondo momento -quasi in elezione- potrebbe essere un arma in più a nostra disposizione per gestire certi momenti di iperafflusso. Certo al prezzo di uno sforzo logistico e di una condivisione della strategia tra colleghi del PS e con i cardiologi.
Maverick
@Maverickdocit

N.B: Carlo non è un nome di finzione: è il “nostro” blogger. “N” neppure, ma non sono le sue iniziali e neppure sotto tortura rivelerei il suo nome.
Il commento di Carlo
Maverick ha ragione: la politica del “torni il giorno dopo…” è uno dei miei mantra.
Ne avevo parlato in questo blog già nel lontano 2012 – link
A questo proposito bisogna tenere conto di alcune considerazioni:
- le preferenze del paziente ( non infrequentemente il paziente preferisce risolvere subito la situazione e non rimandare a al giorno dopo)
- la tempistica di arrivo in DEA e di insorgenza delle palpitazioni (la finestra temporale delle 48 ore non va oltrepasata)
- La velocità dell’aritmia che spesso richiede comunque un trattamento in DEA con farmaci che controllano la frequenza
Fatte queste precisazioni rimango convinto che, anche in questo caso, less is more e la politica del “torni il giorno dopo”, sebbene talora indaginosa dal punto di vista organizzativo, sia spesso premiante.
Si potrebbe poi discutere su quale forma di cardioversione utilizzare, da tempo preferisco l’elettrica, più veloce e sicura per il paziente, ma di questo abbiamo già parlato in un altro post.
Articolo e riflessione interessante … ma credo sia importante anche impostare un percorso clinico dopo ( programmare a breve eco e visita cardiologica) per valutare eventuale intrapresa di terapia antiaritmica. Voi come procedete?
Milena, concordo pienamente. Dopo la dimissione una valutazione ambulatoriale cardiologica deve essere la prassi.
Grazie di questo post! penso che l’atteggiamento di attesa abbia un suo razionale: dopo tutto, siamo cresciuti con “la maggior parte delle fibrillazioni atriali rientra da sola”, e quindi l’idea è quantomeno corretta. E non conto le cardioversioni effettuate con il propofol (proprio con il propofol: una volta sedato il paziente, si è osservato un ripristino del ritmo sinusale).
Però…
Mi permetti di fare l’avvocato del diavolo?
La questione si gioca sul ripristino del ritmo a 48 ore, che in questo studio raggiungeva il 60%: i restanti? ad un mese, la differenza non era significativa, questo è innegabile. Tra le 48 ore e i 30 giorni, però, c’è il mare del rischio tromboembolico. Se un paziente ha un rischio moderato, e la cardioversione ha successo, non prescrivo la terapia anticoagulante: se invece lo dimetto in fibrillazione atriale, invece, devo prescriverlo, e questo può condizionare il paziente. Credo che questo punto possa orientare verso la scelta di un tentativo iniziale di cardioversione (ovviamente elettrica! sai come la penso…), per quanto una strategia d’elezione, come suggerisci giustamente, condivisa tra noi e i cardiologi, per valutare il paziente a 24 ore dalla dimissione per cardiovertire i pazienti ancora in fibrillazione atriale, potrebbe ridurre davvero il numero delle procedure in urgenza. Spunto molto interessante…
Alessandro, giusta precisazione. Il mio pensiero è sempre stato a favore dell’attesa, ma sempre nell’ambito delle 48 ore. Molti giustamente obietteranno che l’accesso in DEA il giorno successivo è improprio e che in periodi di overceowding croonico come il nostro sia sbagliato rimandare a domani quello che puoi risolvere oggi. Giusto.
Personalmente credo che non debba essere una regola assoluta, ma un’opzione da offrire al paziente. Nella mia esperienza, che ovviamente non conta nulla in termini statistici, solo una metà preferisce non risolvere subito il problema.
Questa la risposta di Maverick
Grazie Alessandro del commento! Sempre con i conti della serva…a me non pare che risparmiare il 50% delle cardioversioni possa essere considerata una perdita di tempo. Anzi. E suggerisco che trovare alternative organizzative al “tutto subito in Pronto Soccorso” sia una strategia su cui dovremmo attentamente riflettere e lavorare per iniziare ad attenuare gli effetti del boarding. Oltre a essere degli ottimi medici dobbiamo essere degli ottimi gestori di risorse temporali e materiali, data la cronica e ingravescente penuria. Aggiungo che il tentativo di cardioversione veniva fatto nello studio prima delle 48 ore, venendo incontro alla tua perplessità sulla anticoagulazione.
Non fa una grida condivido in pieno.ho solo notato che rispetto a qualche anno fa sono aumentate le fa non ben databili.aumento eta’?
Buonasera. Ringrazio anch’io per l’interessante post sulla “regina delle aritmie”.
Come spesso accade nella vita di tutti i giorni “in medio stat virtus”. Non voglio fare il Salomone di turno, ma il post ed i successivi commenti mi hanno portato ad una, penso, utilissima riflessione sul mio modo di operare.
Qualche “notte” fa mi capitarono tre FA tachicardiche di recente insorgenza (con sicurezza meno di 12 ore).
Breve inciso: è noto, nel nostro ambiente, come spesso si vada “per mode”. Quello strano accedere in sequenza di medesime sindromi o eventi. “Oggi si va di coliche renali!” ” Altra insufficienza respiratoria, altro giro!” “Siamo a 5: altro dolore toracico!” (commenti di sottofondo dal triage al box visita).
A volte ciò ha relazioni con particolari condizioni ambientali/meteo o altri eventi (sagre, feste maggiori, etc.), a volte non saprei proprio darne una spiegazione. Se non nel “fato”. Ma tant’è.
Ebbene, quella notte sui tre “fibrillanti”, dei quali uno con sottostante cardiopatia strutturale, tentai tre CVE e tutte senza successo alla terza scarica. Ovvio che in PS non c’erano solo loro. E, in fin dei conti, non erano neppure i Paz. più impegnati/impegnativi. Nessuno era in CHF. Per stringere e dare un senso al tentativo di mediare tra il mio modus operandi, i propositi del post e le successive osservazioni di Carlo ed Alessandro, premetto che le situazioni si risolsero così: 1. cardioversione farmacologica riuscita con la prima fiala di Classe-IC. Dimissione e richiesta di visita cardio. 2. rallentamento della frequenza con CaAntagonista + LMWH dimissione e invio al giorno successivo direttamente in cardiologia (CHA2DS2-VASc Score = 3). 3. Quella insorta su strutturale tenuta in OBI previa infusione (con molti dubbi e elucubrazioni sulla opportunità o meno di usarlo) di 150 mg di Amiodarone + LMWH e rientro in RS dopo 8 ore.
Conclusione: il tempo dedicato ai tre casi non è stato certamente inferiore alle tre ore. La notte, come sempre, era piena di vari altri casi da risolvere anche con procedure di una certa complessità. Sono unico medico di turno con tre infermieri. Diagnostica radiologica e laboratorio: reperibili. Ho il mio POCUS, ma anch’esso chiede tempo, vista e lucidità al top (e alle 4-5 del mattino non sempre è così…anzi). Etc. Etc. La numerosità del campione è veramente esigua. Lo so. Però se… se avessi mediato tra “less is more vs hic et nunc”, avrei sicuramente ottenuto, presumo, gli stessi risultati con la possibilità, in più, di trovare l’auto, allo smonto ed al primo tentativo, nel parcheggio aziendale… senza aver vagato come uno zombie per almeno mezz’ora.
NB: la popolazione medica del mio PS è estremamente eterogenea. Molti colleghi sono di estrazione chirurgica e “non amano” il Paz. cardiologico. Mi pongo quindi, tra l’altro, il problema di rimandare il “carico pendente” al collega del turno successivo. O sbaglio?
Questa la risposta di Maverick
Grazie Mauro del tuo commento. Nonostante possa apparire eccentrico, dato il mio temperamento da mammifero tasmano, Salomone è uno dei miei personaggi preferiti. E le tue riflessioni mi paiono in linea con quella saggezza. Con stima. Maverick
Grazie a te. Stima contraccambiata.
Ciao a tutti, grazie degli spunti di riflessione.
A me verrebbe da dire che
. o si organizza a livello aziendale un percorso post dimissione dedicato, con posti a brevissimo (nel mio ps ahimè le visite in dh med urg erano almeno la settimana dopo…) tramite dh med urg o visita cardiologica apposita
. o si fa tornare il paziente quando siamo nuovamente di turno, ma è comunque un po’ un casino tra mattina/pomeriggio/notte/smonto/riposo/imprevisti.
Demandare una cosa di questo genere (una situazione in cui scelgo, anche con motivi legittimi, di aspettare) al collega del turno successivo mi sembra vagamente scorretto.
Segnalo anche che in certi ambienti il ‘bravo medico di ps è quello che vede tanta gente e smaltisce la coda. Io per la verità ho sempre trovato questo approccio molto avvilente e svilente. Spero che presto il buon medico di PS possa essere anche che fa tornare i pazienti, quelli giusti però…
Chiara, concordo su tutto, in particolare con le tue riflessioni sul “bravo medico”. La politica del “torni domani” è difficile e , in genere, la applico quando il giorno successivo sono di turno essendo certo di non sforare le 48 ore. Un protocollo condiviso sarebbe l’ideale, ma alla maggior parte di noi piace più fare che aspettare. Ogni tanto penso possa essere una buona soluzione.
Innanzitutto grazie per come sapete innescare momenti di riflessione sul proprio modus operandi e confrontarsi con quello di altri colleghi che operano in realtà assai differenti.
Il mio personale atteggiamento verso i pz con FA è quello di risolvere il problema nel più breve tempo possibile. Anche io credo che alla luce dell’evoluzione che sta prendendo il nostro settore bisognerà cercare di “delocalizzarre” le nostre attività a setting verso risorse differenti…per sopravvivere. Tuttavia credo che nel caso delle tachiaritmie potrebbe essere un autogol rimandare a domani quello che si può fare oggi, ripeto dove possibile. Nel nostro lavoro sappiamo bene come ogni giorno sia diverso da quello prima e da quello dopo, quindi il domani potrebbe essere peggio dell’oggi.
E poi, bisogna proprio privarci delle procedure o momenti comunque più interessanti del nostro lavoro quotidiano? Un saluto a tutti!
Caro Guido,
grazie davvero del tuo contributo. Dissento: delocalizzare non è sopravvivere. E’ vivere la nostra professione secondo deontologia. E’ appropriatezza, cioè il paziente giusto, al posto giusto, al momento giusto, con la “giusta” terapia. E su questo ultmo punto la troppo decantata e troppo poco praticata centralità del paziente centralità del paziente va tenuta in seria considerazione ed accoppiata con proposte che siano quanto più possibile basate su rigorosi studi e non su miti, credenze, preferenze di esperti autorevoli.
Il trial RACE offre una opportunità in più a noi e al paziente. Fatto assai raro e positivo nel nostro mondo unidirezionale e solo superficialmente plurale. Per istinto come esseri umani temiamo l’incerezza, come medici d’urgenza sognamo una risposta chiara, immediata ai nostri quesiti diagnostici e terapeutici. E’una prospettiva fascinosa ma ingannevole. Se bastasse una perfetta conoscenza della letteratura scientifica a fare questo mervaglioso lavoro basterebbe un sofisticato software cui il paziente potrebbe rivolgersi. E noi ad allungare la fila dei richiedenti del reddito di cittadinanza…
Non intendo privarmi di procedure e competenze che fanno parte del mio bagaglio medico. Voglio poter dare il meglio al mio paziente. Esistono modi e tecniche per mantenere o acquisire competenze grazie alle tecnologie oggi esistenti. Su questo e per questo dobbiamo puntare e lottare. Controcorrente.
Grazie Carlo per la replica alle osservazioni di Chiara!
È esattamente (nei casi che lo richiedono e lo permettono) come mi comporto io.
Es., tra i molti, TAC cranio evolutiva.
Anch’io non credo, Chiara, che il “buon medico” sia (st. secondo taluni primari, sempre e solo, qualche volta certamente si) quello che “smaltisce la coda”.
Forse lo è di più quello che “attiva la testa”. 🙂