Quando frequentai la prima volta il Corso ATLS, ne uscii con due convinzioni. La prima era di avere appreso un metodo efficace e sistematico per la gestione del trauma severo. La seconda era che l’ATLS si fondava su solidi principi clinici.
Dopodiché ho iniziato a gestire i pazienti vittime di trauma maggiore e la seconda certezza si è incrinata. Tutto è partito dalla classificazione ATLS dello shock emorragico.
La classificazione dello shock emorragico dell’ATLS si basa su un’idea semplice: man mano che la perdita di volume ematico aumenta, il compenso cardiocircolatorio si spinge progressivamente all’estremo, con uno scalare incremento della frequenza cardiaca per mantenere la gittata cardiaca e una riduzione proporzionale del filtrato renale. Per perdite ematiche rilevanti, nonostante il tentativo di compenso, la perfusione cerebrale si deteriora con una crescente compromissione dello stato mentale.
E’ una concezione fisiopatologica semplice, anzi, semplicistica: un problema di aritmetica idraulica, le cui variabili sarebbero i parametri vitali.
Questa rappresentazione non trova grandi riscontri. Alcune evidenze indicano che una bradicardia relativa (PAS<90mmHg, FC bradicardia potrebbe essere il segno distintivo d’esordio (refrence1, reference2) di un processo emorragico. Ben oltre a questo, era noto fin dalla seconda guerra mondiale, che la risposta all’emorragia più che essere un processo di progressione lineare è un processo bifasico (o trifasico) in cui le modificazioni della frequenza cardiaca sono mutevoli a seconda del prevalere di determinati riflessi autonomici.
Sfortunatamente il politrauma severo è una realtà più complessa di quella di una pura perdita ematica, ed è difficilmente semplificabile. La coagulopatia e il danno tissutale, con la conseguente risposta infiammatoria, giocano un ruolo preponderante, di cui il costrutto ALTS non tiene conto.
Leggo sempre con sollievo, e un malcelato senso di rivalsa, le pubblicazioni che mettono in discussione questa concezione dello shock emorragico.
A gennaio 2013 è stato pubblicato uno studio dal titolo “Renaissance of base deficit for the initial assessment of trauma patients: a base deficit based classification for hypovolemic shock developed on data from 16,305 patients derived from the TraumaRegister DGU®”.
Il TraumaRegister DGU fondato in Germania nel 1993, raccoglie i dati di 70000 casi di politrauma. Di 16305 pazienti era ricostruibile il difetto di basi al momento dell’ospedalizzazione. Quest’ultimo è stato utilizzato per creare una nuova classificazione dello shock emorragico suddivisa sempre in quattro classi:
Classe
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Normale
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Lieve
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Moderato
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Severo
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Deficit di basi
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2-6mmol
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6-10 mmol
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>10 mmol
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Dallo studio è emersa una forte correlazione tra la severità del deficit di basi e gli outcome valutati, primo fra tutti la mortalità. Con il progredire del deficit di basi occorreva un progressivo incremento anche del numero di trasfusioni di emazie ed emoderivati, delle trasfusioni massive, della piastrinopenia, della coagulopatia, dell’utilizzo di vasopressori nonché del tempo di ventilazione meccanica.
Perché è importante?
Non sono in grado di dire se il deficit di basi costituisca la chiave per l’inquadramento dello shock emorragico nel trauma. Ha sicuramente il merito di basarsi su un indice d’ipoperfusione, che è l’essenza dello shock, indipendentemente da qualsiasi macroparametro cardiocircolatorio.
Questo studio, con tutti i limiti di un’analisi retrospettiva, basata sul riesame di dati di archivio, va interpretato con cautela. Ha, tuttavia, il merito di mettere in luce l’inconsistenza del paradigma dell’ATLS che, d’altro canto, non ha un chiaro fondamento scientifico.
Uno dei punti salienti dello studio è la mancanza di correlazione tra l’incremento progressivo della frequenza cardiaca e la severità dell’ipoperfusione indicata dal deficit di basi: in nessuna delle classi di shock definite in base al deficit di basi si apprezzava una tachicardia rilevante.
Ma questa è solo l’ultima evidenza che mette in discussione l’ATLS. Già altri studi recenti l’avevano ulteriormente incrinata. Uno si basa sempre sul registro dati TraumaRegister DGU, mentre l’altro su un analogo registro anglosassone, il TARN.
I risultati del secondo, che è il più vecchio, evidenziano anzitutto che i parametri su cui l’ATLS fonda la propria classificazione non si modificano concordemente a quanto predicato. Con l’incremento della frequenza cardiaca non vi è alcun sostanziale declino della pressione arteriosa, che, mediamente, non raggiunge neppure livelli d’ipotensione. Analogamente, confrontando i pazienti ipotesi (pressione sistolica <100mmHg) con quelli non ipotesi (pressione sistolica >110 mmHg), non vi è apprezzabile differenza media di frequenza cardiaca (88 vs 83).
Dal secondo studio emerge innanzitutto che solo il 9.3% dei pazienti può essere correttamente attribuito a una delle classi di shock dell’ATLS poiché, nella vasta maggioranza dei casi, non vi è nessuna concordanza tra la variazione prevista dei parametri principali (frequenza cardiaca, pressione arteriosa e GCS). Incrementi della frequenza non sono seguiti dalle modificazioni attese di pressione arteriosa o del GCS e viceversa. Emerge in sostanza un’inapplicabilità della classificazione alla realtà del politrauma.
Similmente a quanto osservato nei dati del registro TARN, non trova conferma l’assunto che all’incremento della frequenza corrisponda un calo progressivo della pressione arteriosa sistolica e neppure il contrario.
In entrambi gli studi è stato osservato un declino del GCS con l’incremento della frequenza cardiaca. Questo riscontro è tuttavia difficilmente interpretabile perché le definizioni di alterazione dello stato mentale dell’ATLS (lievemente/moderatamente ansioso, confuso e letargico) non sono agevolmente traducibili in un punteggio del GCS.
Nella realtà clinica quotidiana credo che il parametro concretamente utilizzato dello schema ATLS sia la frequenza cardiaca, poiché i restanti sono, o scarsamente definiti (vedi pressione arteriosa e stato di coscienza), o infrequentemente monitorati nella realtà dell’emergenza (vedi produzione di urine e pulse pressure). Non a caso, nelle esercitazioni pratiche dell’ATLS, la frequenza cardiaca è impiegata come principale riferimento per il discente, quale indice della classe di shock. Sebbene nel testo ATLS sia specificato come la classificazione dello shock serva come una guida alla gestione, nella realtà il sistema educativo dell’ATLS considera questa classificazione come un assunto imprescindibile.
Come definire un costrutto teorico, non basato su evidenze, che è accettato acriticamente a livello mondiale? Io penso che la definizione calzante sia quella di dogma.
Non fraintendetemi l’ATLS è, tutt’oggi, il miglior sistema di gestione logistica e di razionalizzazione dell’approccio al trauma. Penso, infatti, che l’ossatura del sistema, per quanto concerne l’ottimizzazione logica dell’approccio al politraumatizzato, sia irrinunciabile e nessun operatore dell’emergenza possa prescinderne. A riprova di questa mia convinzione che rimane inalterata nel tempo quest’anno rinnoverò la mia licenza ATLS.
La necessità di semplificazione e di standardizzazione dell’approccio al trauma, comporta una comprensibile semplificazione dei concetti per garantirne la trasmissibilità. Questo, nondimeno, non deve indurci ad accettarne acriticamente tutti i contenuti. Per usare un termine coniato da Cliff Reid: c’è bisogno di un po’ di dogmalisi.
Dott. Mattia Quarta
Pronto Soccorso
Azienda Ospedaliera di Padova
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