Questo non è un post EBM ma un punto di vista. Un punto di vista di uno che di medicina non ne capisce assolutamente niente ma che è stato da entrambe le parti della barricata, al triage ad attendere ed in sala visite a spalare. Non esiste un “US and THEM” ma un enorme noi.
Claudio ha 87 anni portati benissimo. Guida la macchina, lavora ancora la terra nel suo orto. È davvero amato dai suoi figli e dai suoi nipoti. Ha avuto più di tanti altri. Da una settimana lamenta un vago dolore addominale ed una persistente dispnea che non lo lascia fare quello che gli piace. Il radiogramma del torace mostra un versamento pleurico basale destro. L’ecografia toracica non mi piace proprio, sotto il versamento vi è una atelettasia polmonare di tutto un lobo con un broncogramma aereo non dinamico. La TC Torace evidenzia una neoplasia che ostruisce completamente un bronco. Vi sono metastasi linfonodali e lesioni controlaterali. Ne parlo con l’oncologo, è una situazione troppo avanzata anche per cercare solo di fare diagnosi. Insieme affrontiamo la famiglia.
Spieghiamo che è una neoplasia aggressiva. L’inizio di una chemioterapia necessita di una istologia della lesione. Questo prevede una TC Total Body con mdc ed una broncoscopia con biopsia. Quest’ultimo in particolare è un esame invasivo, poco confortevole per il paziente non scevro da complicanze, spesso non diagnostico. Anche facendo tutto di fretta e furia non potrebbe iniziare la chemioterapia prima di un mese. Forse lui un mese di vita non lo ha. La chemioterapia avrebbe comunque solo ruolo palliativo e non arresterebbe la progressione della patologia. Scelgono i familiari per lui, decidono di andare a casa. La gestione con ADI non è sbagliata ed è condivisibile.
Livia ha 70 anni e un carcinoma inoperabile e diffuso, metastasi epatiche complicate da un grave ittero ostruttivo non trattabile (la bilirubinemia è poco sopra 40 mg/dl). È pelle ed ossa. Ha una grave cachessia come diremmo tecnicamente. Non è una paziente che seguo direttamente e quindi la conosco poco, ma non ci vuole molto a capire che è a fine vita, bruciata da un male incurabile. Mi chiamano per un episodio di malessere, una lipotimia mentre si sedeva sul letto.
Visita di rito, elettrocardiogramma. Nell’episodio e nella visita non ravvedo nulla che non sia compatibile con le condizioni di base e mi stupisco che sia ancora perfettamente vigile e cosciente con quella bilirubina. La paziente mi dice che da circa una settimana le gira sempre la testa quando si mette seduta sul letto. Oggi l’episodio è stato più intenso.
Mi chiamano dopo un’ora ed è in arresto respiratorio. C’è un polso molto flebile.
L’assisto un attimo con l’Ambu e spiego al figlio che si sta per arrestare, tra un po’ si fermerà anche il suo cuoricino. Spiego anche non la rianimerò, perché non credo sia etico. Non credo sia giusto nei confronti di Livia. Non credo sia giusto fratturargli sterno e coste, farla intubare, aspettando che muoia tra due giorni in rianimazione. Mi guarda stupefatto per la mia brutalità e fermezza. Razionalmente ha capito. Ma il cuore spesso è indomito. Una parte di lui non è d’accordo. Il parente medico, al telefono, mi esorta a tentare comunque una rianimazione. “Un tentativo lo devi fare!”.
Sono colto alla sprovvista. Inerme.
Mentre eseguo il massaggio cardiaco rompendo fragili coste, ho gli occhi lucidi e chiedo scusa, anche se probabilmente non può sentirmi, per non aver avuto fermezza, prontezza e forse più coraggio. Prego che quando toccherà a me qualcuno abbia più clemenza.
Non ho avuto il coraggio di restare a guardare.
Leone ha 83 anni ed una demenza multifattoriale grave, è allettato da quasi sei mesi. Da circa un mese non è più contattabile e si alimenta a stento. Giunge in Area di Emergenza in codice Rosso, si è soffocato mentre provavano a farlo mangiare dello yogurt. Lo accogliamo in Sala Rossa e lo aspiriamo abbondantemente.
Ci accorgiamo subito che è stranamente bradicardico e molto freddo. La temperatura corporea rilevata con sonda termica è 28°C. È presente persino una onda di Osborn.
Il cuore si muove a rallentatore come ben vedete. Il quadro clinico si è complicato con una severa ipotermia. Secondaria a che? Farmaci, cachessia, ipotioidismo? Ha senso indagare? Spieghiamo ai familiari che la mortalità delle ipotermie secondarie è circa 50%, che faremo un tentativo volto a riportarlo alle sue condizioni di partenza ma non verrà fatto nessun accanimento terapeutico. Non verranno montate amine, non verrà fatta ventilazione non invasiva. Solo liquidi caldi ed un po’ di riscaldamento esterno. Papà a prescindere da quello che possiamo fare sta già morendo.
Dopo 48h di PS e nessun posto in Medicina, la situazione è sempre la stessa, di un paziente a fine vita (peraltro già in ADI domiciliare) che stenta ad uscire dalla situazione acuta (tende sempre a scendere di temperatura). I familiari ben comprendono l’assenza di margini terapeutici e chiedono di poterlo portare al domicilio per averlo un po’ a casa.
“A quali parametri dobbiamo fare attenzione?”
“La prima cosa che faccio quando ho un paziente a fine vita in reparto è spegnere il monitor. L’unica cosa che è in grado di fare è generare ansia. Angoscia. Immotivata. Non dovete rilevare alcun parametro. Solo attendere e vegliare. Stargli vicino.”.
Vittoria è una grande anziana ed è in Area di Emergenza per uno scompenso cardiaco acuto complicato da insufficienza renale acuta (o è l’opposto?). La situazione non è bella ed è già in amine da due giorni. È in trattamento con amine con tutto quello che ne consegue, stretto monitoraggio multiparametrico ed emogasnalitico (ovviamente arterioso). L’emogas analisi arteriosa è tra le procedure più dolorose effettuabili in DEA e viene fatta senza anestesia di alcun tipo. Nonostante la gestione intensiva ed aggressiva è anurica da 24h. il paziente con scompenso cardiaco che non urina muore, inevitabilmente muore.
Telefonicamente i colleghi hanno concordato un ricovero in Cardiologia. Non servono emogas, troponine, ecografia POCUS, ecocardiogramma o diagnostica di II e III livello per capire che morirà tra poche ore: a prescindere da quello che possiamo o vogliamo fare. Ha un respiro molto debole, quasi un gasping. L’ho presa in carico da pochi minuti quando il cardiologo ha liberato il posto e mi chiama per il ricovero.
“Ma tu sei sicura che vada ricoverata? La paziente è stata vista? Credo che dovremmo staccare tutto, non mi sembra giusto accanirsi”
La collega si precipita giù. Mezzo sguardo. Anche lei è d’accordo con me. Siamo ad un vicolo cieco. Parliamo con i figli. Loro ascoltano tutti i nostri tecnicismi senza fiatare per interminabili minuti.
La loro risposta è secca ed immediata, travolgente come un fiume in piena: “Guardate, noi non avevamo compreso tutto questo accanimento terapeutico avvenuto in questi giorni. È chiaro che la mamma sta morendo.”.
Vi ricordate di Claudio? Il paziente del tumore polmonare? E’ venerdì notte e sono passati appena 5 giorni dalla dimissione quando torna per una grave insufficienza respiratoria trasportato dal personale del 118. Ha una broncostenosi diffusa che si risolve con un po’ di aerosol e steroide. Il versamento pleurico si è raddoppiato nell’arco di pochi giorni. Discuto con lui ed i familiari la possibilità di una toracentesi evacuativa.
Dreno circa 1500 ml di liquido francamente ematico. Invio due campioni in Anatomia Patologica.
Dopo la toracentesi si sente un leone, non stava così bene da settimane. Zampetta allegramente in corridoio e chiede di poter andare a casa. Discuto nuovamente con la famiglia. La scelta di poter andare a casa e passarsi la domenica in famiglia non è sbagliata quanto quella di ricoverarsi per mera osservazione. Le indicazioni dell’altra volta e la scelta coraggiosa di non fare nulla ed aspettare sono ancora valide. I familiari hanno troppa paura di un’altra crisi respiratoria e sollecitano il ricovero. E’ comprensibile e giusto. Ogni scelta in questo caso è giusta. È molto difficile trovare dentro di noi il coraggio di non fare nulla.
Questi sono solo alcuni dei pazienti che nella mia breve carriera di Medico d’Urgenza ho accompagnato nel fine vita cercando di togliere sofferenze e cercando di dare qualità di vita. Insieme a questi ho anche pazienti in cui mi sono accanito superando qualsiasi evidenza scientifica o protocollo con rianimazioni cardio-polmonari durate più di un’ora perché credevo nella possibilità di successo.
Come muore un anziano o un paziente a fine vita in Ospedale?
Muore in tanti modi. E muore come noi decidiamo di farlo morire. Muore con dignità se noi decidiamo di farlo morire con dignità e muore tra atroci sofferenze e senza dignità se noi decidiamo di accanirci. I familiari non hanno sempre la capacità e l’obiettività per capire qual è il percorso migliore per il loro caro. È compito nostro condividere il percorso con il paziente se ciò risulti possibile e con i familiari in ogni caso. Di queste scelte e di queste decisioni deve rimanere traccia in cartella.
Il medico ha il compito di interrompere la spirale di accanimento diagnostico e terapeutico spesso richiesta dai familiari o suscitato dalla paura del contezioso medico-legale. È nostro compito salvare vite ed è nostro compito dare delle morti dignitose. È nostro compito nella confusione dell’Area di Emergenza fermarci e parlare con il paziente ed i familiari.
Mi colpì molto, anni addietro, una frase di un tutor ad un corso SIMEU/SAU parlando di sedazione a scopo palliativo: “si ha in carico una intera famiglia e non solo il paziente”.
A volte mi chiedo però se il fardello di sospendere/interrompere i trattamenti sia troppo grosso per un singolo medico e mi chiedo se non sia possibile richiedere un consulto in urgenza/emergenza ad un comitato etico, appositamente creato. Sarebbe utile, così come si chiede una consulenza chirurgica o cardiologica, coinvolgere urgentemente ed al letto del paziente del comitato etico ospedaliero… in modo da decidere collegialmente l’atteggiamento giusto da seguire per quel paziente. Ma questo è un sogno… la nostra società moderna non considererebbe mai una urgenza né l’etica né la morale.
Il morente conserva i suoi diritti anche in Area di Emergenza.
Oggi si nasce nell’anonimato di un ospedale e si muore nell’anonimato di un altro ospedale. Prima si nasceva a casa nell’amore dei genitori e si moriva in un’altra casa tra il calore dei figli.
Ti ringrazio per questo post davvero toccante e attuale: mai come oggi dobbiamo cercare di recuperare la dimensione di un fine vita dignitoso vissuto senza accanimento e con un approccio proporzionato ed efficace. Un percorso spesso difficile, ma possibile se sul territorio si riesce a costruire un percorso con una programmazione di cura partecipe e reale… e soprattutto se riusciamo a prenderci cura delle persone al di fuori dell’Ospedale.
Grazie Mauro. Un post che dovrebbe essere letto e studiato in ogni facoltà di medicina. La bellezza in un argomento così difficile è potestà dei Grandi! Coraggio, anche nel mettersi in mostra in una rianimazione ingiusta e che non volevi. Il dramma del collega che ti invita a fare qualcosa, quando quel qualcosa non solo è inutile ma è solo il prolungare un dolore, un’agonia. C’è ancora molta strada da percorrere, e i familiari devono essere istruiti, ma non sarà possibile finché ci saranno medici che al paziente morente eseguono ega arteriose e cateterismi vescicali.
Grazie Mauro, per questo post bellissimo
Meraviglioso…un post di profondità scientifica e culturale davvero unica…da rendere profondamente parte del nostro sentire e del.nostro agire…Grazie per aver reso così efficacemente aspetti così delicati…grazie per aver voluto condividere con tutti questa perla..
Grazie mille di aver apprezzato questo arduo (da scrivere) post. Mi sono dovuto mettere a nudo… Contento che sia piaciuto
Mi sono rivisto , in alcuni casi del tuo bellissimo e toccante post. Da utilizzare come lezione . Da far leggere come e acquisire come linea guida . Ma è impossibile. Nel lontano 2006 , al mio primo incarico in p.s. , al mio primo contatto con un anziano morente , nella mia più innocente e tenace dedizione di salvare la vita , mi scontrai con un vecchio, saggio , anestesista che si rifiutò di intubarlo. Pensai , stupito e rancoroso ” chi siamo noi a decidere sulla vita di un paziente , dobbiamo provare sempre .” Col tempo ho imparato . Col tempo ho compreso l’importanza dell’accompagnamento dignitoso verso la morte. Ne ho fatti alcuni , d’accordo e con la presenza dei figli , nel mio pronto soccorso. Ne sono uscito sempre contento del gesto e gratificato dal ringraziamento dei parenti.
P.s. È vero io, il monitor bisogna spegnerlo . È cattivo consigliere.
Grazie.
Grazie Mauro, condivido appieno il tuo punto di vista e nel mio piccolo ho sempre cercato di fare in questo modo.
Il tuo post fa riflettere e dovrebbe far riflettere tutti. Purtroppo in pochi hanno il coraggio di parlare di fine vita e a volte ci si trova a comunicare a familiare “illusi” in precedenza che il congiunto è un paziente terminale (ovviamente con i tempi risicati che abbiamo nei nostri turni devastanti).
Grazie ancora
Grazie per il post, concordo sulla necessità di dire la verità al paziente e alla famiglia. Personalmente la cosa che più detesto è ricevere pazienti terminali provenienti dalle lungodegenze o da casa. Vengono mandati dai parenti e dai loro medici (…tacci loro) a morire in Ospedale, perché non sanno più gestire la morte in casa. Spesso i nostri dea non hanno neppure un posto idoneo per vegliare chi se ne sta andando. Auspico anche io la presenza di un comitato etico intraospedaliero.
Volevo condividere un’esperienza: circa un anno fa venne a trovarmi un paziente di 46 anni per dolore addominale comparso da due giorni: grazie a un’ecografia feci diagnosi di neoplasia della testa del pancreas. Mi chiese cosa significasse: gestiva un’attività in un paese vicino e aveva avuto un figlio con l’attuale compagna (ed era separato dal precedente matrimonio). Gli spiegai che era giunto il momento di sistemare le cose per i suoi cari. Lui annuì e tornò a casa, nei giorni successivi avrebbe chiesto un parere specialistico. Tornò nel mio PS dopo un mese esatto: stava male, era diventato cachettico, itterico. chiese di esser accompagnato in bagno ma non riuscì ad evacuare, ritornò sulla barella. Mentre parlava improvvisamente ebbe un’ematemesi massiva e andò in arresto. La compagna poi mi spiegò che era riuscito a vendere l’attività e a fare testamento. Penso che la morte per ematemesi massiva sia una delle poche morti che non possano esser gestite a casa.
Ricordo un caso similare: un tumore polmonare in fase terminale complicato da emottisi. L oncologo lo voleva dimettere ma ho insistito per il ricovero. L emottisi e l ematemesi non sono condizioni gestibili al domicilio
Vengono mandati a morire in ospedale
Pier: grandissima verità!
Non viene quasi più accettato che un malato terminale, anche il neoplastico già assistito a domicilio, possa morire a casa sua, nel suo letto.
Nella mia opinione, è disumano.
Complimenti Mauro per il bellissimo post.
Ho apprezzato soprattutto l’idea di affiancare ai “casi clinici” dei quadri incentrati sulla malattia e la morte. Anch’io, per quanto affezionato sostenitore di score clinici, biomarcatori e linee guida, sono convinto che questi temi vadano affrontati tenendo conto del potente significato simbolico di ogni parola pronunciata e di ogni atto compiuto in questi momenti, un aspetto che solo l’arte può cogliere pienamente.
Complimenti! Ciascuno di noi medici dovrebbe essere dotato della stessa intelligenza emotiva..ma quella (aime’) non si impara dai libri..
Salve mi chiamo Isabella e,sono un’infermiera.
La ringrazio di questo bellissimo post
Purtroppo troppe volte ho visto tanto, troppo accanimento dovuto a paura, di rivalse,medicina difensiva, richieste assurde di familiari che non riescono a fare un ultimo gesto di amore verso il loro congiunto lasciandolo andare, ma ci costringono a trattenerlo in questo mondo tra tante sofferenze per egoismo,paura della perdita. E noi sanitari spesso non abbiamo il coraggio di difendere i diritti di cui giustamente avrebbe diritto a finire i propri giorni con serenità e dignità. Per quanta dignità spesso ci possa essere a morire un in pronto soccorso affollato in cui non la persona non può essere salutata con tranquillità. In un pronto spina cui la salma deve essere spedita via subito perché ti serve lo spazio. La sua frase finale è verissima.
Spesso nelle riviste,sui siti di parla di umanizzazione delle cure. Se siamo arrivati a questo forse abbiamo perso qualcosa lungo la strada.
Mio padre sì è spento serenamente nel suo letto. Per mia madre non è stato possibile, purtroppo. Doveva essere operata d’urgenza ma le sue condizioni erano molto compromesse. Io non volevo che fosse operata, ma i medici mi hanno fatto sentire in colpa se non.lo avessi fatto perché le toglie o una chance. È morta comunque alcuni giorni dopo con stomia, catetere,sng, CVC, drenaggio, Mad ecc. E mi è rimasto il senso di colpa di non aver avuto più coraggio e non avere difeso e sostenuto la volontà di mia mamma in un momento in cui era fragile e non poteva in piena autonomia esprimersi.
Spero che il suo post sia fonte di riflessione per tutti noi.
Le auguro buon lavoro
Isabella
Isabella, ti ringrazio per aver condiviso questo tuo prezioso ricordo con noi ed i lettori del nostro BLOG. Ogni scelta può essere giusta ed ogni scelta può essere sbagliata nel contesto del fine vita. Anche tu il quel momento eri fragile come tua mamma.
Qualche giorno fa, guardando un documentario sulla vita di Robin Williams, attore straordinario e uomo di valore anche se a tratti controverso, mi ha colpito questa frase:
l’attore diceva: “non conosco i segreti della recitazione ma so che se ascolti e basta, sei nella scena, e non dovrai più preoccuparti di cercare una battuta; se non interferisci con te stesso sei interessante e la gente capirà, perché la tua faccia sarà accessibili e tu sarai nel personaggio. Non fare niente e ti stupirai di quanto fai, non fare niente, parla e basta”
Ecco, credo che ci siano momenti in cui un medico non deve fare niente, se non rendere la sua faccia accessibile…e tutti capiranno
Bravo Mauro.
Una selezione di casi che ognuno di noi ha dovuto affrontare e che rappresentano, credo, le condizioni nelle quali le conoscenze mediche tecniche e le abilità non tecniche si devono esprimere e fondere, senza dimenticare il buon senso.
Sono rimasto particolarmente colpito dal caso della paziente cachettica che “devi” rianimare perchè il parente medico ti chiede un “ultimo tentativo” e mi sono commosso nel leggere di come ti sei sentito, lacerato tra etica ed esortazione del collega. Se sei capace di scrivere un post così profondo, sono convinto che in una situazione analoga troverai il coraggio di non fare niente. Ti abbraccio davvero di cuore.
Bellissimo post. Io prima da medico urgentista e ora da internista come te vivo situazioni come queste quotidianamente . Spesso mi sento oppressa da tutto ciò, purtroppo il numero di pazienti terminali che visitiamo e’alto e per me è molto doloroso. Lo è comunicare la diagnosi e distruggere le aspettative del futuro del paziente e della famiglia, lo è cercare di rassicurarli quando non è realmente così,lo è comunicare che sta andando male,lo è decidere di interrompere le cure ormai inutili e iniziare la sedazione. So che è ruolo del medico anche la morte ma è davvero dura. Indubbiamente la dignità del paziente e della famiglia devono essere alla base delle nostre azioni
Grazie di queste toccanti storie, ho fatto l’urgentista per molti anni poi ho passato un anno a fare il paziente durante il quale ho visto tutto dll’altra parte .
Tuttavia l’urgenza mi manca, quello sforzo eroico dove in ogni caso metti del tuo aldilà delle LG e delle Buone prassi , dove l’inventiva del singolo talvolta vale di più di tutti i libri sopratutto quando la diagnosi non è così scontata ed occorre non solo sapere ma anche pensare .
Patrizio
Tema importantissimo, costantemente trascurato e spesso declinato con il lurido e dannoso assioma della medicina difensiva. Quando fermarsi? bella domanda…Grazie Mauro