“Allora, indossi questo camicino, e ritorno tra 5 minuti per fare la mia visita, tutto chiaro?”
Durante la prima visita a cui ho assistito nella mia rotazione clinica all’estero, questa frase ha attirato la mia attenzione, e quando ho chiesto se quella fosse la loro routine, la risposta è stata “Qui è pratica standard che il paziente si spogli e che indossi il camice per la visita, inoltre per esame pelvico, rettale e mammario meglio chiedere alla infermiera di essere presente.”
Essendomi “formata” come medico in ospedali dove non si usano camicini di cotone per le visite, ho sempre visitato i miei pazienti con i vestiti addosso, scoprendo le parti designate alla visita ad una ad una…ma mentre è semplice con uomini e donne vestiti con pantaloni e maglia/camicia…diventa complesso quando i pazienti arrivano con vestiti, collant, leggins, body…a chi di voi non è capitata la signora con vestito, body, collant, o la vecchina che inizia ad armeggiare per svestirsi (impiegandoci anche dei bei quarti d’ora..) perchè indossa 3-4 maglie, sul body e le calze a maglia di lana ..”perchè sa dottoressa, non vorrei prendermi un malanno…” (anche se siamo ad agosto ed io sto morendo soffocata dal mio camice…)
Da quando mi sono trovata ad affrontare questa nuova esperienza in un paese straniero ho iniziato a farmi delle domande relative al mio modo di “fare” medicina che non mi ero mai posta prima, e che mi hanno fatto sorgere alcuni dubbi su quello che io consideravo “comportamento di routine” e sul quale non mi ero mai soffermata a riflettere.
Infatti durante tutto il percorso di studio, mai una volta mi sono trovata a discutere ed affrontare il discorso di come sia diversa la concezione di esame obiettivo/visita dalla prospettiva del medico e del paziente. Nessuno mi ha mai insegnato come mi sarei dovuta comportare, come avrei dovuto parlare con il paziente, quale linguaggio usare, nessuno mi ha mai detto in che modo “sopprimere” la normale visione di interazione, socializzazione e contatto fisico, utilizzata nella vita quotidiana di tutti i giorni, per diventare “professionale”.
Ho deciso di cercare di approfondire quindi due principali aspetti, traslabili in ogni professione medica: il concetto di prospettiva, e quello, molto attuale ai giorni nostri, di competenze interculturali, che in un certo modo sono strettamente legati tra di loro.
In un capitolo di un libro “Hippocrates’ Shadow” l’autore usa un’ interessante metafora, quella del banchiere allo sportello di una banca. I primi giorni o settimane, maneggiando quella grande quantità di soldi nelle sue mani si troverà spesso a pensare a come sarebbe bello averli per sé, di come sarebbe semplice metterseli in tasca e divenire ricco, sognando come potersene appropriare. Ma molto presto, forse per routine e senso del dovere, diventando giorno dopo giorno “professionale”, quell’istinto sparisce, e quei soldi per lui diventano pezzi di carta senza valore, “soldi differenti” da quelli che lui normalmente desidera.
Allo stesso modo il medico impara a esaminare il corpo di un paziente senza considerarlo “corpo” nel senso sociale del termine, ma nel senso anatomico, medico, fisiologico, come una macchina che ha qualcosa di rotto e che deve essere aggiustato.
Da qui il concetto di prospettiva. Mentre per il medico l’esame obiettivo è quindi qualcosa di routine, il corpo del paziente uguale a migliaia di altri che ha esaminato precedentemente, per il paziente la visione è decisamente diversa, quello è il SUO corpo, e la SUA visita.
Quando quindi eseguiamo l’esame obiettivo di un paziente, ci chiediamo mai come egli interpreti tale visita? Spieghiamo cosa stiamo facendo e perché? Chiediamo il permesso di farlo? Cerchiamo di capire come i nostri gesti possono essere interpretati dal paziente? Cerchiamo di garantire l’appropriata privacy durante le visite, specialmente quando nella sala visita vi è un via vai di personale medico e assistenziale?
Di sicuro stiamo facendo il nostro lavoro con professionalità, nel massimo rispetto, ed al meglio delle nostre capacità e possibilità, ma dobbiamo considerare come le prospettive siano diametralmente opposte, come la nostra visione “professionale” sia diversa da quella sociale, come i “pezzi di carta” per il cassiere della banca diventino di nuovo soldi nelle mani del cliente allo sportello.
Mentre esistono linee guida su come trattare una marea di differenti condizioni cliniche, dalla fibrillazione atriale alla sepsi, passando per lo scompenso cardiaco o l’asma, non ne esistono di universali relative al comportamento, alla visita medica insomma, spesso esse si basano sul “buon senso” ed il contesto sociale e culturale che ci circonda.
A tale riguardo ho trovato decisamente interessanti due articoli che ho individuato spulciando su Pubmed.
Il primo è di Atul Gawande, chirurgo e scrittore, che in bel articolo pubblicato nel 2005 sul NEJM descrive con assoluta semplicità e delicatezza l’argomento, sottolineandone un secondo importante aspetto, molto attuale negli Stati Uniti allora, ma che sta diventando di rilevanza notevole anche in Italia.
Nel suo pezzo egli solleva il problema della assenza di linee guida di comportamento negli USA sull’espletamento della visita clinica, e riporta come diversi siano gli approcci in diverse parti del mondo. Come in alcune realtà al famigliare sia concesso di rimanere al fianco del paziente durante ogni fase della visita medica e degli accertamenti, come in Iraq per esempio non sia possibile visitare una donna facendole indossare il camice, e sia concesso scoprirne solo certe parti del corpo una alla volta sempre in presenza di componente maschile della famiglia, come in altri paesi sia invece necessaria la presenza di un “chaperone” famigliare o personale medico-infermieristico, durante l’esame obiettivo pelvico o rettale, o per l’esaminazione del seno. Come in Ucraina per esempio il famigliare non assista alla visita e che non sia richiesta la presenza di un “testimone” durante la visita.
E da noi? Come funziona? Quali sono le nostre linee guida?…immagino che se chiedessi ad ognuno di voi in maniera specifica otterrei diversi tipi di risposte a seconda del setting in cui viene visto il paziente ed a seconda del concetto di “buon senso” clinico di ognuno di voi, ma questo può davvero bastare? o vi è necessità di qualcosa di diverso, forse più standard?
Nel suo pezzo Atul Gawande inoltre sottolinea come, spiegare cosa viene fatto ed il perché, chiedendo una sorta di permesso, sia un atto medico che porti a creare una maggiore fiducia e collaborazione del paziente nella visita, che non si sente più solamente considerato “malattia o corpo danneggiato da aggiustare”, ma parte integrante del processo di cura, al fine di rendere anche ai non “addetti ai lavori” chiaro il perché di particolari manovre mediche.
Quindi spiegare, con professionalità, descrivere, chiedere il permesso e cercare di preservare la privacy sono i primi passi, quelli che noi utilizziamo solitamente e che chiamiamo “buon senso”, ma che a volte ci dimentichiamo di adottare, per carenza di tempo, per troppo stress, per carenza di spazi fisici negli ospedali, o perché, involontariamente, la nostra mente in quel preciso momento è “tarata sui pezzi di carta” e non ci accorgiamo che invece sono “soldi” con il loro specifico valore.
Ma è importante ricordare come, se per noi quel paziente è uno dei tanti che vedremo quel giorno, quel mese…per quel paziente noi saremo “unici” ed è quello il suo momento, il nostro volto è quello che si ricorderà.
Tale discorso può essere traslato anche in altri aspetti della visita, come l’utilizzo di termini comprensibili al paziente, la spiegazione di come verrà svolto un particolare esame e perché del percorso terapeutico di cui è oggetto e soggetto, fanno parte del famoso “consenso informato” che sì, si basa su una firma su un pezzo di carta, ma soprattutto è un atto di fiducia che il paziente “nella sua nudità fisica e psicologica” esegue nei confronti del medico.
Al termine del suo articolo conclude con una frase molto riassuntiva del messaggio che vuole trasmettere: ” …ma sono arrivato alla conclusione che nessun paziente ha visto migliaia e migliaia di medici. Loro hanno una minima idea di cosa, entrati nella sala visita di un medico, è considerato “normale” o no.”
In un secondo articolo, legato a quello precedente, vengono invece sottolineati alcuni problemi della società multietnica nella quale ci troviamo a vivere ai giorni d’oggi e di come questo abbia un impatto notevole anche in medicina.
Il Pronto Soccorso, ma non solo, è da sempre, ma maggiormente negli ultimi anni, frequentato da persone di nazionalità e culture decisamente diverse dalla nostra. Per cui se non abbiamo un approccio standard da adottare con i pazienti della nostra stessa nazionalità, basandoci solo su una serie di regole e di buon senso, come possiamo essere sicuri che adottare lo stesso protocollo per pazienti provenienti da nazioni, culture, religioni e storie diverse sia corretto?
Qui nasce la grande sfida della medicina moderna.
In un articolo pubblicato nel 2008 su Academic Emergency Medicine, Padela e colleghi provano a descrivere alcuni scenari di vita vissuta in reparti di medicina d’urgenza, identificando alcuni grandi problemi e provando a cercare delle soluzioni.
Come è ben noto a tutti noi infatti i principi su cui si basa la medicina sono: non nuocere al paziente (non fargli del male insomma), rispetto della persona (dare al paziente la libertà di scegliere le cure che ritiene giuste per il proprio benessere, attraverso l’atto dell’acquisizione del consenso informato), cercare di fare il bene per quella persona (scegliendo la procedura o l’approccio terapeutico migliore dopo averne valutato rischi e benefici) ed in maniera giusta e corretta(consentendo a tutti di accedere alle stesse cure al fine di ottenerne i massimi benefici).
Le barriere linguistiche sono tra i principali fattori di problemi e di mal interpretazione, che possono portare ad errori diagnostici ed all’impossibilità di creare un rapporto di fiducia che è alla base della buona riuscita del percorso diagnostico terapeutico. Spesso la traduzione operata da un parente o un amico può essere non esatta o “tagliata” o il paziente può non voler comunicare determinati problemi legati alla sua salute tramite parenti o amici per paura di essere giudicato, per cui questo è, e rimane, un enorme problema nella gestione di pazienti di altre lingue. Inoltre la firma del consenso informato posta da un paziente su un documento che non è in grado di leggere ci pone di fronte a possibili problemi medico-legali. Ma dobbiamo anche renderci conto che possiamo trovarci di fronte a pazienti analfabeti, che anche se condividono la stessa lingua, non sono in grado di leggere i consensi o le lettere che diamo loro al termine della visita. Ci interroghiamo di cosa ha davvero capito il paziente? se è in grado di leggere ed assumere correttamente le terapie prescritte, o una volta fatto il nostro lavoro, firmato il consenso e posta la lettera di dimissione nelle mani del paziente consideriamo il nostro lavoro fatto e completato?
Le barriere non verbali, come precedentemente descritto nella prima parte, elementi come il contatto fisico o visivo, ed il concetto culturale e religioso del corpo sono fondamentali per la creazione di rapporto medico-paziente efficace basato sulla fiducia.
I bias culturali e stereotipi che accompagnano a volte i nostri giudizi e le nostre decisioni mediche sono parte di un errato modo di agire nei confronti di pazienti provenienti da paesi stranieri. Cercare il più possibile di liberare la nostra mente da pregiudizi e stereotipi mentali è il secondo passo da fare per riuscire a trattare nel migliore dei modi tutti i pazienti.
In un altro breve articolo pubblicato sul NEJM del 2004 J. Betancourt sofferma la sua attenzione sul concetto di “cultural competence”.
Per cultura infatti egli considera i credo, i valori ed i comportamenti di un individuo all’interno di un particolare gruppo di altri individui che condividono lingue, usi e costumi e ruoli sociali. Egli sostiene che tutti noi siamo la somma di differenti culture, ad esempio quella sociale, professionale, o religiosa. Il concetto quindi di cultura va decisamente al di là di quello di etnico o legata al paese di origine.
La cultura da quindi forma al nostro modo di essere, pensare, comportarci ed è composta da numerosi tasselli.
La conoscenza delle altre culture con cui veniamo a contatto ormai ogni giorno ed il rispetto di esse è fondamentale. I credo e le regole di vita di culture diverse dalla nostra sono molto importanti, perché esse definiscono a 360 gradi il paziente che abbiamo di fronte, che non è solo un corpo con un problema, ma un individuo facente parte di una cultura, di una famiglia di un credo. E spesso questi credo “cozzano” contro i percorsi della medicina moderna. Ruolo del medico è di riconoscere il problema, proporre una soluzione, informare il paziente ed accettare gli scogli “culturali” che ci possono essere, a volte anche il rifiuto del trattamento. Tali credo a noi risultano incomprensibili in quanto “diversi”, ma fanno parte invece di quel determinato paziente.
Il modello di cura “centrato sul benessere del paziente” si basa sulla nostra capacità di evolvere in medicina e di essere flessibili e sensibili ai bisogni di ogni paziente, sia bisogni clinici che culturali, cercando di plasmare quindi il nostro modo di fare i medici sui nostri pazienti invece di cercare di “categorizzare” i nostri pazienti in sindromi e patologie.
Solo in questo modo si è in grado di praticare la medicina che è veramente il meglio per i nostri pazienti…è una dura lotta ed una sfida quotidiana che comporta notevole sforzo e dedizione ma che non può che rendere il nostro lavoro più prezioso e speciale ogni giorno per ogni paziente che abbiamo incontrato e che incontreremo lungo la nostra strada.
Reference
1 Joseph R. Betancourt, M.D., M.P.H. Cultural Competence — Marginal or Mainstream Movement? N Engl J Med 2004, 351;10 – Link
2 Renée C. Fox, Ph.D. Cultural Competence and the Culture of Medicine N Engl J Med 2005. 353;13 – Link
3 Atul Gawande, M.D., M.P.H. Naked N Engl J Med 2005 353;7- Link
4 D.H. Newman Hyppocrates’ Shadow
Complimenti per il post! Sono rimasto fin da subito colpito dal titolo e dalla capacità che hai avuto, probabilmente essendo “oncologa dentro” 🙂 , di cogliere aspetti così delicati e sfuggenti del lavoro di pronto soccorso.
Nella mia personale e limitata esperienza ritengo che la presenza dei familiari o delle persone care sia una risorsa importate per il paziente, sempre che sia il paziente o la paziente stessa a volerlo. Su questo, però, incontro molto spesso resistenza da parte dei colleghi e dei collaboratori.
Ancora grazie per il post.
Grazie mille Alessio per il tuo commento.
Ho scelto questo argomento perche’ credo che se anche poco “tecnico” sia in realta’ una parte molto importante della nostra professione. Il modo in cui ci relazioniamo con i nostri pazienti ed i famigliari e’ il nocciolo del possibile fallimento o successo della proposta terapeutica. Se riusciamo ad instaurare un rapporto di fiducia ed un dialogo, se riusciamo a farci comprendere e soprattutto comprendere, allora riusciremo ad essere i medici che veramente possono avere un impatto sulla vita dei nostri pazienti. Cerco di capovolgere la situazione: vado in banca e parlo di investimenti con l’impiegato, non e’ il mio campo (non ci capisco un’H)..quello che vorrei e’ una persona dall’altra parte che mi renda comprensibile quello che succede e quello che vuole fare, se riesce a creare un rapporto di fiducia ben venga, avra’ guadagnato un cliente, se no lo avra’ perso. Il rapporto medico paziente e’ decisamente piu’ complesso, ma si basa alla fine su di un atto di fiducia…quella fiducia che ci dobbiamo sudare e guadagnare al fine di poter fare il nostro meglio.
Per quanto riguarda la presenza di famigliari, credo che ci siano dei momenti in cui e’ fonte di calma e pace e momenti in cui invece l’ansia del famigliare si somma e va a fomentare quella del paziente, per cui io sono a favore del parente vicino, ma non in momenti come procedure invasive o manovre mediche in cui la concentrazione del clinico deve essere focalizzata sul paziente e non su tutto il gruppo di famigliari, ma questo e’ un mio personale parere.
Grazie mille ancora del tuo commento!
Susanna, grazie. Leggendoti ho ripensato a quello che rappresentavano una volta i “Dottori” nelle piccole comunità: figure di riferimento in materia di salute ma soprattutto autorità culturali di grande spessore umano. Il tuo ampio respiro è aria (mi concederà dall’alto anche questo Paul Kalanithi). E penso anche che la fatica quotidiana nell’esercitare la nostra passione per gli altri sia allo stesso modo la ricompensa ed insieme la motivazione nell’andare avanti. Proprio ieri ho trasferito dal mio PS, per competenza, G. 40 anni, donna, giunta per tentato suicidio, in uno degli Ospedali più importanti della mia Regione. Ho attraversato l’interminabile corridoio della medicina d’urgenza ed ho visto “decine di virtuosi che tentavano invano di vedere Dio”. Ed in quel Limbo noi ci troviamo ad agire nella speranza che il nostro volto compaia tra i ricordi più importanti dei nostri pazienti. Un abbraccio.
Grazie mille Nicola, ammetto che il tuo commento mi ha davvero emozionata. E non a caso citi Paul Kalanithi, proprio nel momento in cui sto percorrendo la sua strada leggendo il libro. Due sono le frasi che al momento mi hanno piu’ colpito. La prima dice > “how little do doctors understand the hell through which we put patients”, mentre la seconda e’ davvero riassuntiva di quello che noi dovremmo essere ” The physician’s duty is not to save off death or return patients to their old lives, but to take into our arms a patient and family whose lives have disintegrated and work until they can stand back up and face, and make sense of, their own existence.” Questa frase e’ davvero importante, perche’ spesso lottiamo per riportare la vita dei nostri pazienti alla precedente normalita’ anche se in fondo sappiamo che da quel momento essa non sara’ piu’ “normale”…
Da questo testo, da emozioni personali e da tutta una serie di riflessioni e’ nato questo post, con il fine di permettere a tutti quelli che lo vogliono e che hanno tempo di fermarsi a leggerlo, di interrompere un attimo il caos e frenesia della loro attivita’ e di riflettere non tanto su come ma sul perche’ stanno facendo il loro mestiere.
Grazie mille del tuo commento e dell’abbraccio
Susanna
Davvero un bel post, complimenti. Un argomento negletto che ho sentito trattare a Sbrojavacca nella sua bellissima lezione sul bon ton.
Quando comunichiamo una brutta notizia.. quel paziente per noi sarà solo uno dei tanti a cui comunichiamo una brutta notizia. Noi saremo sempre e solo quel medico che ha comunicato la malattia o la morte di un caro o di un parente.
Il nostro è un lavoro difficile in cui sapere la medicina rappresenta una piccolissima parte del nostro ruolo di medici.
Un medico è un tizio che si prende responsabilità.
Tra le responsabilità che si prende vi è quella di comunicare nel miglior modo possibile con il paziente e la sua famiglia
Grazie davvero del tuo commento Mauro.
Sono fermamente convinta che la metà del nostro lavoro sia legato alla comunicazione. Se comunichiamo correttamente, con il giusto tono e le parole giuste anche una notizia terribile può essere un poco meno amara. Il sentire di avere qualcuno al loro fianco, che partecipa, che lotta con loro nella battaglia che si trovano ad affrontare è di fondamentale importanza per i pazienti e le loro famiglie…ma ammetto che ogni volta è difficile come la prima, ogni volta è diverso, e spesso il cercare di “etichettare i nostri pazienti come “P. Maschio, 78 anni, fibrillazione atrile e scompenso cardiaco” o come “R, maschio, 42 anni, linfoma mantellare in trattamento di seconda linea dopo recidiva” è il nostro modo di difenderci e proteggerci da quello che vediamo ogni giorno. Perchè in realtà P. è magari il padre e marito di qualcuno, magari a due nipotini che stanno uscendo da scuola e che lui non potrà andare a prendere quel giorno, mentre R è magari il fratello o il migliore amico di qualcuno, che quella estate aveva pianificato le vacanze come tutti da qualche parte e che non ci andrà perchè deve ricevere la chemioterapia. La nostra responsabilità è quella di prenderci cura, e non è solo trattando il problema e prescivendo pastiglie, ma anche “perdere” del tempo ad ascoltare e cercare di capire davvero chi abbiamo di fronte per poter fare il nostro lavoro al 150%.
Grazie ancora!Susanna