domenica 9 Febbraio 2025

Confortare sempre. The dark side of the MEU (4a parte)

“Dottore, sto morendo?”
Ecco.
Sono le nove di sera. Una magnifica sera d’estate, e noi, in pronto soccorso, come sempre, non ce ne rendiamo conto. Una sera relativamente tranquilla, interrotta da un politrauma per un incidente della strada. Una sera d’estate spezzata da una domanda molto semplice, eppure insostenibile.
Una domanda come questa non può avere una risposta, soprattutto se a porla è un ragazzo di 19 anni, appena centrato da un’auto che gli ha fatto esplodere la milza, il rene sinistro e parte del pancreas. Un ragazzo che aveva appena salutato gli amici dopo una serata in spiaggia e che trascorreva un’estate spensierata dopo la maturità in attesa di iscriversi all’università.
Una domanda che ti spiazza, ti disturba anche, nel momento in cui la macchina sanitaria macina ordini, richieste, telefonate. La macchina funziona, perché ha immediatamente visto lo scempio che aveva in addome grazie all’ecografia EFAST, perché il chirurgo si è materializzato in ospedale e il ragazzo entra in sala operatoria dopo venti minuti dall’arrivo.

La macchina funziona, i suoi ingranaggi girano vorticosamente e in modo efficace.

Ma è una macchina.
Quella domanda (“Sto morendo?”) la pone un essere umano ad un altro essere umano.
Che però non sa cosa rispondere.
Ho bofonchiato qualcosa sul “Faremo il possibile. Non accadrà”, e sono tornato nella macchina, ad occuparmi delle operazioni necessarie alla salvaguardia della sua vita.
Ma quando il ragazzo è uscito dal pronto soccorso per entrare in sala operatoria, quella domanda mi è ritornata prepotentemente in testa, e con essa l’amara sensazione di essermi trovato a disagio cercando una risposta.
Perché era accaduto? Come medico, ho sempre pensato di avere il paziente al centro di tutte le mie attenzioni. Quella domanda mi ha mostrato che, invece, tendo ad occuparmi solo di una parte dei pazienti che visito, e che esistono molte aree che ignoro.
Facciamo ancora un passo nel viaggio nel lato oscuro della medicina d’emergenza. Sarà un passo difficile, perché difficile è il brano di Dark Side of the Moon che ci fa da guida: The great gig in the sky. E’ una canzone bellissima, ma sofferta e cupa: tratta della mortalità dell’uomo.

Come viene gestito, questo aspetto, dai medici di emergenza? Siamo abituati a gestire ogni genere di situazione, da quelle più banali a quelle più drammatiche: ma se le competenze cliniche, in genere, non ci spaventano e, se ci spaventano, sappiamo a chi chiedere aiuto (un collega più esperto, o un consulente), non siamo così preoccupati di un aspetto altrettanto importante ma che viene spesso trascurato: la comunicazione.
La comunicazione è un aspetto senza dubbio essenziale nel lavoro dei professionisti dell’emergenza (se ne parla anche in questo post), ma potremmo essere senza dubbio degli ottimi medici anche senza essere dei buoni comunicatori.
Vero, ma con delle riserve.
Esistono delle situazioni in cui la comunicazione è veramente fondamentale, eppure non sempre ce ne rendiamo conto. Gli anglosassoni utilizzano un acronimo anche per questo contesto: il BBB, ossia il Breaking Bad News, “portare cattive notizie”. La comunicazione di un lutto imprevisto, soprattutto ai familiari o agli amici di una persona giovane, è una delle esperienze emotivamente più provanti per un professionista dell’emergenza.

Questa è la tipica situazione in cui la comunicazione è fondamentale, e forse non sempre ne siamo consapevoli: forse siamo portati a pensare che, dopotutto, il peso maggiore lo deve portare la persona che riceve la notizia, e che noi siamo davvero piccoli piccoli, ininfluenti, e che quindi può essere sufficiente un minimo di tatto, utilizzando parole appropriate, e via alle successive incombenze che in un pronto soccorso non mancano mai.
Nulla di più sbagliato.
Diversi studi hanno dimostrato che l’atteggiamento del latore della cattiva notizia esercita un’influenza fondamentale – spesso devastante – su chi la riceve (Death notification in the ED: Survivors and physicians). Chi riceve una notizia grave come un lutto inatteso, imprevisto (un evento che modifica in pochi istanti il corso di una vita) tende a ricordare determinate situazioni, tra cui il modo in cui è stata consegnata la notizia. E molti autori hanno sottolineato come l’atteggiamento percepito dal familiare nel medico che riferisce la notizia sia spesso “distaccato”, “poco empatico”, “frettoloso”. Frettoloso: spesso abbiamo dei pazienti urgenti che reclamano le nostre attenzioni e dobbiamo correre per evitare che non diventino due, le notizie da comunicare; distaccato: come sempre, siamo portati ad utilizzare termini che il familiare non comprende (asistolia, rianimazione cardiopolmonare, ventilazione) e che se in condizioni normali ci allontano dai nostri ascoltatori, in un contesto simile ergono un muro inespugnabile; poco empatico: forse la tendenza a rimanere in disparte in un momento così delicato, e forse la sensazione (errata, come abbiamo visto) di essere ininfluenti nella scena.
Spesso dimentichiamo che le persone a cui comunichiamo una notizia del genere sono vittime a loro volta, e che il loro dolore deve essere gestito allo stesso modo in cui dovremmo gestire il dolore fisico dei nostri pazienti.
E’ forse una delle situazioni più complesse e coinvolgenti per un professionista dell’emergenza, e per la quale non abbiamo ricevuto nessun tipo di preparazione. E non dobbiamo trascurare un altro elemento essenziale: mentre in un reparto (in genere) l’evento può essere in qualche modo atteso e quindi preparato, con un rapporto tra il personale ed i familiari che si è già instaurato, in pronto soccorso spesso si parla di eventi improvvisi e imprevisti, che devono essere comunicati a persone che non conosciamo e che non abbiamo mai visto, in un ambiente caotico e poco adatto, con una miriade di spettatori inconsapevoli e spesso indifferenti. Spesso non abbiamo neppure una spiegazione di quanto accaduto, e questo contribuisce ancora di più alle reazioni di rabbia e di impotenza dei familiari. In una società abituata alla spettacolarità delle vicende sanitarie, in cui c’è sempre una risposta e una via d’uscita, ci troviamo spesso a dover dimostrare che purtroppo non sempre è così.
Una adeguata comunicazione è davvero fondamentale. Eppure, ribadisco, l’università prima e le scuole di specializzazione dopo non se ne occupano in modo adeguato, oppure lo fanno in modo del tutto marginale e insufficiente. E’ fondamentale conoscere la fisiopatologia della sepsi, saper utilizzare un ecografo, saper come e quando posizionare un tubo endotracheale o una via venosa centrale. Ma non saremo mai completi se non sapremo padroneggiare anche questo aspetto. Che sarà benefico anche per lo stesso personale sanitario: è stato ampiamente dimostrato come la comunicazione di un lutto imprevisto rappresenti una delle situazioni di maggiore stress per il personale dell’emergenza (Notifying survivors about sudden, unexpected deaths) , che può contribuire all’esaurimento professionale, o burn-out, e condurre a sintomi come l’insonnia e l’affaticamento. Uno dei tanti mattoncini (utilizzando un’altra metafora tratta dai Pink Floyd) che può costruire il muro che isolerà il medico dell’emergenza dagli aspetti belli e gratificanti del suo lavoro.

Possedere le competenze comunicative adeguate permetterà quindi di utilizzare gli strumenti corretti per elaborare le situazioni che vengono affrontate quotidianamente: ossia riuscire a gestire una domanda come quella con cui ho aperto il post, e riuscire a gestire gli stati d’animo evocati da quella domanda. Credo che questo significhi essere medici migliori, e per chi si occupa di emergenza costituisce sicuramente un passo importante, ancorché complesso, e che non possiamo svolgere da soli. Esistono diverse proposte, come corsi di formazione, con simulazione di scenari e ruoli recitativi, per la preparazione dei professionisti, e l’organizzazione di percorsi di “debriefing”, con il supporto di psicologi e psichiatri, dopo eventi particolari, ma queste superano le mie competenze e le finalità di questo post, che vuole portare alla luce uno degli aspetti più complessi e trascurati del nostro lavoro. Un lavoro che richiede competenze trasversali, variegate e che non può trascurare l’empatia e una profonda umanità. Dovremmo essere praticamente superman, come ho già accennato nel primo post di questa serie.
No, in realtà dobbiamo riuscire ad essere umani, e ricordarci di uscire dalla macchina, ogni tanto, e parlare, guardare le persone che cercano la nostra attenzione o che comunque hanno bisogno di un nostra parola. Che deve essere giusta, sapiente, umana anche nella fretta che ci contraddistingue e anche nella baraonda delle nostre strutture.
Come ha scritto Roberto Cosentini in un commento al primo post di questa serie, il lavoro della medicina d’emergenza “al di là dell’eroismo di salvare una vita — in verità non così frequente. — è ricchissimo di umanità, dal primo paziente all’ultimo che vedi, sempre…
Infatti, come scrisse Edward Livingston Trudeau, il medico deve “Curare a volte, alleviare spesso, confortare sempre
Sull’ultimo aspetto, dobbiamo ancora lavorare.

(to be continued)

Alessandro Riccardi
Alessandro Riccardi
Specialista in Medicina Interna, lavora presso la Medicina d’Emergenza – Pronto Soccorso dell’Ospedale San Paolo di Savona. Appassionato di ecografia clinica, è istruttore per la SIMEU in questa disciplina, ed è responsabile della Struttura di Ecografia Clinica d’Urgenza . Fa parte della faculty SIMEU del corso Sedazione-Analgesia in Urgenza. @dott_riccardi

12 Commenti

  1. Grande Ale. Io dico che il medico d’urgenza deve utilizzare i farmaci a somministrazione timpanica (parole), retinica (sguardi – occhi negli occhi), e cutanea (contatto . mano sulla spalla . mano nella mano). Questi sono i farmaci che testimoniano la vera presa in carico del malato e che possono abbattere il gap tra clino ed ortostatismo. Veder il mondo ed i volti dalla posizione distesa rende fragili al di là della gravita della malattia che ti porta in P.S. Eppoi competenza nel fare manovre avanzate di comunicazione: quella che io chiamo ORACENTESI. Cioè cercare di drenare parole, pensieri dalla bocca dei nostri malati. FACCIAMOLI PARLARE ED ASCOLTIAMOLI. Impareremo tanto. Poche sere fa ho sedato con il MAD e midazolam in intranasale Salvatore, portato dalla polizia municipale per guida pericolosa secondaria ad agitazione e stato di ebbrezza. Durante la sommnistrazione del midazolam inizio con le manovre di empatia e chiedo che la voro fa. Salvatore “dottò sono imprenditore” “ah” faccio io visiblmente sorpreso “imprenditore di cosa?” ribatto velocemente ed incuriosito: “della vit dottò”. Il mio sguardo ironico e stupitp f reclamare a Salvatore “ma pecchè dottò ‘a vita nun è un’mpresa?” Grande Salvatore. Ho imparato tanto da quelle parole e lo vedrete al prossimo corso SAU quando parleremo di comunicazione: ovvero quanto possiamo imparare dai nostri malati e da medici come Alessandro Riiccardi!!!

  2. Questo non è un semplice post. Queste sono parole da stampare su un foglio ed appendere in DEA, piuttosto che nel proprio studio o nella propria camera.
    Una riflessione da leggere in tutti quei momenti in cui si è, passatemi il termine, incazzati oppure demoralizzati; in quei momenti in cui ci si chiede, “ma chi me lo fa fare”… Ed invece si è lì anche per comunicare al e con il paziente.
    Grazie per questa condivisione dr. Ricciardi.

  3. grande! gli anglosassoni hanno i corsi e i momenti di debriefing obbligatori…..noi siamo ancora lontani, anche dal semplice parlarne……e questo post è un mattoncino fondamentale, per costruire in tutti, questo tipo di cultura!
    grazie!

  4. Grazie del bellissimo post! Penso che nella peculiare relazione d’aiuto che si instaura con il paziente non ci sia momento più delicato e più bello di quando il paziente arriva a confidarci le sue paure più profonde e i suoi dolori più grandi…Sta a noi fare ricorso a tutte le nostre risorse farmacologiche comportamentali e umane per alleviare e confortare…Grazie per avercelo trasmesso con i bellissimi corsi SAU.

    • Grazie Diego! Il nostro è un lavoro speciale malgrado tutti gli aspetti negativi (il viaggio prosegue, ne parliamo anche nella prossima tappa!) e può rimanere speciale se riusciamo a dominare e a gestire gli aspetti più problematici. E grazie per aver partecipato al SAU. Per me è stato e continua ad essere un momento di crescita, umana e professionale: non solo per gli amici con i quali condivido il corso (che tanto mi hanno trasmesso) ma anche per tutti i colleghi che hanno partecipato e che sempre mi hanno insegnato qualcosa

  5. Questo è un argomento che deve essere ampliato, magari anche con l’aiuto di diversi specialisti del settore, la difficoltà nello scegliere la forma giusta di comunicazione dipende anche dalla personalità di chi deve ricevere una brutta notizia. E chi lavora in un DEA (o peggio col 118) si trova sempre nella svantaggiosa situazione di non conoscere e di non essersi fatto conoscere dalle persone alle quali deve comunicare la morte del loro caro.

    • Pier Nicola, hai proprio ragione. Il problema nasce proprio dalla complessità della situazione, imprevista e inattesa, e dall’assente rapporto con le persone a cui devi comunicare una notizia del genere. E se in Pronto Soccorso hai il vantaggio (almeno) di avere delle pareti, sul territorio sei ancora più esposto. Nei DEA, però, dovrebbe essere previsto uno spazio apposito, anche se non dedicato almento isolato rispetto al resto del caos.

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