domenica 6 Ottobre 2024

La copertina insanguinata

Il numero di luglio 2014 del BMJ sanguina. Il responsabile è il dabigatran. A scoprirlo un’investigazione clinica sul farmaco resa possibile da documenti originali ottenuti e pubblicati nel contesto di una causa legale intentata nei confronti della casa farmaceutica Boeheringer, produttrice del farmaco, da parte dei familiari di pazienti arruolati nel RELY e deceduti per complicanze emorragiche.

Il Dabigatran, nome commerciale Pradaxa, inibitore diretto della trombina, è il capostipite di una nuova categoria di anticoagulanti orali, i NAO.

Lo studio RELY (Connolly SJ; 2009; NEJM) confrontava l’efficacia e la sicurezza di due differenti ma fissi dosaggi del dabigatran (110 o 150 mg due volte al giorno) versus warfarin (dosaggio secondo INR) nei pazienti con fibrillazione atriale non valvolare (FANV). Outcome primari erano l’incidenza di stroke ed embolie sistemiche, l’outcome di sicurezza l’incidenza dei sanguinamenti maggiori e fatali. Lo studio, di non inferiorità, ha dimostrato la capacità del dabigatran a dosaggio superiore di ridurre il numero di stroke ed embolie sistemiche a fronte di un uguale rischio di sanguinamento e la capacità del dabigatran a dosaggio inferiore di mantenere la stessa efficacia terapeutica del warfarin con un rischio di sanguinamento nettamente ridotto.

L’aspetto ed impatto maggiormente rivoluzionario del farmaco, su cui la azienda farmaceutica ha impostato una strategia di marketing aggressiva, è la supposta sicurezza ed efficacia terapeutica senza la necessità di alcun monitoraggio ematico per monitorarne l’attività, come richiesto per il warfarin. Il concetto alla base è sicuramente innovativo per una terapia anticoagulante: per tutti i pazienti uno stesso dosaggio, stessa stabilità di concentrazione ematica, stessa efficacia terapeutica, pertanto miglior praticità d’uso accompagnata da un migliore rapporto efficacia/sicurezza con un risultante miglior bilancio costo/beneficio.

Per noi medici l’avvento del dabigatran ha reso possibile finalmente una alternativa alla terapia anticoagulante orale con warfarin per i pazienti con fibrillazione atriale, potenzialmente migliore; tuttavia l’impossibilità di valutarne l’attività e la corretta compliance del paziente tramite valutazioni di laboratorio e la scarsa e limitata esperienza clinica, almeno personalmente, facevano emergere dubbi ad ogni prescrizione terapeutica.

 

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I dubbi riguardanti sicurezza e tasso di sanguinamento relativi al dabigatran sono insorti immediatamente dopo la commercializzazione del farmaco. Nel mondo reale la popolazione che utilizza il dabigatran è molto dissimile e molto più anziana rispetto alla popolazione dello studio RELY: il 45% dei pazienti presenta più di 76 anni, il 30% più di 80 anni. Nella pratica quotidiana l’uso del dabigatran si associa a numerosi sanguinamenti, maggiori o minori, comunque frequenti. Analisi postmarketing di eventi avversi ha identificato un aumento ed un maggiore numero di casi di morti e sanguinamenti rispetto al RELY.

I metodi ed i risultati dello studio RELY hanno sollevato molti dubbi in letteratura. Lo studio non in doppio cieco e l’analisi dei dati intention to treat potrebbe aver  favorito l’interpretazione dei risultati a favore del dabigatran.  E’ sempre stato alto il sospetto di un errato conteggio degli eventi emorragici maggiori e fatali: l’incidenza di emorragie intracraniche nel braccio del warfarin è particolarmente alto ed è certo che eventi emorragici siano state conteggiati come morti cardiovascolari. La stessa FDA ha inizialmente rifiutato l’iniziale domanda di approvazione del farmaco con la richiesta di revisione dei primi dati sottoposti a loro per la presenza di irregolarità e frequenti errori.
Oltretutto il dabigatran, sfruttando le politiche regolatorie di promozione dell’innovazione, ha potuto essere approvato con un solo studio clinico randomizzato invece che due, normale prassi per i nuovi farmaci. Anche lo ximelagatran aveva avuto un primo trial clinico favorevole con riduzione di stroke ed embolie sistemiche, per poi essere smentito da un secondo trial clinico.

Il numero, quasi monografico, del BMJ di fine luglio rende merito a tale dubbi (Cohen D, BMJ, 2014).

Partendo dai documenti resi disponibili dalla causa legale intentata alla Boehringer, è stato dimostrato una notevole volubilità farmacocinetica del dabigatran: in pazienti diversi una stessa posologia del farmaco determina livelli ematici molti differenti, in media di 5.5 volte. Tale variabilità è chiaramente giustificata dalle caratteristiche farmacocinetiche del farmaco che presenta una biodisponibilità bassa ma variabile (3-7%), due step metabolici di conversione del profarmaco in farmaco attivo, e una via di eliminazione solamente renale: la funzionalità renale è il più importante determinante per la concentrazione ematica del farmaco.

All’interno del RELY era stato studiato un modello di utilizzo dei livelli plasmatici del dabigatran al fine di modificarne la posologia: in questo caso, solo il 30-45% dai pazienti avrebbe continuato a ricevere la dose iniziale di dabigatran con una riduzione stimata del 30 – 40% di sanguinamenti maggiori rispetto alla terapia ben eseguita con warfarin e rispetto ad una terapia con dabigatran 150 mg due volte al giorno, senza evidente peggioramento del rischio di stroke ischemico o embolie sistemiche. Inoltre si sarebbe potuto identificare quel 8 – 17% di pazienti che non riusciva a raggiungere un effetto anticoagulante ottimale, pertanto a maggiore rischio di stroke ed eventi embolici sistemici, che avrebbero richiesto lo shift ad un altro farmaco anticoagulante.
L’assunzione di dabigatran guidata dal dosaggio plasmatico del farmaco pertanto sembra caratterizzata da un profilo di sicurezza e perfino di efficacia teoricamente nettamente migliore rispetto sia all’assunzione di dabigatran a dosaggio fisso sia rispetto alla terapia con warfarin con un miglioramento del rapporto rischio/beneficio del singolo paziente nell’esecuzione di terapia anticoagulante. Il farmaco dovrebbe possedere un buona finestra terapeutica (efficacia terapeutica mantenuta fra i 50 e 300 ng/ml) ma un rischio di sanguinamento proporzionale al dosaggio ematico (2-3% per 50 ng/ml, più del 9% per 300 ng/mL) stabilendo pertanto un cut off approssimativo di 200 ng/ml sopra il quale ridurre il dosaggio per ridurre i sanguinamenti.

BMJ riferisce che l’azienda farmaceutica sia dimostrata contraria alla pubblicazione di tali dati, abbia smesso di perseguire questa strategia e non abbia sviluppato strumenti di monitoraggio dell’attività anticoagulativa. Formalmente l’azienda ha ritenuto i dati poco robusti in termini di predizione affidabile di outcomes clinici per derivare delle soglie di concentrazione plasmatiche; tuttavia rimane il dubbio che una loro conoscenza avrebbe in qualche modo compromesso la possibilità di registrazione e commercializzazione del farmaco a dosaggio fisso senza necessità di monitoraggio.

 

7968_cover-sourceLa soluzione della compagnia alla variabilità plasmatica del farmaco è stata quella di suggerire la modifica del dosaggio in base alle caratteristiche cliniche del paziente piuttosto che ai livelli plasmatici, con l’utilizzo di 110 mg due volte giorno per il paziente con età maggiore di 80 anni e la controindicazione all’utilizzo nei pazienti con GFR minore di 30 cc/min di GFR. L’FDA ha insolitamente approvato un dosaggio di  di 75 mg due volte giorno da indicare in pazienti con severa alterazione della funzione renale (GFR 15 – 30 cc/min). Questo dosaggio (non approvato da EMA) non è stata testato in un trial randomizzato ad hoc ed è stata scelto sulla base dei soli dati farmacocinetici e farmacodinamici raccolti dall’azienda.

Basandosi sui più recenti dati del Medicare, a maggio 2013 l’FDA ha pubblicato i risultati di uno studio di corte osservazionale di efficacia e sicurezza post-marketing del dabigatran. Analizzando circa i dati di 135000 pazienti con età maggiore ai 64 anni, l’uso del pradaxa si associava con un minore rischio di stroke ischemico, di emorraggia intracranico e di morte ma un maggiore rischio di emorragia gatrointestinale rispetto al warfarin. L’FDA concludeva considerando il Pradaxa dotato di un profilo rischio/beneficio favorevole, senza pertanto ritenere necessarie modifiche alle attuali indicazioni terapeutiche o alle modalità di uso.

Gli articoli del BMJ hanno stimolato una lettera di risposta da parte dei main authors dello studio RELY. Essi rivendicano a gran voce come i molteplici dati attuali della letteratura dimostrino con grande evidenza come il dabigatran a dosaggio fisso funzioni meglio e sia più sicuro rispetto al warfarin mentre non dimostrano ancora come modulare la posologia del Pradaxa in base ai valori ematici si rifletta in un miglioramento di outcome clinici forti; pertanto, essi concludono che l’uso dei NAO, benchè perfettibili, sia attualmente il gold standard come terapia scoagulante nella FANV (Fibrillazione Atriale Non Valvolare).

 

Confronto Dabigatran vs Warfarin. Dati Rely 2009 e revisione 2014.
Confronto Dabigatran vs Warfarin. Dati Rely 2009 e revisione 2014. (modificata da “Efficay, safety and optimal dosing of dabigatran – a commentary to the BMJ articles on dabigatran” – Connolly SJ)
Modificata da FDA - drug safety coomunications
Risultati studio FDA Medicare. Modificata da “FDA – drug safety coomunications”

 

CONCLUSIONE

Tutto questo sembra dimostrare come il dabigatran effettivamente funzioni ma che potrebbe funzionare anche meglio; tutto questo sembra anche dimostrare come una terapia con dabigatran a dosaggio fisso possa tuttavia esporre i nostri pazienti a rischi maggiori rispetto a quelli precedentemente riportati con la concreta possibilità di sovra o sottotrattare i pazienti, in particolare se anziani e/o con alterazione della funzionalità renale; tale rischi possono essere ancora accettati di fronte alla possibilità che la terapia con dabigatran guidata dal dosaggio ematico del farmaco sembra dotata di un migliore rapporto rischio/beneficio per il singolo paziente?

Non vi sono comunque attualmente dati di outcome clinici di una terapia con dabigatran corretta secondo concentrazioni ematiche del farmaco, di cui non vi sono ancora cut off validati. Oltretutto nessun metodo di quantificazione del rischio di sanguinamento (es HAS BLED) è stato validato per la terapia con dabigatran.
Sicuramente la Boehringer è accusata di non aver condiviso informazione fondamentali riguardo i potenziali benefici di monitoraggio ed aggiustamento secondario della dose in modo tale da rendere la terapia il più sicura ed efficace possibile.
Sempre più voci autorevoli richiedono di incrementare la sicurezza del dabigatran e di raccomandare il dosaggio plasmatico del farmaco ed eliminare la raccomandazione che il farmaco possa essere preso senza monitoraggio; allo stesso tempo sempre più voci richiedono una maggiore trasparenza della raccolta e della revisione dei dati nella ricerca farmaceutica.
E noi? Continueremo a prescrivere o lasciare i pazienti in terapia con dabigatran? E continueremo ad avere fiducia nella ricerca sponsorizzata dalle aziende farmaceutiche?

Bibliografia

o Zosia Kmietowicz. “Boehringer Ingelheim withheld safety analyses on new anticoagulant, The BMJ investigation finds”. BMJ 2014;349.
o Deborah Cohen. “Concerns over data in key dabigatran trial”. BMJ 2014;349.
o Thomas J Moore et al. “Dabigatran, bleeding, and the regulators”. BMJ 2014;349.
o Deborah Cohen. “Dabigatran: how the drug company withheld important analyses”. BMJ 2014;349.
o Blake Charlton et al. “The trouble with dabigatran”. BMJ 2014;349.
o Connolly SJ et al. ” Dabigatran versus warfarin in patients with atrial fibrillation”. NEJM, 2009; 17; 361:1139-51.
o Eikelboom JW et al. ” Dabigatran versus warfarin in patients with mechanical heart valves”. NEJM 2013; 369(13): 1206-14.
o Albers GW et al. “Ximelagatran vs warfarin for stroke prevention in patients with nonvalvular atrial fibrillation: a randomised trial”. JAMA 2005;293:690-8.
o Halperin JL et al. “Ximelagatran compared with warfarin for prevention of thromboembolism in patients with nonvalvular atrial fibrillation: Rationale, objectives, and design of a pair of clinical studies and baseline patient characteristics (SPORTIF III and V).Am Heart J 2003; 146(3): 431-8.
o US Food and Drug Administration. Pradaxa (dabigatran etexilate mesylate): drug safety communication—safety review of post-market reports of serious bleeding events.
o Sipahi Iet al. “A comparison of results of the US Food and Drug Administration’s Mini-Sentinel program with randomized clinical trials: the case of gastrointestinal tract bleeding with dabigatran”. JAMA Intern Med 2014;174:150-1.

Reilly PA et al. “The effect of dabigatran plasma concentrations and patient characteristics on the frequency of ischemic stroke and major bleeding in atrial fibrillation patients”. J Am Coll Cardiol 2014;63:321-8

o FDA study of Medicare patients finds risks lower for stroke and death but higher for gastrointestinal bleeding with Pradaxa (dabigatran) compared to warfarin. 2014.

o Efficacy, safety and optimal dosing of dabigatran – a commentary to the BMJ articles on dabigatran. Connolly SJ. BMJ, 201

Davide Tizzani
Davide Tizzani
Specialista in Medicina Interna, ma specializzando ancora nell'anima. Esperto di Niente. Interessato a Tutto. Appassionato delle tre E: ecg, ega, ecografia. @DavideTizzani |

5 Commenti

  1. MI complimento, dr. Tizzani, per l’acuto e stimolante commento. L’argomento è di enorme interesse e gli articoli apparsi su BMJ ricordano a tutti noi l’importanza di mantenere elevato il livello di sorveglianza su qualsiasi ambito medico.
    Il punto di riflessione che porrei è legato a quale sia il maggior limite nella prevenzione della troboembolia cerebrale (TE) in pazienti affetti da FANV: il confine del trattamento tradizionale con warfarin è legato a trovare farmaci di maggiore efficacia oppure è dovuto alla limitata finestra terapeutica di un farmaco che esclude da un’adeguata terapia di prevenzione un buon numero di pazienti? Lo studio “EORP-AF Pilot registry” (Lip GY Eur Heart J. 2014 Aug 31) dimostra come il 31% dei pazienti ad alto rischio di TE viene trattato con antiaggreganti. Questa quota molto rappresentativa di pazienti beneficerebbe di un trattamento anticoagulante (nuovo o tradizionale che sia)

    Il numero di sanguinamenti registrati nel post marketing era stato segnalato maggiore rispetto all’atteso già nel 2013 (Southworth RM NEJM 2013): ciononostante il rischio di sanguinamento risultava essere di almeno la metà inferiore per il Dabigatran rispetto al Warfarin.
    Il dabigatran come dici bene, potrebbe funzionare anche meglio. E’ vero.
    La prospettiva che credo si debba ragionevolmente condividere è quella non di ridurre ulteriormente il rischio di stroke nei pazienti che già assumono trattamento anticoagulante, ma di allargare l’accesso ad un trattamento efficace con il maggior livello di sicurezza possibile. Allo stato attuale delle conoscenze i nuovi anticoagulanti credo che rappresentino una buona possibilità per coloro che non ci siamo sentiti anticoagulare e che potrebbero beneficiare, con la dovuta cautela, non di dabigatran, ma di un trattamento anticoagulante.
    Credo che mantenendo altissimo il livello di attenzione sulla sicurezza dei farmaci si debba coraggiosamente ridurre quanto più possibile la percentuale ancora troppo elevata di soggetti che non riceve un’adeguata terapia preventiva per lo stroke.

    Ancora complimenti al dr. Tizzani per averci fatto riflettere su un tema importante come quello in oggetto.

  2. Io , come sempre , faccio l’avvocato del diavolo e porto l’attenzione alle problematiche legate ai paz portati in sala con sanguinamento in atto e in terapia con i NAO oppure a quelli a cui di potrebbe fare una anestesia locoregionale , magari previo sospensione e sostituzione con EBPM e invece….toccherà fare un’an generale. Purtroppo questi farmaci non hanno ne’ un antidoto (fondamentale per i paz che sanguinano e devono essere portati in sala), né esistono ancora studi chiari e precisi che indicano quanti giorni prima vanno sospesi per effettuare in sicurezza una anestesia spinale o peridurale o plessica. Perciò per ora le soluzioni (relative)sono
    1. il buon vecchio plasma
    2. anestesia generale obbligatoria anche a quelli con patologie importanti , che invece beneficerebbero senza dubbio e con minori rischi di una buona e molto più disinvolta anestesia loco regionale.
    Non tutto è oro ciò che luccica…

  3. Ringrazio entrambi per i commenti che mi permettono di approfondire l’argomento.
    Io sono cresciuto con un assioma in testa, che ripeto ogni volta ad ogni paziente a cui prescrivo una terapia anticoagulante con warfarin.: il warfarin è una terapia che funziona bene se fatta bene.
    Il limite di questa terapia è duplice: da una parte il il TTR (percentuale di tempo in range terapeutico dell’INR) è circa il 60 – 70%, e questo in studi clinici randomizzati, dove l’adesione e la supervisione medica alla terapia dovrebbe essere ottimizzato ed ottimale.
    Un secondo aspetto è, come riporta Alberto, il sottotrattamento: gli studi ci dicono che una significativa percentuale di pazienti che avrebbe indicazione a ricevere una terapia anticoagulante non la riceve. Ci si dovrebbe interrogare sul perchè di un tale comportamento e di una tale scelta: i motivi possano essere tanti, diversi (paziente fragile, difficoltà ad una corretta compliance, impossibilità ad eseguire i controlli dell’INR, rapporto prevenzione ischemia/rischio emorragico eccessivamente sfavorevole) e difficili da oggettivare. Tuttavia ho l’impressione che in questo contesto noi medici difettiamo di coraggio: pur incoraggiati dalla letteratura e dalle linee guida internazionali, preferiamo un accidente che manda dio (l’ictus ischemico), piuttosto di uno che mando io (l’ictus emorragico).
    Se i nuovi anticoagulanti orali, da questo punto di vista, possono farci diventare più coraggiosi, sono i benvenuti: tuttavia mi sembra che alla base ci debba essere una rivoluzione prima culturale, e poi farmacologica.

    Sulla osservazione di Arianna, concordo assolutamente:ci sono molto risvolti legati alle esperienze professionali ed agli usi di ogni specialista che attualmente non trovano risposta. Il problema penso sia comune a tutti i nuovi farmaci: sono sconosciuti fino a quando non si utilizzano. Solo la pratica ci dirà come usarli in sicurezza. Sicuramente rimane pressante la richiesta di un antidoto che possa, e secondo la mia opinione, dovrebbe essere disponibile quanto prima.

    Colgo l’occasione per ringraziare il dr. Milan per avermi dato gli strumenti ed il dr D’Apuzzo la fiducia e lo spazio per scrivere questo post.

    • Davide, mi associo ai complimenti di Alberto Milan, per un post equilibrato e chiarificatore, che ha sottolineato luci ed ombre di questi nuovi farmaci che, sono convinto, utilizzeremo sempre più in futuro, tenendo bene a mente quale sia la loro efficacia e quale il profilo di rischio.
      Spero ovviamente che questo sia solo il primo di una lunga serie di post. Benvenuto su EMpills!

  4. Salve a tutti,

    Mi sono occupato in precedenza della divulgazione dell’articolo “BMJ insanguinato” e vorrei stressare un punto riguardo il “dubbio che la conoscenza dei dati non divulgati dall’azienda avrebbe compromesso la possibilità di registrazione e commercializzazione del farmaco a dosaggio fisso senza necessità di monitoraggio” (sarebbe forse meglio dire il dosaggio).

    Dal processo che ha coinvolto la Boehringer in USA è venuta all’attenzione dei giornali la bozza di un articolo scritto da un ricercatore dell’azienda che ha esaminato le variazioni delle concentrazioni del Dabigatran nei singoli pazienti. L’articolo verrà pubblicato molto tempo dopo con conclusioni completamente diverse. Secondo la Boehringer la modifica dalla bozza alla versione finale ha rappresentato “un’evoluzione nel pensiero degli scienziati sul tema” e non era motivata da preoccupazioni di marketing.
    Sarà, ma giudicate voi l’evoluzione del pensiero scientifico, confrontando l’articolo come è stato effettivamente pubblicato con la bozza dell’articolo così come era stata scritta inizialmente.

    Nella bozza, veniva precisato un range “ottimale” per i livelli ematici del farmaco, mentre nella versione finale del documento non viene fatto. Inoltre, nella versione iniziale, viene esplicitato che se il farmaco ha una concentrazione troppo bassa, potrebbe non riuscire a prevenire un ictus, mentre se ha una concentrazione troppo alta, i pazienti potrebbero essere a rischio di sanguinamento. Nella versione poi pubblicata le caratteristiche del paziente (età, presenza di insufficienza renale, …) diventeranno più importanti rispetto alle concentrazioni plasmatiche del farmaco.

    A voi giudicare “l’evoluzione scientifica” nelle conclusioni dei due articoli.

    1. Articolo Pubblicato – Really PA et al “The Effect of Dabigatran Plasma Concentrations and Patient Characteristics on the Frequency of Ischemic Stroke and Major Bleeding in Atrial Fibrillation Patients” J Am Coll Car 2014;63(4):321-328
    Both doses of DE in RE-LY were associated with a more than 5-fold variation in plasma concentrations, indicating a wide therapeutic range. Renal function was the predominant patient characteristic that determined plasma concentrations. Safety and efficacy outcomes were correlated with plasma concentrations of dabigatran, with age as the most important covariate. There is no single plasma concentration range that provides optimal benefit–risk for all patients. The balance between stroke risk and bleed risk varied with age as the most important covariate. There is no single plasma concentration range that provides optimal benefit–risk for all patients. The balance between stroke risk and bleed risk varied with concentration, suggesting that there is a subset of AF patients who may improve their benefit–risk balance with DE by a tailoring of the dose in relation to patient characteristics.

    2. Bozza dell’articolo resa pubblica grazie ai documenti desecretati nel corso del processo in USA e reperibile online al sito: http://www.documentcloud.org/documents/1015002-draftpaper2.html
    In summary, both of the doses of dabigatran etexilate in RE-LY were associated with a more than 5-fold variation of plasma concentrations. Renal function was the predominant patient characteristic that determined exposure, in addition to bioavailability. There were no clinically relevant drug interactions with commonly used P-gp inhibitors. Safety and efficacy outcomes were observed to be dependent on plasma concentrations of dabigatran. At low concentrations there was a significant increase in risk of ischemic stroke and at high concentrations a significant risk of major bleeding. A range of concentrations between 35 and 300 ng/mL optimized the
    benefit-risk ratio. Up to 20% of patients treated with the 110 and 150 mg bid doses used in RELY may fall outside this range. in the RE-LY trial. While a fixed dose of dabigatran has significant advantages in both safety and efficacy compared to warfarin, adjusting the dose at steady-state to attain an optimal plasma concentration range may further improve the benefit-risk ratio.

    per finire, consiglio a tutti la lettura dell’articolo della Coen sul BMJ (BMJ 2014;349:g4670)… storia della medicina moderna.

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