Oggi il pronto soccorso è pieno; anche oggi, forse meglio dire così.
C’è la signora F.L.: ha 94 anni, fino a ieri riusciva a campare aiutandosi da sola, ingegnandosi con qualche espediente e l’aiuto occasionale di qualche anima buona; stamattina non ci è piu riuscita, le gambe non hanno sorretto 94 stagioni ed è caduta a terra.
Pensavo che le fosse andata bene in fondo; frattura del polso di destra, molte contusioni, un paio di infrazioni costali, ma, a parte un grande spavento, nessuna altra frattura ossea o nessuna lesione di organi nobili.
Un fisico segnato da cicatrici di vittorie e sconfitte, una mente che porta la stanchezza di 94 anni di pensieri, ragionamenti ed amarezze, una poliartrosi importante con un inizio di Parkinson e la paura di chi non ha più voglia di cadere la inducono al timore nel camminare di nuovo da sola senza paura.
Incrocio i suoi occhi a fine turno quando ritorno a casa; la signora non può farlo.
Guarda accanto a lei: nessuno a stringerle la mano, nessuno pronto a metterle le scarpe, nessuno con cui parlare, nessuno a sentire cosa vorrebbe fare.
A casa non c’è nessuno che possa o voglia assisterla, che possa o voglia farla stare tranquilla nel suo letto, che possa o voglia provare a farla ricamminare, di nuovo, con i suoi tempi.
Vorrei dirle “Scappa fino a che sei in tempo”; so già che fra due giorni sarà ancora in barella in pronto soccorso ad aspettare un soccorso non certo pronto, ad aspettare una soluzione assistenziale che la nostra società non è in grado di risolvere a breve se non la risolve la famiglia, in questo caso drammaticamente assente.
F.L. prova effettivamente a scappare: Il suo scavalcare le sponde della barelle rappresenta un gesto impacciato e disperato ad alto rischio di incolumità fisica che costringe il collega notturno a sedarla per evitare danni peggiori iniziando una spirale di eventi che inizia con il delirium del paziente anziano e continua con una serie infinite di complicanze infettive e metaboliche; quasi a rimpiangere che la caduta non avesse fatti altro danno; quasi a domandarsi ma cosa stiamo facendo.
Vicino a lei riposa una sua coetanea, stessa età oltre che stesso nome e cognome; la demenza di cui è affetta non le permette di accorgersi, purtroppo, della singolare coincidenza e, fortunatamente, neanche della sorte che le è toccata: a casa, la demenza, sempre lei, la costringeva a fare cose strane che hanno convinto il figlio ed il marito ad accompagnarla in pronto soccorso perché spaventati.
Adesso ovviamente da sola dorme un sonno non fisiologico; l’indomani la nostra nuova amica con un tubo nella vescica, un altro nel braccio, con un estraneo che le preleverà del liquido rosso dalla mano ed un altro che la spoglierà per toccarle la pancia e le chiederà se è andata di corpo sarà sicuramente più tranquilla pronta al rientro al domicilio. Quasi a domandarsi chi sia esattamente più strano.
Scorro o, forse meglio, distolgo lo sguardo e trovo un mio altro vecchio amico; M.G. aveva 97 anni quando lo ho incontrato e conosciuto due giorni prima: un dolore addominale ed una stipsi che durava ormai da qualche mese, una involuzione senile che rendeva difficile cogliere esattamente quanto soffrisse, una figlia più spaventata di lui di cui potevo cogliere solamente il cruccio dell’attesa della visita.
Quel pomeriggio era paucisintomatico, non aveva dolore, aveva mangiato ed anche espletato le funzioni vitali corporali. Effettivamente il mio nuovo amico aveva qualcosa che non mi convinceva: liquido in addome. La tac addome darà ragione di quell’acqua nel posto sbagliato: un tumore del pancreas non operabile.
Il relativo buon performance status del mio paziente mi aveva spinto a cercare di far comprendere alla figlia che un’unica cosa era utile a suo papà, un unica strada quella doverosamente percorribile: tornare a casa. La malattia avrebbe fatto il suo decorso, l’assistenza domiciliare integrata attivabile a cura del curante avrebbe reso il decorso sopportabile e mai doloroso.
Due giorni dopo è ancora sulla stessa barella ma per il signore G sembrano passati dieci anni; al cruccio si è sostituita la rassegnazione. Quasi a domandarsi dove sia l’errore: non essere stato in grado di parlare con i famigliari, la distanza e l’incomunicabilità dei presidi rispetto al territorio o l’ospedale da cui uno entra e non è in grado di uscire?
Mi avvicino e accarrezzo il volto spento dei miei nuovi e vecchi amici; hanno in comune lo sguardo, assente e sperso a guardare un futuro senza un futuro, la rassegnazione di chi non può più decidere e l’attesa ormai di niente.
Esco dal pronto soccorso, mi guardo indietro e mi chiedo il senso; chiudo la porta e mi sembra di chiudere qualcosa altro.
Il Pronto Soccorso non è la risposta a tutto. Alle persone a cui non può dare soluzione, fa solamente del male…
Molte volte è difficile farlo capire, altre non c’è nessuno a cui farlo capire…
Grazie per la condivisione.
Anche a te consigli ‘ultimo libro di Atul Gawande “Being mortal”…l’analisi di come siamo arrivati alla medicalizzazione della vecchiaia e all’allontanamento dei nostri vecchi
nei nostri turni in pronto soccorso corriamo avanti e indietro ,a volte senza sapere neanche cosa stiamo facendo e dove stiamo andando,e non sappiamo più guardare oltre a un organo o un’ esame..bravo Davide che oltre a essere un grande medico sai ancora cogliere e raccontare lo sguardo e le paure dei tuoi malati.
grazie ai medici che lavorano ancora con il cuore e che riescono a vedere oltre la medicina, a volte si puo’ curare con uno sguardo con una parola di conforto,in un mondo dove vive l’indifferenza e la sofferenza,grazie a tutti voi, forse anche io presto avro’ bisogno del vostro sguardo e delle vostre parole di cinforto,grazie ancora
Non è colpa del Pronto Soccorso, non dei medici. Forse dei nostri contemporanei che non sanno accettare la malattia e la morte come evoluzione della vita. Io ricordo mio nonno anziano che vieto’ ai figli gli ultimi anni di condurlo in ospedale. Ultranovantenne aveva spesso crisi di angina e dispnea. Morì nel suo letto. Sono sempre più convinto che avesse ragione lui.
Davide…hai chiesto ad M.G. se voleva essere ricoverato o se preferiva tornare a casa e trascorrere dignitosamente i suoi ultimi giorni aiutato dai medici e dagli infermieri dell’assistenza domiciliare?
Te lo chiedo perché mi rendo conto che spesso noi medici abbiamo la tendenza a parlare con gli anziani come se fossero bambini incapaci di decidere cosa è meglio per loro