domenica 9 Febbraio 2025

Credersi un Dio… Tra paternalismo e consenso informato


Alessandro Riccardi

   “Mi dai fastidio perché ti credi un Dio.”

    “Beh, dovrò pur prendere un modello a cui ispirarmi, no?”

Ecco, inizio con una battuta di Woody Allen, perché il post che segue non avrà poi molto spazio per l’umorismo.

E’ la descrizione di un caso clinico, come altri pubblicati in questo blog. Ma a differenza di altri casi presentati, è un caso più semplice, il cui esito era evidente fin dall’inizio. Un esito così evidente e disarmante da costituire il problema principale e l’argomento del post, e che ha condizionato l’atteggiamento di chi lo ha dovuto gestire, giustificando anche il titolo di queste righe.

Giovanni è un turista di 82 anni: non è solo anziano, ha anche molti problemi di salute. E’ estate, e Giovanni è in vacanza in un paesino ligure con la sua famiglia. Una notte accusa un intenso dolore addominale, e chiama il 118.

La diagnosi è semplice: Giovanni è un grave vasculopatico, ha effettuato già un intervento protesico sull’aorta addominale, con nefrectomia destra per trombosi dell’arteria renale, ed è portatore di un aneurisma residuo di 9 cm di diametro, esteso dal piano sovra renale ai vasi iliaci. Aneurisma già giudicato inoperabile dai chirurghi vascolari dell’ospedale che lo aveva operato in passato, a causa di altri gravi problemi collaterali (un diabete mellito non controllato, una cardiopatia ischemica in labile compenso, una BPCO).

L’inoperabilità di Giovanni è scontata, basta vedere il paziente da ipotizzare un elevato rischio operatorio in elezione.

Ma adesso siamo in emergenza: il nostro paziente è sofferente, appare ipoteso (80/50 mmHg di pressione arteriosa), tachicardico (140 bpm), e l’ecografia d’urgenza in sala evidenzia un voluminoso aneurisma aortico con trombosi eccentrica, un versamento addominale libero e un ematoma retro peritoneale.

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httpvh://youtu.be/Ux-7wRKcdT0

 

L’aorta addominale è fissurata, e questo altera la prospettiva del problema. Non siamo più di fronte ad un intervento in elezione ad alto rischio, ma in una situazione di emergenza.

 

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Ma cosa cambia dal punto di vista operatorio? se un paziente viene giudicato non operabile perché il rischio è altissimo quando la situazione è stabile, cosa possiamo attenderci da un intervento in condizioni di instabilità emodinamica, con una peritonite in atto, e una cascata coagulativa attivata e a rischio di coagulazione intravascolare disseminata? Queste sono considerazioni ovvie, e l’esito dell’intervento era scontato per me, per i chirurghi vascolari, e (probabilmente) per il paziente, ma non per i familiari presenti, che invece ritengono l’intervento rischioso ma con una certa (seppur piccola) possibilità di successo. Il chirurgo vascolare è chiaro: la situazione è disperata, sia per il coinvolgimento dell’arteria renale sinistra (la destra era stata già compromessa nel precedente intervento), sia per le condizioni basali del paziente, e l’intervento non offre alcuna possibilità di sopravvivenza. Dopo un balletto di decisioni discordanti, la famiglia decide di evitare l’intervento, visto come inutile accanimento in una situazione disperata. Si propone una sedazione palliativa, con morfina e midazolam, che i familiari accettano.

Immagino che a molti non sia sfuggito un particolare: i rapporti, fino a questo punto, sono avvenuti tra i vari medici e la famiglia, non con il paziente.

Lui, Giovanni, cosa vuole? Cosa si aspetta?

E’ il collega anestesista, chiamato per la valutazione iniziale, quando l’intervento chirurgico sembrava possibile, che si pone questa domanda. E la pone a Giovanni, il quale chiede di essere sottoposto all’intervento.

Perché, fino a quel punto, non lo avevamo coinvolto nel processo decisionale? per pudore, per rispetto o per superbia? Analizzando in seguito il mio comportamento, ho realizzato di aver avuto la sensazione che Giovanni conoscesse bene la situazione, che in qualche modo se la aspettasse e fosse preparato: appariva relativamente tranquillo, e aveva chiesto di salutare i figli che in quel momento erano lontani dall’ospedale. Non si convive con un aneurisma del genere – mi dicevo – senza attendersi la sua rottura.

Ma questo potrebbe giustificare la mancata ricerca del suo consenso? Possiamo davvero noi medici guidare le decisioni inerenti ad un paziente senza coinvolgerlo?

La risposta sembra scontata, ma la questione è quanto mai complessa e credo sia esperienza di tutti di aver invece seguito comportamenti paternalistici, volendo proteggere pazienti che ci apparivano deboli, e di aver preso decisioni che in fondo non ci spettavano.

Il caso di Giovanni mi ha fatto porre numerose domande, a molte delle quali non so dare risposta. Per esempio, che tipo di decisione possiamo attenderci dal paziente in un contesto simile? possiamo davvero pensare che il paziente decida di non farsi operare, se gli indichiamo una possibilità (per quanto teorica) di riuscita dell’intervento? e noi possiamo davvero comunicargli tutte le informazioni in nostro possesso, e informarlo adeguatamente sulle reali possibilità di successo nel suo caso? Noi sappiamo – al di là di ogni ragionevole dubbio – che Giovanni ha di fronte a sé due sole possibilità: da una parte, un decesso inevitabile in un letto di degenza, con i familiari intorno a sé, con un’adeguata sedazione e un’adeguata analgesia; dall’altra, un decesso in sala operatoria. Ma possiamo davvero scegliere per lui? Fino a che punto possiamo spingerci? possiamo davvero arrogarci il diritto di scegliere, di evitare un inutile accanimento su una persona sapendo già l’esito atteso?

Non ho risposte, e credo che neppure la letteratura possa fornirmele.

 

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Però la letteratura mi aiuta quando si parla di consenso informato: quanto può essere informato un consenso in urgenza? un lavoro pubblicato dall’Emergency Medicine Clinics of North America nel 2006 , che riprende un precedente articolo del 1999, Moskop delinea i tre requisiti fondamentali perché un consenso informato sia tale:

1) il paziente deve possedere capacità mentale e competenza sufficienti per permettergli la comprensione;

2) il paziente deve ricevere tutte le informazioni necessarie per raggiungere una decisione ponderata;

3) bisogna permettere al paziente una decisione libera, priva di qualsiasi coercizione esterna.

Ma attenzione: il paziente deve essere in benessere (well-being, dicono gli anglosassoni): in emergenza la situazione cambia, e diviene ancora più difficile. In effetti, possiamo affermare che Giovanni, in stato di preshock, spaventato da una situazione che doveva in qualche modo attendersi, anziano, lontano da casa, possa in qualche modo fornire una decisione valida? E noi possiamo davvero avergli fornito – anche volendo – tutte le informazioni necessarie? Tra le varie eccezioni previste all’obbligo del consenso informato (lo stato di necessità, su tutte), esiste una molto particolare (e discussa) che è il cosiddetto “Privilegio Terapeutico”, ossia la facoltà di non comunicare al paziente tutte le informazioni connesse alla sua patologia, o ai rischi connessi all’intervento, se queste stesse informazioni possono procurargli dei danni viste le precarie condizioni cliniche e psichiche. Si basa ovviamente sull’arbitrarietà del giudizio del medico: e quindi si ritorna alle domande iniziali. Nel caso di Giovanni, possiamo invocare il privilegio terapeutico per decidere in sua vece di evitargli un intervento chirurgico privo di speranza?

Comunque, perché un paziente sia in grado di esprimere un consenso informato, deve poter comprendere tutte le informazioni che gli vengono fornite, deve essere in grado di applicarle alla propria situazione, deve poter ragionare sulla base delle informazioni fornite e deve essere in grado di esprimere una scelta. Si parla di condizioni di necessità come esenzione all’obbligo del consenso: ma attenzione, se l’intervento non è immediato (per quanto urgente), e il paziente è ancora vigile, l’obbligo del consenso non viene meno. E gli autori sottolineano un aspetto importante: il paziente che giunge in un Pronto Soccorso non ha scelto quella struttura, non conosce i medici che lo hanno in cura ne questi conoscono lui: un consenso informato è quanto mai necessario proprio per garantire una tutela di entrambi gli attori, sia il paziente che il medico. Però tutte quelle condizioni che possono compromettere la vigilanza (il dolore, l’ipoperfusione, solo per citarne due), possono compromettere il grado di comprensione del paziente. E quindi si torna alla arbitrarietà del medico che ha in cura il paziente, che è l’unico in grado di valutare la competenza del paziente a prendere le decisioni, e dovrà valutare caso per caso. E si ritorna ancora una volta alle domande iniziali, e a Giovanni: era corretto escluderlo dalle decisioni in merito all’intervento? La mia sensazione – lo ribadisco – è che il paziente fosse ben consapevole della situazione: e quindi, l’unica risposta possibile è: era imprescindibile chiedere il suo parere.

Un bel lavoro, pubblicato recentemente dall’Academic Emergency Medicine, delinea molto bene il problema del consenso informato in medicina d’emergenza: gli autori sottolineano che il medico d’emergenza deve valutare con il paziente i rischi/benefici della procedura, i rischi di non essere sottoposti alla procedura, e l’eventuale esistenza di alternative terapeutiche. Rimando alla lettura del lavoro chi fosse interessato ad approfondire la questione.

Per concludere, la materia è chiara per quanto riguarda le condizioni di non emergenza, ma diviene fumosa quando si parla di urgenza o di emergenza, ponendo poche eccezioni (paziente non in grado di esprimere un consenso, intervento non procrastinabile), lasciando numerose aree grigie nel quale a dover decidere, valutando il caso, rimane il medico d’emergenza.

Nel caso di Giovanni, penso di aver sbagliato a non fermarmi a parlare con lui, a chiedere la sua opinione, e ritengo che questo errore fosse derivato dal pudore, anzi no, dall’assoluta difficoltà nel parlare con un paziente descrivendogli una procedura priva di possibilità – più semplicemente, a parlare della sua morte, e a chiedergli semplicemente come avrebbe preferito morire, in un letto d’ospedale con i familiari accanto o in sala operatoria. E quando abbiamo chiesto la sua opinione, sempre per pudore, ci siamo fermati alla superficie delle cose. Privilegio terapeutico: forse è applicabile in un caso simile, o forse no: non ho competenze giuridiche e medicolegali sufficienti per valutarlo.

So solo che il caso di Giovanni mi ha lasciato una strana sensazione, di incompletezza, forse, o di codardia, non saprei definirla meglio – anzi no, di inanità: la sensazione di non poter in alcun modo risolvere la questione, che qualsiasi mio sforzo comunicativo si sarebbe infranto contro una precisa volontà del paziente che nasceva da una decisione in qualche modo già presa e ponderata da tempo, e di fronte alla quale io – e tutti gli altri medici coinvolti – eravamo davvero piccoli.

Giovanni è entrato in sala operatoria, ma è morto dopo circa due ore

Alessandro Riccardi
Alessandro Riccardi
Specialista in Medicina Interna, lavora presso la Medicina d’Emergenza – Pronto Soccorso dell’Ospedale San Paolo di Savona. Appassionato di ecografia clinica, è istruttore per la SIMEU in questa disciplina, ed è responsabile della Struttura di Ecografia Clinica d’Urgenza . Fa parte della faculty SIMEU del corso Sedazione-Analgesia in Urgenza. @dott_riccardi

22 Commenti

  1. Credo che nessuno ti possa dare risposte. Il quesito che tu poni apre una voragine medico-legale che fino ad oggi è insoluta. La risposta in realtà è lasciata a noi medici e qualsiasi decisione si prenda, forse di fronte ad un giudice puoi essere appeso al muro, in quanto una qualsiasi situazione di emergenza non può essere confrontata con la routine e le sue regole. Ma questo un giudice lo capisce forse poco.Allora , forse, alla fine è meglio agire secondo la propria coscienza e buon senso, ma a mio parere se il paz è ancora cosciente e in grado di dire la sua, va coinvolto e tenuto presente ciò che esprime. Io , quando mi trovo in emergenza in situazioni simili e con possibilità ancora di parlare col pz, lo faccio sempre e possibilmente in presenza dei parenti. A me girerebbero le biglie se mi trovassi dall’altra parte e nessuno mi calcolasse e mi chiedesse cosa voglio fare io.
    Se invece il paz ormai è soporoso o non più capace di parlare..beh….purtroppo dobbiamo solo affidarci a noi e in parte ai parenti. Ma in qs caso , non sapendo cosa effettivamente pensa il paz, potresti anche prendere la decisione sbagliata, ovvero secondo lui sbagliata.
    A me è successo , purtroppo, e se vi può interessare ve lo posso raccontare. Per me questo è stato devastante, ma forse potrebbe dare una piccola e molto parziale risposta ad Alessandro .

    • Grazie del tuo commento. In effetti, chi vive l’urgenza si trova in situazioni a volte estreme, per i quali non abbiamo nessun “copione”, e nessun rapporto fiduciario con i nostri pazienti. Come rispondere al diciannovenne con milza rene e pancreas esplosi dopo un trauma addominale che ti chiede “Sto morendo?”? È uscito dalla sala operatoria, abbiamo lavorato bene e il ragazzo sta bene. Ma la domanda pesa ancora come un macigno. Non siamo stati educati a fare questa parte di mestiere, ed è inevitabile vivere esperienze che ci segnano… È ci fanno crescere. Puoi parlare in questi commenti del tuo caso?

  2. Bellissimo post. Siamo stati abituati -fin dagli studi universitari- a parlare solo al corpo in vita del paziente e non al corpo morente. Non credo proprio che la tua sia codardia ma forse, permettimi, una presa di coscienza che siamo umani e che, pur lavorando al meglio, non abbiamo la soluzione per tutto o per far sentire bene tutti. Come spiegare ad una persona sul letto di morte che la morte spesso fa paura anche a noi e che, nonostante siamo medici che curano, guariscono, tranquillizzano, si fanno carico, trasferiscono, telefonano non sappiamo, però, che “reparto” c’è dopo una rianimazione finita male?
    Ai posteri l’ardua sentenza.

  3. In ogni caso due cose sono certe. La prima che in emergenza tu invochi lo stato di necessità. La seconda che il consenso informato (veramente informato) in emergenza non può essere raccolto e pertanto non esiste.
    Non si sa invece che valore abbia (secondo un giudice) le parole di un malato critico che sta andando da un momento all’altro verso lo stato di incoscienza ….ed eventualmente la sua parola di diniego all’intervento al quale verrebbe sottoposto , senza il quale tu come medico gli decreteresti la morte sicura. Ecco…da qua partono le enormi voragini….medico legali

    • Enormi voragini, hai ragione… Ma una cartella clinica ben redatta ci aiuta in ogni caso. Sullo stato di necessità, però, deve essere tale. Il lavoro dell’Academic che ho citato in chiusura descrive alcune situazioni su cui riflettere. Giurisprudenza anglosassone, ma è un modello a cui puntiamo

  4. Purtroppo ,lavorando in rianimazione , espletando le urg/emergenze intraospedaliere e trovandomi talvolta ad impostare trattamenti di fine vita nei reparti, piu’ varie ed eventualiaccade abbastanza spesso di trovarmi a parlare di morte sia con i parenti , sia talvolta con i pazienti. Non è facile, anzi. Ma qualche volta ci sono situazioni che vanno fuori da qualsiasi schema diciamo “solito”. E sono quelle in cui non riesci a parlare, come il caso a cui ho fatto cenno nel mio primo commento, che vi racconto di seguito

  5. Era una mattina qualsiasi, ero in turno in ambulatorio di anestesia. Tra una visita e l’altra squilla il telefono :” corri immediatamente giù in sala orl! c’è da fare una tracheo in emergenza, nessuno di noi può, devi andare tu”. Mollo tutto e mi precipito. Come arrivo io, arriva giù anche la paziente . Una donna apparentemente abbastanza giovane, decisamente cachettica, seduta sul letto, gravemente dispnoica, un colore della pelle indefinito tra il bianco cereo e il grigio nebbia, tutta sporca di sangue. Respirava con enorme fatica e sputava sangue rosso vivo. Agitatissima e terrotizzata. Non ce la faceva a parlare, a malapena riusciva a far entrare qualche molecola di aria nei polmoni.Cercano di metterla sul letto operatoria: è un dramma. Non se ne parla di farla muovere…non ce la fa. In due la prendono in braccio e la spostano mentre lei continua a vomitare sangue. Non esiste metterla in una posizione anche solo un po’ più reclinata: vuole stare seduta e basta. I suoi occhi che mi guardano terrorizzati , sono già sufficienti a devastarmi. Mentre la portano in sala io cerco di presentarmi e di dirle che cerchi di non avere tanta paura…che siamo lì per aiutarla. Il monitoraggio mi dice che satura 54 , l’ossigeno non lo vuole…non se ne parla proprio! , la FC oltre i 140, la sistolica sui 100. Qualcuno nel frattempo mi parla di un tumore alla laringe….che sanguina. Arriva il primo ORL e mi spiega che la signora ha infatti un k laringe non operato (giudicato per estensione non operabile) e sottoposto ad un casino di cicli di radio.era in ambulatorio per un controllo e all’improvviso ha iniziato a sanguinare come un vitello! Da qua la corsa immediata in sala. La signora ha eseguito poco dopo la tracheo da seduta, in an. locale e con una mia azzardata sedazione con midazolam (il tutto su mia richiesta-imposizione ai chirurghi, che volevano la intubassi…..ma COME l’avrei intubata….non si sa!) e successiva anestesia generale -con tracheo ormai già fatta- per andare a fare intervento palliativo e di super minima per arrestare l’emorragia . Era un’arteria…erosa dal tumore e forse dalla radio.
    La signora è uscita viva dalla sala, con una tracheo. Dopo due settimane le hanno messo una PEG. Dopo circa un mese ho incontrato la collega palliativista che la seguiva a casa e ne abbiamo parlato. Mi ha detto che quella signora non avrebbe voluto morire né con la tracheo né con la PEG. Non avrebbe voluto venisse fatta nemmeno in emergenza. Sapeva che avrebbe potuto sanginare o comunque morire soffocata. Ma non avrebbe voluto lo stesso. Avrebbe preferito essere sedata e accompagnata alla morte così. Dopo la PEG ….dopo alcune settimane …ho saputo che è stata poi finalmente esaudita….e messa in midazolam .
    E io…?? cosa ho fatto io? lei non poteva parlare in quei momenti, e io non la conoscevo. Ho dato per scontato che bisognava fare la tracheo e poi l’intervento. E , pure di corsa, l’abbiamo fatta. Nessun consenso né discusso (con nessuno , nemmeno i parenti lì non c’erano) né tanto meno firmato. Niente! Ma lei….l’ho saputo dopo, non avrebbe voluto.
    Non so cosa avrebbe detto un giudice , sia nel caso come è accaduto, sia se lei avesse in qualche modo potuto esprimere rifiuto e sarebbe quindi successivamente morta per , in quel momento, mancato intervento.
    Non lo so…ma questa donna , dopo anni, continuo a portarla nel mio cuore con il grande cruccio che forse ho sbagliato.
    Allora , Alessandro, è meglio poter parlare col paziente e magari ,se lui dice di fare comunque l’intervento, rispettare il suo volere pur sapendo le quasi nulle possibilità di sopravvivenza,
    oppure fare senza chiedere (o senza avere riscontro di parola) per poi sentirsi dire che non voleva !che aveva dichiarato più volte il diniego. . …e poi alla fine posticipare la sua morte sicura di solo alcune settimane e in più nella sofferenza? Secondo me , forse, è meglio la prima

    • Arianna, grazie di avere condiviso la tua esperienza. Impressioni e sentimenti con il senno di poi perdono di quell’obiettività e di quel senso di realtà necessari per affrontare in modo sereno un tema così difficile come questo. Non sono affatto convinto che la paziente volesse effettivamente avere solo un trattamento palliativo, altrimenti lo avrebbe palesato in modo netto e inequivocabile, anche se la lucidità di operare scelte così difficili da parte di una paziente così gravemente ipossica, a mio modo di vedere, sia davvero scarsa. In questo senso il testamento biologico, legalmente riconosciuto, potrebbe essere di grande aiuto.
      La vita è più forte e la speranza sempre presente nel nostro modo di sentire.
      Sono altresì sicuro che tu abbia spiegato alla paziente quello che stavi per fare. E’ quello che viene chiamata una situazione impossibile. Dire alla paziente ” le devo incidere il collo per aiutarla a respirare altrimenti morirà nel giro di pochi minuti, mi dica se invece preferisce solo che le tolga il dolore e l’ansia di questo momento…” sono frasi che probabilmente andrebbero dette, ma a cui tutti, medici e pazienti, siamo, al momento, poco o totalmente impreparati.

      • si certo le ho detto che avremmo fatto una tracheo da sveglia o meglio da sedata (ma non tanto) e an locale. Ma in quei momenti una persona che sta praticamente morendo soffocata non può essere lucida. La lucidità e la calma la devi tenere tu che in quel momento hai in mano la sua vita e la devi gestire. Però. ….se avesse scritto le sue volontà? se qualcuno prima di decidere di andare in sala avesse sostenuto la sua volontà , palesata più volte in presenza di testimoni?
        È un caso emblematico e sostanzialmente diverso da quello del post. Il paz di Alessandro , da quello che capito, è stato valutato dal mio collega anestesista e dai chirurghi con “calma” in pronto soccorso e il paz ha espresso precisa volonta. Sono andati in sala , pur immagino con perplessità e consapevplezza dell’outcome, con una decisione presa assieme , soprattutto assieme al povero signore. Io mi sono ritrovata in sala queata donna, catapultata dall’ambulatorio, senza averla mai vista, senza sapere nulla, e comunque ponendomi il problema della sua patologia avanzata(unica cosa che sapevo di lei) e dunque del trattamento/accanimento/aspettative di vita. Ma in sala non si può mettere in discussione ciò che è stato deciso da altri prima, soprattutto con un paz che non è in grado di parlare e quasi nemmeno di respirare. Ma per una come me, che sovente di fronte a situazioni di elezione terminali e assolutamente senza ritorno,dice “basta!- si sfocia nell’accanimento “, parla con paz se possibile/parenti e dispone sedazioni di accompagnamento , anche al posto di quei colleghi reticenti a farlo (e ce ne sono ! e troppi!) ..beh….purtroppo ho vissuto questa storia , soprattutto “dopo” con difficoltà.

    • Grazie Arianna, per aver condiviso la tua esperienza. Io sono convinto che, in un caso simile, la scelta che hai preso fosse la migliore, l’unica perseguibile dal punto di vista professionale ed umano. E’ difficile – soprattutto in emergenza – valutare il grado di avanzamento di malattia di un paziente. Nel dubbio, credo che fare un intervento non sia mai sbagliato – a meno che non ci sia ben scritta una volontà del paziente (ma che non ha valore legale, perlomeno non ancora: sta alla nostra etica comportarsi in un modo anziché un altro). Nel caso che ho presentato i tempi erano ristretti (era pur sempre una sala di ps), ma almeno abbiamo potuto stabilire i limiti che avevamo davanti e decidere qualcosa. Però è vero: queste scelte lasciano sempre un senso di incompiutezza: ma è quel “dopo” a cui accenni, che ci aiuta a migliorare e a crescere umanamente. Il problema della reticenza sul fine vita è enorme, basti pensare che ancora c’è chi confonde l’astensione dell’accanimento terapeutico con l’eutanasia, che sono entità profondamente differenti

  6. Alessandro, questo post sin dalla sua prima lettura mi ha colpito nel profondo e ancora di più ha rafforzato la convinzione di quanto sia utile e importante il lavoro che stiamo facendo sul blog.
    In quale libro o rivista avremmo potuto trovare riflessioni e sentimenti come quelli venuti fuori nei commenti a questo post? Grazie ancora per avere condiviso e portato alla luce quello che spesso rimane solo nei nostri pensieri e nel nostro cuore. Sono convinto che effettivamente possa essere un punto di partenza per cambiare strada e cercare un maggiore coinvolgimento del paziente in qualsiasi scelta lo riguardi. E’ un modello culturale che va modificato sono convinto che cambiare atteggiamento sia solo una questione du tempo.

  7. Grazie, grazie, grazie a tutti per questo post e questi splendidi commenti…
    Una cosa sola, l’aver espresso il desiderio di non ricevere la tracheostomia mesi o settimane prima che ciò accadesse, quando sei a casa tranquillo e non sai cosa vuol dire rifiutare un tale intervento, ha ancora significato quando stai annegando nel tuo sangue e cerchi di aggrapparti alla vita con tutte le tue forze?

    • Forse no, Mauro, ed esprimi una perplessità assolutamente valida. In emergenza, nessun giudice potrà mai discutere su un intervento “salva-vita”, ma il caso citato è sicuramente estremo. Certo che il peso della decisione rimane tutto… Io credo che una soluzione sia nell’insistere sul concetto di cure palliative, che a volte permettono il raggiungimento di una dignità maggiore.

  8. Concordo assolutamente sulle cure palliative e trattamento di fine vita: …a proposito di voragini…in questo caso sia medico-legale che di tipo pratica visto che quasi da nessuna parte in Italia esiste sul territorio una adeguata assistenza (e spesso nemmeno negli ospedali).

    • Hai ragione. E’ impensabile — eppure succede — che arrivino pazienti dagli Hospice in Pronto Soccorso… per peggioramento delle condizioni generali?!? l’ultimo, di pochi giorni fa, deceduto in sala di Pronto Soccorso, su una barella, con i parenti accanto, nel disagio di un PS, in mezzo a trambusto, movimento di altri pazienti, eccetera… Ha senso tutto questo? nei corsi SAU ci occupiamo anche di questo argomento: è uno dei momenti in cui l’aula rimane in totale silenzio, segno che l’argomento è profondamente sentito. In PS non dovremmo vedere scene simili — eppure accade, e sempre più spesso. Significa che manca qualcosa, probabilmente una voragine culturale, oppure che si è scatenato un panico medico-legale negli operatori, perchè da un Hospice — che riceve pazienti destinati alle cure palliative perché altro non è più possibile — un paziente non può essere inviato in un DEA. Non è rispettoso per il paziente stesso ne per i familiari.

  9. Hai ragione. E’ impensabile – eppure succede – che arrivino pazienti dagli Hospice in Pronto Soccorso… per peggioramento delle condizioni generali?!? l’ultimo, di pochi giorni fa, deceduto in sala di Pronto Soccorso, su una barella, con i parenti accanto, nel disagio di un PS, in mezzo a trambusto, movimento di altri pazienti, eccetera… Ha senso tutto questo? nei corsi SAU ci occupiamo anche di questo argomento: è uno dei momenti in cui l’aula rimane in totale silenzio, segno che l’argomento è profondamente sentito. In PS non dovremmo vedere scene simili – eppure accade, e sempre più spesso. Significa che manca qualcosa, probabilmente una voragine culturale, oppure che si è scatenato un panico medico-legale negli operatori, perchè da un Hospice – che riceve pazienti destinati alle cure palliative perché altro non è più possibile – un paziente non può essere inviato in un DEA. Non è rispettoso per il paziente stesso ne per i familiari.

  10. Che vergogna. Molte volte , come in questo casi, la colpa è di noi medici. Troppo ignoranti, troppo burocrati, troppo a curare le faccende della medicina difensiva, troppo poco amanti della nostra professione. E qua chiudo e perdonatemi dello sfogo

  11. Bellissimo post.
    Ho potuto leggere solo ora tutti commenti e le parole di Arianna. Non è sicuramente facile mettere nero su bianco disagi che tutti noi proviamo e che vengono avvertiti soprattutto nelle realtà ospedaliere con le quali noi palliativisti, per motivi legati ai diversi modelli organizzativi, non sempre possiamo confrontarci.
    Il lato positivo della vicenda è che sempre più queste problematiche stanno venendo fuori tra noi operatori sanitari e di conseguenza la sensibilità della popolazione per queste tematiche sta crescendo.
    Mi scuso con Carlo per il mio cronico ritardo nello scrivere nuovi post; per ora vorrei solo aggiungere una considerazione alla discussione.
    Si parla di direttive anticipate di trattamento. Nella nostra pratica quotidiana questo concetto, pur non essendo ancora normato a livello legislativo, viene affrontato quotidianamente. Il compito delle Cure Palliative non dovrebbe essere solo quello di “accompagnare” il paziente nell’end of life (ultimi 15 gg di vita attesa) con la “sedazione e l’analgesia”. Questo è solo un sub-setting delle Cure Palliative, purtroppo quello che nella accezione comune identifica le Cure Palliative stesse, spesso fuorviandole.
    Le vere Cure Palliative iniziano in tempi molto precoci, idealmente alla diagnosi di malattie non guaribili, e dovrebbero continuare per tutti il percorso di malattia, in parallelo alle altre specialistiche, con setting ed intensità di presa in carico variabili (la cosiddetta “Simultaneous Care” che ha recentemente dimostrato di dare vantaggi in termini anche di prolungamento della sopravvivenza nella malattia oncologica metastatica).
    Il compito delle Cure Palliative in tutto questo è quello non solo di occuparsi dei sintomi fisici, ma di organizzare insieme al paziente ed ai familiari, confrontandosi con gli altri specialisti coinvolti, il percorso di malattia, preparando i vari attori ai vari avvenimenti possibili, discutendo in anticipo e “con calma” di quello che potrà avvenire e dei desideri (Goals of Care) del paziente (e poi ridiscutendone ancora…), preparando paziente e familiari a gestire tali problemi senza ricorrere al 118 o al DEA (ad esempio una dispnea acuta in un paziente affetto da SLA che rifiuta la tracheotomia).
    L’affrontare questi problemi con una comunicazione precoce “in tempi non sospetti” facilita molto il lavoro poi quando questi problemi si presentano. Indubbiamente questo non è facile, richiede molte risorse del singolo operatore e del Sistema (per il quale la “buona sanità” si identifica ancora con la “prestazione misurabile” e la “guarigione completa”), ma soprattutto richiede la capacità da parte di noi medici (sottolineo medici) di lavorare in equipe e confrontarci tra noi e con tutte le altre figure professionali.

  12. Grazie Fabrizio del tuo intervento. Conosco le difficoltà della medicina palliativa, per emergere e guadagnarsi uno spazio legislativo… Non dissimile dalle lotte della medicina d’emergenza. Noi urgentisti di ps soffriamo un po’ per queste carenze organizzative, ma apprezziamo i vostri sforzi, davvero fondamentali

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