Due pesi, due misure e probabilmente lo stesso errore. Vorrei fare una riflessione sull’uso di una categoria di farmaci tra i più efficaci e, potenzialmente, più pericolosi che abbiamo a disposizione: i fibrinolitici. Forse drammatizzo un po’, ma credo rappresentino un efficace paradigma della medicina moderna.
L’avanzamento scientifico consente una comprensione dettagliata dei meccanismi che sono alla base delle malattie. Non solo. Rende disponibili terapie mirate alla correzione del problema fisiopatologico, almeno per il livello di comprensione che ne abbiamo. I fibrinolitici ne sono un esempio. Essi agiscono sul punto di arrivo di una catena di eventi il cui effetto macroscopico è spesso catastrofico: infarto miocardico, embolia polmonare, ictus ischemico. L’esito evidente, nella fattispecie, è l’ischemia d’organo. I fibrinolitici operano sul danno macroscopico secondo una logica meccanicistica: il problema è un’ostruzione, la soluzione è rimuoverla. La domanda rimane pur sempre: qual è l’effetto in termini di benefici per i pazienti? Ed è qui che l’anelito a trovare una cura prende talora il sopravvento sull’interpretazione dei dati che abbiamo a disposizione.
Non voglio parlare per astratto. Come di consueto partirei da un caso clinico per dare sostanza al mio ragionamento.
Vi sono dati sull’associazione tra viaggi in aereo prolungati ed eventi tromboembolici. Nella mia esperienza i viaggi protratti in autobus sono un fattore di rischio altrettanto, se non più grave, particolarmente nelle donne. L’ambulanza porta una giovane donna di 55 anni che, appena scesa dall’autobus dopo un viaggio di 10 ore, è sincopata. Ha un’intensa dispnea e satura 88%, nonostante una FiO2 somministrata dell’80% ed è tachicardica (FC 120 bpm). La PA è di 80/44.
La probabilità clinica per l’embolia polmonare è ovviamente elevata. Tant’è che non richiedo neppure il D-Dimero. Metto mano alla sonda ecografica e sì, lo ammetto, prima di usare il fonendoscopio (o tempora o mores!). Parto dal cuore.
Al torace vi è un pattern di tipo A. La CUS è negativa sebbene sappiamo essere positiva solo nel 30% dei casi. La diagnosi è fatta.
Sono passati poco più di 20 minuti dall’ingresso. Dopo l’infusione di 500cc di fisiologica la PA è sostanzialmente invariata. È stato somministrato un bolo di eparina sodica 18 kg/U. L’alteplase è già pronto. L’anamnesi non è significativa. La paziente è stata informata della situazione e della sua possibilità evolutiva nonché dei rischi e benefici della fibrinolisi. Ha accettato di sottoporsi alla terapia.
Stando ai dati ESC un’embolia polmonare che determina instabilità emodinamica ha una mortalità superiore al 15%. Con una probabilità così elevata e quel quadro clinico ed ecografico siamo di fronte ad un’embolia polmonare massiva: il trombolitico può essere somministrato senza ulteriori conferme come da linee guida, se la TC non è immediatamente disponibile. E così è. Viene somministrato un bolo di 10 mg e viene avviata l’infusione di altri 90 mg in 2 ore.
Dopo neppure 5 minuti dall’avvio dell’infusione di alteplase la pressione è già normale. In effetti, la paziente sta meglio oggettivamente. La cute è calda, non marezzata, la FR si è ridotta e la SpO2 è già sui 95%. Molto probabilmente si è verificata una frammentazione del trombo, con una parziale riduzione delle resistenze vascolari intrapolmonari e dei fenomeni di shunt, anche se è improbabile che il cambiamento sia imputabile al fibrinolitico. Il che mi dà da pensare. Adesso non è più presente l’ipotensione ed il quadro è quello di un’embolia submassiva. Infatti, la troponina è elevata e i segni di sovraccarico acuto destro sono ancora presenti. Certo le linee guida non contemplano repentini cambiamenti del quadro, ma sospendere il trombolitico non avrebbe senso visto che la scelta nel momento in cui è stata fatta rispettava tutti i criteri del caso.
Il confine tra le nette stratificazioni delle linee guida è più sfumato nella realtà. O forse, più correttamente, manca una definizione efficace per l’embolia polmonare submassiva. Tuttavia è lecito chiedersi se un quadro di embolia a rischio intermedio-alto, per come è oggi definito, si giovi degli stessi benefici quod vitam della terapia trombolitica .
Recentemente è stato pubblicato il PEITHO, lo studio RCT con la coorte più numerosa, che abbia valutato la fibrinolisi nelle embolie polmonari emodinamicamente stabili a rischio intermedio-alto (quelle una volta indicate con il termine di “submassive”). Per quanto concerne la riduzione dell’outcome composito di morte e “collasso emodinamico” a 7 giorni dal trattamento, l’OR è risultato di 0.44 (95% CI 0.23-0.87) a favore della trombolisi. Per collasso emodinamico veniva intesa rispettivamente una di queste eventualità:
- Rianimazione cardiopolmonare
- Ipotensione sistolica <90mmHg o comunque un calo di 40 mmHg sostenuto per più di 15 minuti con segni di ipoperfusione d’organo (che farebbe rientrare l’embolia polmonare nella definizione di massiva).
- La “necessità” di avviare l’infusione di vasopressori
Mentre il primo criterio è evidentemente rilevante, perché equivale alla morte del paziente, i due rimanenti sono un indice di uno stesso tipo di deterioramento cardiovascolare che non si traduce necessariamente nella morte del paziente, essendo per altro la scelta di avvio dei pressori una decisione non standardizzabile. C’è poi una curiosa ridondanza di dubbio valore interpretativo. Tra le cause di morte viene incluso il collasso emodinamico, facendo evidentemente pesare due volte lo stesso criterio, con due differenti valenze: in un caso come segno di peggioramento e nell’altro come causa di morte.
Se scorporiamo dal computo finale la necessità, molto soggettiva, di ricorrere ai vasopressori e l’ipotensione sostenuta rimaniamo con questi dati:
Outcome a 7 giorni dalla randomizzazione | Fibrinolitico (TNK) | Controllo |
Morte per ogni causa | 6 | 9 |
CPR | 1 | 5 |
Tot (%) | 7 (1.4%) | 14 (2.8%) |
Rimane pertanto un significativo effetto, nel breve termine, della fibrinolisi sulla mortalità complessiva includendo la RCP . Non sarebbe così se considerassimo solo i decessi, perché in quel caso non vi è differenza apprezzabile.
Sfortunatamente a un mese di distanza dal trattamento il beneficio si annulla. Il motivo è che nel gruppo sottoposto a fibrinolisi dopo 30 giorni 7 persone vengono a decedere per le conseguenze delle emorragie intracraniche o di sanguinamenti extracranici maggiori. Pertanto, ad un mese dalla randomizzazione, l’effetto della trombolisi non è significativo (2.4% vs 3.2%; OR 0.73 95% CI 0.34-1.57). Ancora una volta luci ed ombre e, pur tuttavia, una indicazione: i vantaggi sono sicuramente a favore dei pazienti giovani (<75 anni) poiché in questa popolazione i sanguinamenti dovuti alla terapia sono meno frequenti. Questo è ancora più vero se si considera che lo studio ha già escluso al momento dell’arruolamento tutti i pazienti che si presentavano con un rischio emorragico a priori.
Una recente metanalisi, comprensiva del PEITHO, ha valutato l’effetto della trombolisi per l’embolia polmonare aggregando 16 studi randomizzati controllati.
Dalla metanalisi emerge una riduzione della mortalità per tutte le cause nei pazienti trattati con fibrinolitico rispetto alla sola terapia anticoagulante (2.17% vs 3.89%, OR 0.53; 95% CI, 0.32-0.88; number needed to treat [NNT] = 59). Parimenti il rischio di sanguinamenti maggiori è triplicato (9.24 vs 3.42%; OR, 2.73; number needed to harm [NNH] = 18) ed in particolare quello per le emorragie intracraniche ICH (1.46% vs 0.19%;OR, 4.63; NNH = 78).
Nel sottogrupppo dell’embolie polmonari emodinamicamente stabili ma a rischio intermedio-alto (dati da soli 8 studi RCT) la mortalità per tutte le cause si riduceva (1.39% vs 2.92%; OR, 0.48) ma ancora una volta con quasi una triplicazione dei sanguinamenti maggiori (7.74% vs 2.25%; OR, 3.19).
Va rilevato, tuttavia, come questo riesame si basi principalmente sui dati del PEITHO e che vi è una discreta eterogeneità fra gli studi considerati, non ultimo sui regimi terapeutici utilizzati, elemento che rende le conclusioni della metanalisi da interpretare con cautela.
Pertanto nell’embolia polmonare submassiva i dati a nostra disposizione non consentono decisioni nette. Chi possa beneficiare della terapia fibrinolitica con sicurezza rimane ancora un problema irrisolto e la scelta va soppesata sulla base del rischio emorragico del paziente, possibilmente riservandola ai pazienti giovani, senza comorbidità. Per usare le parole del Dott. Konstantinides, uno dei maggiori ricercatori sull’argomento, sono necessari strumenti clinici, laboratoristici e strumentali, ulteriori, cui affidarsi per differenziare i pazienti affetti da embolie polmonari submassive “sani” da quelli “malati” .
Ma la riduzione della mortalità è l’unico elemento da considerare?
Di là dai possibili effetti sulla sopravvivenza va, nondimeno, tenuto presente il potenziale beneficio derivante dal miglioramento della qualità di vita (quod valitudinem). Difatti, l’embolia polmonare può determinare una ridotta funzionalità per l’ipertensione polmonare che viene a svilupparsi, nonostante la terapia anticoagulante.
Questo è il messaggio che sembrano affidarci due recenti studi.
Lo studio MOPPET ha evidenziato che il 16% dei pazienti trattati con trombolisi presentava segni d’ipertensione polmonare all’ecocardiogramma contro il 57% dei pazienti del gruppo di controllo (sola terapia anticoagulante). I risultati di questo studio sarebbero eclatanti se, oltre ai parametri ecocardiografici, fosse stata valutata la reale funzionalità di questi pazienti con un endpoint più orientato sul paziente. Un parametro ecocardiografico non necessariamente correla con la qualità di vita del paziente ed ha anche delle limitazioni sull’attendibilità delle informazioni che ci consenga.
Questo tipo di valutazione è stata invece l’obiettivo del TOPCOAT. Esso ha valutato a 90 giorni dal trattamento il miglioramento dei sintomi respiratori dei pazienti con embolia polmonare submassiva. È stata osservata una risoluzione completa della dispnea ed un miglioramento della qualità di vita, soggettivamente riportata, nell’85% dei pazienti trattati con fibrinolitico rispetto al 63% di quelli sottopostisoltanto ad anticoagulazione (p >0.017). Parimenti miglioravano i parametri ecocardiografici e la distanza percorsa camminando senza dispnea. Sfortunatamente si tratta di un piccolo studio che, peraltro, è stato interrotto precocemente per riassegnazione del ricercatore principale. Molti dei cardiologi con cui mi confronto non ritengono che un eventuale miglioramento funzionale sia un elemento sufficiente per accollarsi i rischi emorragici dei fibrinolitici. A quanto pare l’atteggiamento conservativo è ancora prevalente nelle forme submassive, anche nei soggetti giovani, per quanto il trattamento possa potenzialmente offrire loro una migliore qualità di vita e di autonomia funzionale sul lungo periodo. Tant’è.
Eppure basta cambiare organo e specialità e la musica cambia. Stesso guaio, l’ischemia, diverso distretto, il cervello: l’ictus cerebri.
Su questo argomento sono stati scritti fiumi d’inchiostro. I medici appaiono quasi salomonicamente divisi sulla bontà della terapia trombolitica con il 54% di essi che si è espresso a sfavore del suo utilizzo in un recente sondaggio effettuato dal BMJ. Ancora una volta esiste un problema di inquadramento e stratificazione del rischio. Con estrema probabilità vi è una categoria di pazienti che ne beneficia, ma non sappiamo ancora indentificarla adeguatamente. Questo nonostante i criteri stringenti usati per somministrare la terapia trombolitica e che sono derivati da due studi, rispettivamente, il NINDS e l’ECASS III.
Come per l’embolia polmonare submassiva vediamo quali sono i benefici in base alla revisione che la letteratura ci offre. Innanzitutto, l’effetto di riduzione della mortalità non è mai stato dimostrato.
La revisione sistematica della Cochrane del 2009 ha evidenziato un aumento della mortalità dei pazienti affetti da ictus ischemico dai tre ai sei mesi dopo il trattamento fibrinolitico (OR 1.31, 95% CI 1.114-1.50), nonché un aumento del rischio di emorragia intracranica sintomatica (OR 3.49, 95% CI 2.81 to 4.33), considerando la somministrazione del fibrinolitico sino a sei ore dall’evento ischemico. Non vi era, al contrario, alcun effetto sulla mortalità, neppure in miglioramento, per la fibrinolisi entro tre ore (OR 1.13, 95% CI 0.86-1.48).
Nel 2012 è stato pubblicato l’IST-3 che rappresenta lo studio con la coorte più corposa ad aver valutato l’effetto della terapia fibrinolitica per lo stroke.
Designato con criteri che ne avrebbero fatto la ricerca finalmente in grado di chiarire i dubbi riguardo all’efficacia della terapia, ha perso, strarda facendo, la sua iniziale impostazione. Di fatto ha arruolato circa 3000 pazienti dei 6000 inizialmente previsti, essendo in cieco solo per il 10% del totale pazienti (parte pilota dello studio). È un lavoro inevitabilmente soggetto ad un pesante e non correggibile bias, ma questo è uno solo dei suoi problemi metodologici. Dall’IST-3 emerge un incremento della mortalità a breve distanza dalla trombolisi (11% vs 7%) con un successivo miglioramento nei sei mesi a seguire (16% vs 20%), per un effetto netto complessivo nullo.
Gli stessi autori del IST-3 hanno quindi aggiornato la metanalisi della Cochrane aggiungendo il loro studio. Dalla metanalisi emerge un incremento della probabilità di essere vivi e indipendenti del 4,2%. L’effetto sulla mortalità per ogni causa, alla fine del follow-up, mostra un trend, non significativo, di aumento dello 0,7%. Personalmente credo che questa analisi, come la precedente Cocrhane, giunga a conclusioni poco affidabili, quanto meno per l’eterogeneità degli studi aggregati, se non per la cattiva qualità dei principali lavori esaminati.
Anche stando alla valutazione più ottimistica l’effetto della trombolisi sulla riduzione della mortalità è nullo in caso di stroke.
Pazienza. Ben venga se è in grado di migliorare l’indipendenza dei pazienti, considerando i costi sanitari e sociali associati alla disabilità residua dell’ictus.
Nondimeno, anche sul miglioramento funzionale, le cose sono tutt’altro che chiare, checché ne venga detto. Se pensate che questo sia il vaniloquio di uno squilibrato basti dire che l’ACEP sta riconsiderando le proprie posizioni d’indirizzo sulla trombolosi, inizialmente redatte in accordo con la società neurologica statunitense, per un evidente impasse difronte ai limiti della letteratura disponibile.
Partiamo dall’ultimo studio, ancora una volta l’IST-3. Esso ha fallito l’endpoint primario: la disomistrazione di un aumento della proporzione di pazienti vivi e indipendenti con uno score di Oxford Handicap tra 0 e 2, dopo sei mesi dalla terapia. In effetti la fibrinolisi avrebbe determinato un incremento dei pazienti vivi e indipendenti del 2% che non ha raggiunto una significatività statistica.
Nonostante l’evidente insuccesso del trial gli autori hanno utilizzato un po’ di macuba statistica, effettuando un’analisi ordinale a posteriori dei dati. A seguito di quest’ultima hanno dichiarato un miglioramento funzionale significativo dei pazienti trattati. Ciò ha attirato le critiche della comunità scientifica gettando inoltre discredito sul Lancet ove lo studio è stato pubblicato. Nonostante quest’operazione di maquillage, l’IST-3 rimane uno studio con esito negativo, almeno se vogliamo stare nel solco della EBM. L’argomento rimane estremamente controverso.
In realtà l’IST-3 non è l’unico studio negativo sulla trombolisi nell’ictus, dacché dei 12 trial RCT effettuati sino ad oggi solo 2 hanno dato un esito positivo. Data la loro eterogeneità, più che fare riferimento alle metanalisi, è più efficace valutarli sigolarmente.
Arriviamo al nocciolo della questione. Esistono molte similitudini se consideriamo la trombolisi per l’embolia polmonare submassiva e l’ictus ischemico:
- C’è un problema d’inquadramento e stratificazione del rischio: non sappiamo discernere sufficientemente quali popolazioni si giovano del trattamento
- Non vi è una dimostrazione netta di un miglioramento della sopravvivenza o se c’è, esso è a spese di un rischio di complicanze emorragiche devastanti, anche mortali, che vanno a detrimento dei successi terapeutici
- Manca un’evidenza scientifica staticamente adeguata per poter dare un indicazione precisa: i dati sono eterogenei, le conclusioni sono sbilanciate verso studi che hanno difetti metodologici consistenti e spesso sono unicentrici
- Vi è un supposto miglioramento funzionale in chi sopravvive, ma, ancora una volta, questo dato si fonda su evidenze traballanti per motivi di adeguatezza degli studi.
Eppure vi sono due pesi e due misure. Mentre per l’embolia polmonare l’atteggiamento prudenziale è ancora prevalente, per l’ictus ischemico esistono le stroke unit e la ricerca si impegna possibilmente ad estendere la fascia di popolazione a cui riservare il trattamento.
Questa discrepanza è ancora più evidente se consideriamo l’altro grande capitolo dell’ischemia acuta d’organo: l’infarto miocardico.
Nessuno ad oggi ha dubbi che la trombolisi abbia determinato un sostanziale miglioramento dell’outcome per l’IMA. Tale certezza si fonda su una coerenza dell’evidenza accumulata, nonché del suo peso statistico.
In questo caso la corposità e riproducibilità degli studi effettuati, nonostante la loro eterogeneità, ha permesso di avere informazioni chiare, che sono indicate nella metanalisi pubblicata su Lancet nel 1994. Quest’ultima ha raggruppato 9 studi per un totale di 58511 pazienti. Il beneficio assoluto sulla riduzione di mortalità è stato del 2% in favore della trombolisi (11.5% vs 9.6%). Ci sono pertanto voluti circa 60000 pazienti per riuscire a fare emergere un beneficio tangibile ma pur sempre piccolo se considerato in termini assoluti.
Differentemente da quanto si è verificato per gli studi che abbiamo preso in esame per l’ictus e l’embolia polmonare submassiva, la maggior parte dei lavori pubblicati per l’IMA, ha evidenziato un beneficio complessivo dalla trombolisi e vi è, inoltre, un simile aumento della sopravvivenza anche solo quando esso di manifesta come trend non significativo (ISAM, USIM, EMERAS).
Non potendo riprodurre senza autorizzazione i forest plot delle metanalisi cui faccio riferimento ho pensato di ricrearli a modo mio. I forest plot non mi sono mai piaciuti. La mia avversione nasce principalmente dal fatto che mettono al centro dell’attenzione visiva l’ipotesi nulla (Odd Ratio o Relative Risk pari a 1). A mio modo di vedere è più facile immaginare l’effetto delle terapie come un colpo andato a segno, quando efficaci. Pertanto preferisco i “target plot”, sebbene siano una mia invenzione, di cui posso solo garantire la correttezza nella riproduzione dei dati e assumermi tutta la responsabilità. Di seguito, quindi, a confronto sono rappresentati i dati sulla mortalità per ogni causa, della fibrinolisi rispettivamente per embolia a rischio medio-alto, ictus ischemico e infarto miocardico acuto, tratti da tre metanalisi citate. Per ogni grafico sono riportati i dati conclusivi delle metanalisi, nonché dei singoli studi presi in esame, con il relativo peso in termini di numerosità della loro coorte in modo proporzionale (sfere colorate). I risultati sono evidenziati con il relativo intervallo di confidenza espresso al 95 percentile. Solo ciò che ricade all’interno del cerchio bianco ha un effetto nel ridurre la mortalità (conviene ingrandirlo!).
Che vi siano delle convinzioni radicate e conseguentemente degli atteggiamenti terapeutici così dissimili nei confronti di patologie diverse, ma con un simile denominatore fisiopatologico, è problematico spiegare da un punto di vista scientifico.
Penso sia una questione di fede e chissà che non abbia un effetto anch’essa, come ha sottolineato Sir William Osler:
Faith in our drugs and methods is the great stock in trade of the profession… While we doctors often overlook or are ignorant of our own faith cures, we are just a wee bit too sensitive about those performed outside our ranks… Faith in the gods or saints cures one, faith in little pills another, hypnotic suggestion a third, faith in a plain common doctor a fourth… The faith with which we work…has its limitations…but such as we find it, faith is the most precious commodity without which we should be very badly off. (Cushing H. The Life of Sir William Osler. The Progress of Medicine in the 19th Century. New York: Oxford University Press; 1926:546.)
Come spesso accade quando un convincimento fideistico si radica nella cultura medica, diviene difficile da modificare (non dimentichiamo i cortisonici per le lesioni spinali!). Rimane pur sempre il fatto che una cattiva evidenza scientifica, entusiasticamente interpretata come certa dimostrazione, è comunque cattiva scienza.
Riferimenti bibliografici:
Fasullo et al. Six-month echocardiographic study in patients with submassive pulmonary embolism and right ventricle dysfunction: comparison of thrombolysis with heparin.
Goldhaber et al. Alteplase versus heparin in acute pulmonary embolism: randomised trial assessing right-ventricular function and pulmonary perfusion.
Kostatinides et al. Pulmonary Embolism-3 Trial Investigators. Heparin plus alteplase compared with heparin alone in patients with submassive pulmonary embolism.
Ringrazio e maledico Mattia e Carlo: EMPills è sempre stimolante e invita ad approfondire i temi che propone, ma questo sabato avevo sperato proprio di staccare la spina dal lavoro ed invece non posso esimermi dal commentare il bel post di Mattia.
Sono un neurologo e mi occupo prevalentemente di ictus ormai da oltre 15 anni e credo molto nella trombolisi nell’ictus perché, tra l’altro, sta contribuendo a modificare l’atteggiamento fatalista che ha storicamente assistito questi paziente. E i dati su cui fondo le mie convinzioni si aggiornano costantemente.
Nel 2014 è stata pubblicata una nuova revisione Cochrane sulla trombolisi nell’ictus ischemico http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/14651858.CD000213.pub3/abstract
(27 trials, 10.187 pazienti), che ha dimostrato una significativa riduzione di morte o dipendenza da 3 a 6 mesi dopo un’ictus ischemico (odds ratio (OR) 0.85, 95% confidence interval (CI) 0.78 to 0.93). Il rischio di emorragia intracranica sintomatica è aumentato (OR 3.75, 95% CI 3.11 to 4.51), come quello di morte precoce (OR 1.69, 95% CI 1.44 to 1.98) attribuibile ad emorragia cerebrale. Se il trattamento viene effettuato entro le 3 h il beneficio è maggiore (OR 0.66, 95% CI 0.56 to 0.79) senza alcun aumento di morti (OR 0.99, 95% CI 0.82 to 1.21). Se i dati sono riferiti ai trials che utilizzano solo rt-PA i risultati non sono significativamente diversi. I dati riferiti agli ultra ottantenni non sono diversi da quelli dei pazienti < 80 anni in particolare se trattati entro le 3 h. Quest’ultimo dato riportato sulla revisione deriva principalmente dall’IST3 ed è forse il risultato migliore dell’IST3 tanto contestato. E che deriva dall’analisi secondaria a posteriori. Credo che l’IST3 sia stato male interpretato: l’IST 3 escludeva i pazienti che potevano essere trattati secondo le attuali indicazioni (entro le 3 h e pazienti sotto gli 80 anni) ed infatti il 95% degli arruolati non rientrano in quelle categorie. L’obiettivo era ampliare le indicazioni attuali e cercare di capire meglio quali tipologia di pazienti possano beneficiare della terapia trombolitica. Dire che l’IST3 non ha prodotto i risultati promessi ed utilizzarlo per affermare che l’utilità della trombolisi è messa in dubbio è scorretto: la terminologia da utilizzare al limite sarebbe: non ha confermato l’utilità al di fuori delle attuali indicazioni autorizzate. La necessità di una analisi secondaria dei risultati è ben specificata dagli autori nella risposta alle contestazioni pubblicate su Lancet http://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(12)61596-7/fulltext .
Le revisioni della letteratura sulla trombolisi nell’ictus sono iniziate nel 1992 e fa specie continuare a vedere inseriti trials che utilizzavano farmaci, dosaggi e strumenti diagnostici così antichi (ricordo di aver visto direttamente trattare nel 1992-93 pazienti nel MAST I con streptochinasi e ASA e con TAC solo lontanamente parenti delle attuali) con una selezione dei pazienti molto approssimativa. Così come l’ASK. L’Atlantis (rosso nello schema inserito da Mattia) utilizzava l’Alteplase oltre le 3 h ma anche in questo caso va fatto il discorso precedentemente fatto con l’IST3.
Meno male che sono stati esclusi i primi lavori sulla trombolisi nell’ictus che risalgono agli anni della mia infanzia in epoca pre TAC (1963-64).
Il dato attuale, secondo l’ultima revisione Cochrane, è che ogni 1000 pazienti trattati entro le 6 h 41 evitano morte o dipendenza. Se il trattamento viene effettuato le 3 h il numero sale a 95 ogni 1000 trattati.
Per immaginare dei numeri reali, se riuscissimo a trattare i circa 10000 pazienti che hanno un ictus in Piemonte ogni anno entro le 3 h eviteremmo 950 morti o disabili (è chiaramente un'iperbole).
Alla luce di questi dati è necessario continuare ad utilizzare la trombolisi in pazienti con ictus ischemico il più precocemente possibile e comunque entro le 4,5 h autorizzate dall’AIFA. Speriamo che l’AIFA possa al più presto eliminare la limitazione dell’età e della gravità dell’ictus e che ulteriori dati ci consentano di individuare i pazienti che rischiano maggiormente la complicanza emorragica.
Segnalo un ultimo recente lavoro su Lancet a conferma dei dati su riportati:
http://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(14)60584-5/fulltext nel cui commento viene stressata la necessità di essere rapidi nelle procedure pretrattamento http://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(14)60662-0/fulltext.
Bisogna lavorare sulla fase preospedaliera ed ospedaliera. Oggi noi lo stiamo facendo provando a migliorare le procedure ospedaliere (valutazione, ematici, TC, ecc) per ridurre significativamente i 60’ indicati dalle linee guida nel tempo door to needle: presso il nostro Pronto Soccorso grazie ad un ottimo gruppo di lavoro con urgentisti, neurologi, infermieri, radiologi e laboratoristi.
L’altro punto fondamentale è l’arrivo precoce dei pazienti con ictus in PS: a Torino e provincia, anche con la collaborazione del 118, stiamo conducendo una campagna sanitaria per il riconoscimento dei sintomi dell’ictus (salva il tuo cervello).
Caro Carmelo, grazie del commento. Nelle tue parole traspare il genuino intento che anima i neurologi nell’intento di cambiare il decorso di una patologia vissuta e gestita con passività sino all’introduzione della fibrinolisi.
Non a caso ho parlato di anelito nell’introduzione del post per onorare il sincero slancio che guida gli specialisti in questo particolare campo di utilizzo della fibrinolisi, non solo nello stroke ma anche nell’embolia polmonare.
Ciononostante ho la personale impressione che il fatalismo cui fai riferimento sia stato sostituito oggi da un atteggiamento acritico opposto: il fideismo.
Difficile discutere un argomento, di questa portata, in una risposta di un post. Cercherò di essere succinto, chiarendo sin da ora che a mio modo di vedere, qualunque lettura dei dati si abbia, il paradosso nelle attitudini, cui accennavo nell’articolo rimane per intero.
Innanzitutto vorrei criticare apertamente la visione “alteplase-centrica” che si è creata nel tempo. L’idea che l’rtPA sia la molecola salvifica da utilizzare è diffusa e per molti spiega l’insuccesso dei trial più vecchi. Curiosamente seguendo lo stesso principio, la trombolisi per l’infarto miocardico acuto avrebbe dovuto fallire miseramente data l’eterogeneità dei fibrinolitici utilizzati, compresi i prodotti più vecchi e meno selettivi. Così non è stato: qualunque trombolitico si usasse l’outcome era sempre lo stesso e, inoltre, indipendentemente dal tipo di farmaco si è sempre delineata una chiara correlazione tra tempo di somministrazione e margine di beneficio (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/12589008).
Per la verità questo non è mai stato dimostrato e non è neppure dimostrabile per lo stroke ischemico. Innanzitutto perché non ci sono dati su cui basarsi. La raccomandazione di utilizzare il regime terapeutico basato sull’rtPA per via endovenosa a 0.9mg/kg come best practice deriva solo dal fatto che è al momento il regime più utilizzato ma non ha nessun riscontro in studi comparativi, poiché essi non esistono (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24199840). Ed è la stessa Cochrane a evidenziarlo nel 2013 (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23728633).
È il regime oggi raccomandato perché così si è deciso di fare sulla scorta dei due studi che hanno dato il via a questa pratica clinica ovvero il NINDS e l’ECASSIII. Sono gli unici due studi che abbiano dimostrato un beneficio seppure a spese di un aumento delle emorragie intracraniche.
Il NINDS credo sia uno degli studi più dibattuti in assoluto nella storia della letteratura contemporanea. Mi sbilancio nel dire che se venisse pubblicato oggi, immagino sul Lancet vista la sua monolitica partigianeria profibrinolitica, difficilmente godrebbe di considerazione.
In effetti, si tratta a conti fatti di due studi in uno, è bene ricordarlo. Esso ha inizialmente arruolato all’incirca 300 pazienti avendo come obiettivo primario il beneficio a 24 ore. In assenza di alcun effetto lo studio è stato apparentemente interrotto e riprogrammato su un outcome a 90 giorni da cui è emerso il beneficio dopo l’arruolamento di altri 300 pazienti circa. In nessuna parte dell’articolo è specificato che questo fosse il programma preventivato dello studio. Metodologicamente è una cosa improponibile: non si cambiano le carte in tavola a lavoro iniziato, dopo avere retrospettivamente cercato un modo di raccogliere i dati affinché evidenzino un possibile beneficio. Oltretutto cambiando l’outcome non solo dal punto di vista temporale ma nelle modalità di misurazione (outcome non più progressivo ma dicotomico)
Di per sé poi è curioso da un punto divista meramente fisiopatologico che il beneficio si manifesti a 90 giorni anziché a breve termine. Già alla sua uscita la sua reanalisi da parte di altri autori ne ha messo in discussione l’attendibilità.
Pur tuttavia nel 1995 solo sulla scorta di uno studio di dubbia valenza statistica l’AHA raccomandava l’utilizzo del rtPA nello stroke. Guarda caso la raccomandazione giunge dopo un finanziamento di 11 milioni di dollari da parte della casa farmaceutica produttrice dell’rtPA all’AHA. Negli stessi anni per l’IMA si avevano a disposizione informazioni su 60000 pazienti contro i 333 del NINDS. Questo è l’inizio del paradosso.
Poi è venuto l’ECASSIII. Il terzo studio dopo due omonimi negativi, anche questo è bene ricordarlo. Relativamente pochi pazienti, circa 800, e difetti metodologici ancora una volta. Primo fra tutti l’esclusione retrospettiva di tutti i pazienti che si presentavano con stroke di vaste dimensioni. Un bel modo per confezionarsi un risultato. Incomprensibile per me poi l’uso dell’mRS in cui avere una disabilità moderata (3) ha lo stesso peso nella valutazione del beneficio quanto l’essere morti (5). In effetti se per buon outcome si considerasse il range da 0 a 3 del mRS l’ECASSIII sarebbe anch’esso un trial negativo.
Sia nell’ECASS III che nel NINDS inoltre la coorte di controllo si presentava con deficit neurologici più severi rendendo il confronto tra terapia standard e fibrinolisi ancora meno attendibile.
Eppure ancora una volta una nuova raccomandazione istutizionale ad usare la finestra temporale dell’ECASSIII 3-4.5 ore. Con poco più di un migliaio di pazienti e molti dubbi ignorati, dopo l’ECASSIII la pratica diviene best practice inappellabile. Il paradosso si consolida e diviene dogma.
Poi il nulla sino all’IST-3. Diciamolo chiaramente tutti i risultati delle recenti review compresa quella della Cochrane del 2014 che hai citato sono essenzialmente dovuti al peso quantitativo di questa coorte. Al di là di quanto ho già detto nel post vorrei aggiungere altri due aspetti che trovo inquietanti dell’IST-3. Primo è l’incongruenza della relazione temporale della somministrazione del trombolitico ed il beneficio. Tra 0 e 3 ore beneficio, tra 3 e 4.5 ore nessun beneficio e tra 4.5 e 6 ore nuovamente beneficio. La cosa non ha senso e va contro l’idea propagandata che time is brain. Secondo la raccolta dei dati attraverso interviste telefoniche in uno studio non in cieco in cui chi ha ricevuto la terapia ne era a conoscenza.
Infine veniamo alla review della Cochrane del 2014 e sul perché faccio fatica a prenderla in considerazione.
1) Gli innumerevoli conflitti d’interessi professionali e finanziari degli autori con la casa produttrice dell’rtPA.
2) L’eterogeneità degli studi che vengono considerati è talmente alta che è come confrontare peperoni con cioccolatini. Qualunque sia la conclusione cui si giunge è inaffidabile e questo è stato abbondantemente chiarito ancora molto tempo fa (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2541868/). Paradossalmente la review del Lancet del 2012 cui faccio riferimento nel post pur essendo affetta dallo stesso problema di raggruppamento di studi eterogenei ha operato una scelta un po’ più coerente, anche se la trovo comunque di dubbia utilità
3) La conclusione principale che gli stessi autori della metanalisi ci propongono è che la trombolisi sino a sei re dallo stroke riduce la proporzione di paziente morti o dipendenti (OR 1.17 a favore della trombolisi CI 1.06-1.29). La veridicità di questa affermazione è curiosamente smentita dalla loro stessa analisi dei sottogruppi di trattamento a 0-3 e 3-6 ore (forest plot 1.21 dello studio). Pur potendo vantare dalla metanalisi solo un beneficio entro le tre ore del trattamento gli autori si sblianciano nel proporre un uso esteso alle sei ore e per me questo è indice del loro interesse personale.
Rimango della mia idea e come me molti medici dell’emergenza. Trovo estremamente difficile coniugare queste mie convinzioni nella pratica clinica. Seguo con scrupolo il protocollo per lo stroke della mia azienda, soprattutto perché vede il coinvolgimento diretto di un neurologo, che mi solleva in parte dall’onere della scelta. Penso sia tuttavia profondamente sbagliata questa corsa all’allargamento delle indicazioni dell’uso dei fibrinolitici nello stroke. Esistono, sono convinto, paziente che ne beneficiano, ma lo sforzo dovrebbe essere a rintracciare le popolazioni che ne beneficiano e sono convinto non siano gli anziani. Quello che trovo difficile accettare è il fatto che sia diano per assodate cose che non lo sono. Sono sicuro che anticipare sempre più la somministrazione del fibrinolitico darà dei risultati positivi semplicemente prevenendo l’identificazione dei tia.
Caro Mattia,
grazie della risposta, di fronte alla quale rimango con poche frecce al mio arco: non so rispondere sugli “11 milioni finanziati all’AHA”, non so commentare “gli innumerevoli conflitti d’interesse professionali e finanziari della revisione Cochrane con la casa produttrice dell’rtPA”.
Credo che abbiamo fornito ai lettori del blog una serie di informazioni e riferimenti che possano consentire loro di formarsi un’opinione.
I dubbi sono ancora tanti e spero che nuovi trials riescano a chiarirli, come anche auspicato nella revisione Cochrane del 2014: in particolare sulla finestra temporale, su quale tipo di stroke e quanto grave ne beneficia di più, su quali condizioni cliniche e radiologiche espongono il paziente al rischio emorragico. E spero anche nell’arrivo di nuove molecole che risultino più efficaci dell’Alteplase così come vedo con grande interesse i nuovi favorevoli dati a favore dei trattamenti endovascolari.
Qualche chiarimento però è dovuto ancora: il primo sull’mRS: La scala di Rankin modificata classifica la disabilità residua ad un evento clinico (l’ictus in questo caso): 0 nessun sintomo, 1 nessuna disabilità malgrado i sintomi, 2 disabilità lieve: non riesce a svolgere tutte le attività precedenti ma è autonomo nel camminare e nelle attività di vita quotidiana, 3 .Disabilità moderata: richiede qualche aiuto nelle attività della vita quotidiana, ma cammina senza assistenza. 4 Disabilità moderatamente grave: non è più in grado di camminare senza aiuto né di badare ai propri bisogni corporali, 5.Disabilità grave: costretto/a a letto, incontinente e bisognoso/a di assistenza infermieristica e di attenzione costante, 6 Morte.
La disabilità moderata (3) determina una significativa perdita dell’autonomia: il paziente è in grado di deambulare magari con l’uso di bastone, stampella o girello ma necessita di aiuto per attività quali fare acquisti, cucinare e fare pulizie e richiede di essere assistito più volte durante la settimana.
Lo 0-1 della scala di Rankin è considerato un buon outcome, e secondo molti già il 2 non è considerato risultato positivo. Ovvio che non è assolutamente classificabile come positivo un outcome di 3 all’mRS.
Nella metanalisi che ho già citato del novembre 2014
(http://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736%2814%2960584-5/fulltext ) in cui sono stati selezionati solo i trials con alteplase (6756 pazienti in 9 studi) il good stroke outcome era definito con una mRS di 0-1.
La percentuale di pazienti con good outcome è del 32,9% rispetto al 23,1% dei controlli se trattati entro le 3 h, del 35,3% rispetto al 30%, nei pazienti trattati tra le 3 e le 4,5 h e del 32,6% rispetto al 30,6 % dei controlli per i pazienti trattati tra le 4,5 e le 6 h.
Concordo che i numeri sono ancora pochi.
Posso però ricordare che nella pratica clinica quotidiana la maggior parte dei centri (come il mio) che trattano i pazienti con Alteplase, li registra nel SITS-ISTR i cui dati sono periodicamente pubblicati: in questo momento i pazienti registrati hanno superato i 110000. Per chi fosse interessato è stato appena pubblicato il SITS Report 2014 https://sitsinternational.org/pictures-logos/scientific-report.pdf :
I dati riportati su 82000 pazienti, registrati da 861 centri, riportano una percentuale di Emorragia cerebrale sintomatica variabile dal 1,7 al 6,5% (a secondo del tipo di definizione utilizzata), mentre questi sono gli outcomes a 3 mesi: Mortalità 14,6%, mRS 0-1 40,5%, mRS 0-2 55,9%.
So che sono numeri altamente criticabili per le caratteristiche del registro, ma mi sembra che sostanzialmente ricalcano i numeri delle metanalisi e penso che possano essere comunque oggetto di riflessione.
Credo superato poi il timore che accelerare i tempi di trattamento dell’ictus possa sovrapporsi sulla possibile manifestazione di un TIA: nella grande maggioranza dei TIA (secondo l’ultima definizione che ha eliminato il fattore tempo inserendo il concetto di assenza di lesioni alle neuro immagini http://stroke.ahajournals.org./content/40/6/2276.full.pdf+html ) i sintomi regrediscono < 1 h e dubito che la capacità di velocizzare le procedure possa significativamente aumentare i pazienti trattati entro 1 h dall’esordio dei sintomi.
Infine un’ultimo riconoscimento a quanto riportano nelle loro conclusioni gli autori della metanalisi Cochrane del 2014, che allego integralmente nelle Implications for practice
1. Taken overall, in people given thrombolysis in the acute phase of ischaemic stroke, there appears to be a net benefit of a significant reduction in the proportion who are dead or dependent at the end of follow-up across all drugs and time windows.
2. Faster treatment is more beneficial. People treated within three hours of stroke are less likely to be dead or dependent than those treated after three hours, although some may still derive benefit if treated up to six hours.
3. There is, overall, proof of an excess risk of symptomatic and fatal intracranial haemorrhage and early death from all causes with thrombolytic therapy. Evidence on risk factors, however, is incomplete.
4. More data are available for recombinant tissue plasminogen activator (rt-PA) than for other drugs; with rt-PA, there was no net effect on death from all causes at long-term follow-up.
5. People aged over 80 derive as much benefit from rt-PA as do those aged under 80 years, especially if treated within three hours of stroke.
6. Despite the overall net benefit, the available data do not provide sufficient evidence to determine the duration of the therapeutic time window, the clinical or radiological features which identify those most likely to benefit (or be harmed) including whether or not people with mild stroke benefit or not, or the optimum agent (or dose or route of administration).
7. The data indicate that antithrombotic treatment should be avoided until at least 24 hours after thrombolytic treatment.
8. In the light of these considerations, current evidence supports configuration of stroke services so as to be able to treat as many people as possible as fast as possible with the licensed drug rt-PA, including those aged over 80. There is no evidence to withhold rt-PA on the basis of age, early CT ischaemic changes, or severity of stroke if it can be administered within 4.5 hours and preferably within three hours. While the data suggest that some people may benefit even up to six hours, change in clinical practice should await results of further trials to determine the latest time window for benefit.
Caro Carmelo, grazie a te per la pacatezza nella risposta e per il fatto di lasciare margine al dibattito nonostante le differenze di vedute.
Credo sarà difficile che si possano avere nuovi studi in grado di dirimere i dubbi. A mio modo di vedere è difficile cambiare la convinzione radicata in ambito specialistico, se non è stata messa in dubbio sino ad oggi. La recente storia dell’IST-3 ci insegna che è estremamente complesso realizzare uno studio che abbia la potenza statistica e la metodologia adeguata (RCT in cieco) per riuscire a risolvere il dilemma. Tanto più quando oramai si danno per certi i benefici a prescindere e l’intento è quello di estendere la terapia a più malati con sempre meno restrizioni.
Riguardo ai dati di registro: non è lì la risposta. Abbiamo dati di registro abbondantissimi sull’adrenalina nell’arresto cardiaco e dicono tutto e il contrario di tutto, basta cambiare metodo di analisi statistica. Ad oggi non è stato mai condotto uno studio RCT vs placebo decente che ci abbia permesso di capire se è utile oppure no. Eppure nessuno si sognerebbe di non dare l’adrenalina nonostante dati recenti suggeriscono peggiori autcome neurologici.
Similmente per i fibronolitici la si continua a fare.
Permettimi poi di esprimere un dubbio sull’utilità della nuova definizione di TIA, che mi sembra ritagliata sulle necessità della terapia fibrinolitica. Anche per l’infarto miocardico acuto molto si è speso sulla correlazione tra entità del danno tissutale e mortalità. Ma questa associazione non si è trovata nei dati. Neppure la riapertura del vaso (open artery hypothesys) è stata dimostrata: sono poche le coronarie che si ricanalizzano con un flusso adeguato dopo la trombolisi eppure il beneficio sulla sopravvivenza rimane.
Il fatto di distinguere i TIA in base alla RMN DWI non mi sembra possa tradursi in una conseguenza sull’atteggiamento terapeutico. Pur avendo un valore prognosticio è scarsmente praticabile e non è certamente un target meritevole se il paziente recupera la funzione nonostante tutto. A questo proposito è bene ricordare che il timing dall’esordio dei sintomi ha un basso valore di verosimiglianza nel predire chi avrà segni di infarto all’imaging.
Se è vero che dopo un’ora è più probabile che ci siano i segni di infarto è lungi dall’essere una certezza.
Sull’aggregazione del mRS così come è stata utilizzata sino ad oggi rimango perplesso: una moderata disabilità per me rimane un buon outcome rispetto alla completa dipendenza e alla morte. Questo atteggiamento dicotomico edulcora i risultati degli studi. Come dicevo l’ECASS3 sarebbe un trial negativo se pesassimo più equamente il punteggio.
Nel complesso aspetto di vedere quali saranno le nuove indicazioni dell’ACEP per capire se dalla comunità dell’emergenza statunitense verrà declassata l’indicazione alla trombolisi. Vedremo.
Bellissimo post! Anch’io, pur non occupandomi di neurologia, mi ero innamorato dei fibrinolitici (“time is brain!!). Oggi ho molti dubbi in più quindi sono contento di aver passato mezz’oretta a leggere il post e i vostri commenti.
A presto e grazie del vostro lavoro !
Grazie a te Mino per l’interesse. A presto.
Grazie Mattia per la completezza e la sintesi!
Sono convinto anch’io che la direzione futura dovrebbe essere la ricerca della popolazione che beneficia del trombolitico e non l’incremento della finestra temporale; ovvero, tratto quelli `buoni` e non `tratto tutti e sempre di più`.
Abbiamo visto tutti nella nostra pratica clinica grandiosi successi della trombolisi (spt giovani) vs morti (spt anziani) …
In attesa di altri dati sulla rivascolarizzazione meccanica … (http://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa1411587, http://www.emlitofnote.com)
La pressione del mercato ci spinge, e in mezzo ci siamo noi: i post come il tuo ci aiutano e pensare e a soppesare pro e contro senza fideismi …
Ciao Roberto, contento ti sia piaciuto il post.
Riguardo all’approccio invasivo spero si abbia la pazienza di avere un adeguato numero di evidenze prima di imbarcarci in un processo così costoso e difficilmente riproducibile.