Ero intento a scrivere (con il mio solito grande ritardo…) un post sulla Futilità in Medicina, prendendo spunto da questo spettacolare articolo intitolato “Overkill” di Atul Gawande apparso ormai qualche mese fa su The New Yorker, quando con il mio gruppo di Cure Palliative domiciliari abbiamo preso in carico al suo domicilio Elisa (nome di fantasia), una ragazza di 19 anni affetta da schwannoma maligno, diagnosticatole all’età di 16 anni ed ormai plurimetastatico (fegato, peritoneo, encefalo, polmoni) con indicazione alla sola palliazione.
Al di là di tutto quello che saltava subito agli occhi dal punto di vista clinico e umano in un caso come il suo, un particolare apparentemente insignificante mi ha colpito.
Elisa era stata da circa una settimana dimessa dalla Pediatria di riferimento dopo un ricovero per dolore non controllato con esclusiva terapia endovenosa (IPP, desametasone, fenobarbitale e morfina in elastomero). Il dolore non era perfettamente controllato e si iniziavano a vedere segni di compressione midollare, ma Elisa continuava ad avere una buona vita di relazione con il suo smartphone e addirittura invitando le sue amiche a casa per una pizza.
Da ormai circa un paio di anni Elisa era portatrice di un CVC Port-a-cath pediatrico con il quale aveva fatto tutti suoi cicli di chemioterapia. Negli ultimi mesi però era diventato sempre più difficile inserire l’ago di Huber nella sua camera, richiedendo numerosi fastidiosi tentativi, anche da parte di Deborah, l’infermiera pediatrica che da sempre Elisa aveva eletto a sua “posizionatrice di gripper ufficiale”.
Per questo motivo (e forse anche per non sentirsi “più malata di quello che era” – il Port era sempre stato esclusivamente utilizzato per i cicli chemioterapici) Elisa aveva rifiutato di utilizzare il CVC ed ora la sua terapia EV (compreso l’elastomero) veniva somministrata attraverso un Angioset nel braccio, che in media veniva riposizionato una volta al giorno a causa dello scarso e fragile patrimonio venoso. Elisa iniziava a non tollerare neppure questa soluzione…
Ma non c’era proprio un’altra via di somministrazione proponibile?
La via di somministrazione di elezione in Cure Palliative (e quella dettata dal Buon Senso…) è la via orale, per ovvi motivi di semplicità, empowerment del paziente, costi, gestibilità al domicilio, ecc.
Per Elisa la via orale poteva essere considerata almeno per l’inibitore di pompa, di cui esiste comunque anche la formulazione orosolubile, e per il fenobarbitale.
Per quanto riguarda lo steroide invece, l’alto dosaggio (16 mg di desametasone a scopo decompressivo addominale in prevenzione di una possibile occlusione intestinale e/o idronefrosi da compressione ureterale) ne rendeva molto difficile l’assunzione per os (16 mg equivalgono a 256 gtt…).
Come già detto nel post sul dolore anche la terapia antalgica avrebbe potuto essere assunta per os, visto che i dosaggi (60 mg di morfina cloridrato EV / die) non erano sicuramente elevatissimi. Elisa però, venendo da un ricovero ospedaliero dove grazie al posizionamento dell’elastomero con oppioide forte (da cui lei era naive) il suo dolore era sensibilmente migliorato, aveva molta paura di passare di nuovo a terapia per os.
Questo dettaglio non poteva essere trascurato, anche per la regola non scritta, soprattutto al domicilio, per cui è sempre rischioso stravolgere le terapie in atto il primo giorno di presa in carico…
Ci serviva quindi un’altra via di somministrazione diversa da quella endovenosa che ci permettesse di poter somministrare il desametasone a boli e la morfina in continuo, rispettando la volontà di Elisa di non essere bucata tutti giorni, evitandole procedure “eroiche” di ricerca di vene in tutti e quattro gli arti e tantomeno ulteriori viaggi in ospedale per riposizionare un CVC.
Questa via è la via sottocutanea.
E’ una via molto utilizzata nei decenni passati e caduta in disuso negli anni ’90, tutt’ora utilizzata quasi esclusivamente per la somministrazione di eparina a basso peso molecolare ed insulina, ma che in Cure Palliative rappresenta la via parenterale maggiormente utilizzata per la somministrazione di farmaci a bolo, in infusione continua (CSCI – Continuous SubCutaneous Infusion) e di liquidi (ipodermoclisi).
La ragione principale del suo utilizzo è l’impossibilità ad usare la via orale per le seguenti ragioni:
- disfagia (neurologica o meccanica)
- nausea e vomito, soprattutto in quadri di (sub)occlusione intestinale
- malassorbimento (ad esempio resezioni gastrointestinali, insufficienza epatopancreatica)
- scarsa compliance del paziente alla terapia (deficit cognitivi, preferenze personali) o impossibilità del caregiver a gestire una terapia per os ad orario
- necessità di avere una via di assorbimento di farmaci al bisogno (ad esempio morfina a rapido rilascio) più rapida di quella orale ed utilizzabile senza rischi da caregiver “laici”
- quadro di end of life (prognosi attesa inferiore ai 15 giorni), in cui la compliance per os diventa sempre più discontinua
Nel caso di Elisa la scelta è stata quasi obbligata: esclusa la via venosa e tantomeno quella intramuscolare, abbiamo passato l’IPP (la cui forma orodispersibile le era da sempre particolarmente gradita) ed il fenobarbitale per os, mentre desametasone e morfina in continuo sono passati per via sottocutanea.
Il maggiore vantaggio al domicilio della via sottocutanea sta nella sua facilità di utilizzo, con una brevissima curva di apprendimento, da parte del caregiver laico (i genitori ed il fratello di Elisa) per la somministrazione sia della terapia ad orario senza l’intervento dell’infermiere (“Questo sabato vorrei poter andare a fare colazione al bar con le mie amiche e non posso aspettare che arrivi l’infermiere, magari il desametasone me lo fa mia mamma”), sia soprattutto della terapia per sintomi attesi (ad esempio la morfina per dolore o dispnea, l’aloperidolo per la nausea o delirium, addirittura il midazolam per l’eventuale crisi comiziale), per la quale non è possibile attendere un intervento esterno e per la quale sarebbe troppo rischioso affidarsi ad un non professionista per l’utilizzo di un accesso venoso.
La via sottocutanea permette inoltre un mantenimento di concentrazioni plasmatiche di farmaci analoghe a quelle ottenibili con una infusione endovenosa in continuo, alla luce della estesa vascolarizzazione sanguigna e linfatica del derma e dell’ipoderma.
Questa concentrazione è mantenibile non solo con la infusione continua (elastomero o microinfusore) ma anche con pari efficacia tramite boli ripetuti “a orario”, sommistrabili dal caregiver.
Ma come si imposta tecnicamente una terapia sottocutanea a boli (desametasone) ed in continuo (elastomero/microinfusore con morfina)?
Come via di accesso viene quasi sempre utilizzato un ago a permanenza (generalmente un Angioset 22G, oppure, se non necessaria una terapia in continuo, un semplice Angiocath 22-24G), per evitare fastidiose ripetute iniezioni, che viene posizionato in un’area di cute provvista di pannicolo adiposo.
La scelta del sito d’iniezione dipende dalla comodità del paziente, dalla sua autonomia e dalle alterazioni cognitive che lo stesso presenta.
Le sedi principali sono le seguenti:
- parte superiore delle cosce (di più frequente utilizzo)
- regione deltoidea (non usare le braccia per ipodermoclisi)
- addome, all’infuori di una circonferenza di circa 4 dita attorno all’ombelico
- parte anteriore del torace (sotto le clavicole), evitando il tessuto mammario e la zona intercostale (rischio di pneumotorace)
- zona dorsale periscapolare (utilizzata come alternativa se rischio auto-rimozione o dislocazione dell’ago in pazienti non collaboranti)
Al contrario sono da evitare:
- prominenze ossee, aree in prossimità di un’articolazione, pieghe cutanee (ad es. l’area sottomammaria)
- aree edematose in cui il drenaggio linfatico e venoso sia compromesso (ad esempio sarà da evitare di utilizzare la coscia di un arto inferiore linfoedematoso per compressione neoplastica a livello inguinale)
- aree con lesioni di continuo della cute, aree di cute infiammata, aree di infiltrazione neoplastica, aree cicatriziali/fibrotiche (ad esempio da esiti di radioterapia)
- siti di infezioni
- sede addominale se presente ascite
- aree in cui il paziente abitualmente decombe.
L’ago viene posizionato con una angolazione di circa 30 gradi e mantenuto in sede con del semplice cerotto, preferibilmente trasparente tipo Tegaderm per monitorare il sito di infusione.
Questo ago potrà quindi essere raccordato ad un elastomero o un microinfusore per la terapia in continuo, oppure potrà essere utilizzato per la terapia a boli ripetuti e/o estemporanei per sintomi attesi (terapia “al bisogno”).
La tecnica per il bolo singolo è particolarmente importante poiché deve essere insegnata al caregiver laico che si occuperà di gestirla autonomamente al domicilio.
Questa consiste semplicemente nel raccordare la siringa all’ago (oppure bucare con l’ago della siringa il tappino perforabile dell’angioset/angiocath se presente) e somministrare il farmaco non diluito.
Successivamente, se si utilizza un angioset o un altro dispositivo con un cateterino esterno, è fondamentale effettuare un lavaggio con circa 0,3-0,5 cc di Soluzione Fisiologica (o in sua assenza con un boletto di circa 1 cc di aria) per lavare (flush) il cateterino in modo che parte del farmaco somministrato (circa il 30% per boli di 1 cc, come ad esempio per una fiala di morfina) non rimanga nello spazio morto e quindi non venga assorbito.
E’ normale vedere un ponfetto nella sede di somministrazione, che però dovrà riassorbirsi nel giro di qualche minuto.
Generalmente la capacità massima di assorbimento della via sottocutanea è di 2 -2,5 cc / ora. Si dovrà quindi fare attenzione in caso di terapia in continuo + boli ripetuti e non superare ripetutamente tale quantità. In alternativa è possibile posizionare un secondo ago sottocute in modo da averne uno per la terapia in continuo e uno per quella per sintomi attesi.
Per quanto riguarda invece le infusioni di liquidi in ipodermoclisi, per le quali gli unici liquidi somministrabili sono soluzione fisiologica o ipotonica o glucosata al 5%, sarà necessario utilizzare un ago dedicato, cambiare la sede ogni giorno e titolare la quantità (massimo un litro e mezzo al giorno) e la velocità (massimo 90 ml/h) dei liquidi infusi monitorandone l’assorbimento (è normale il formarsi anche qui di una raccolta sottocutanea che dovrà pero’ riassorbirsi nel giro di qualche ora).
Due paure tipiche del caregiver al momento di imparare ad utilizzare la via sottocutanea sono quella di dover utilizzare aghi per “bucare” il paziente (e qui verrà rassicurato dal poter connettere la siringa all’ago con un raccordo tipo Luer Lock o Clave Connector), oppure quella di sbagliarsi ed iniettare una bolla d’aria (e qui basterà spiegare l’innocuità di un bolo di aria sottocute).
Quasi tutti i farmaci sono somministrabili per via sottocutanea, anche se la maggior parte di essi viene utilizzata per tale via di somministrazione in Off Label (impiego di farmaci per indicazioni, vie di somministrazione, posologia diverse da quelle indicate in scheda tecnica, cosa che peraltro avviene quotidianamente in Cure Palliative).
Questo non significa che ne venga fatto un uso improprio: vengono infatti sempre comunque soddisfatte le tre condizioni per il loro utilizzo: il consenso informato del paziente, una non praticabilità di altre alternative terapeutiche e l’esistenza di evidenze scientifiche circa il loro utilizzo.
I farmaci più comunemente utilizzati per via sottocutanea in Cure Palliative sono i seguenti:
- morfina cloridrato (con un rapporto di conversione di 1/2 della dose equivalente per via orale – 60 mg per os equivalgono a 30 mg sottocute)
- altri oppioidi come (in ordine di frequenza di utilizzo) tramadolo (rapporto di conversione 3/2), metadone (2/1), buprenorfina (4/3)
- desametasone ed in misura molto minore betametasone e metilprednisolone
- antiemetici come metoclopramide, levosulpiride, alizapride, ciclizina (non in vendita in Italia)
- aloperidolo e levomepromazina (non in vendita in Italia) a scopo antipsicotico ed antiemetico
- scopolamina butilbromuro (utilizzato “doppiamente off label” per via di somministrazione ed indicazione nelle secrezioni delle alte vie aeree o “rantolo terminale”)
- midazolam, delorazepam, lorazepam
- furosemide (con forte tendenza a precipitare e quindi con la necessità di utilizzare un ago o una sede di iniezione dedicata)
- octreotide (utilizzata nel trattamento del vomito nell’occlusione intestinale alta)
- fenobarbitale come unico anticomiziale somministrabile sottocute, pur provocando frequentemente sensazione di bruciore.
Meno forti e più aneddotiche sono le evidenze circa l’utilizzo di FANS (ketorolac, indometacina e ketoprofene), ranitidina, IPP e ketamina.
I farmaci che invece non possono essere somministrati per via sottocutanea a causa del loro forte potere irritante sono le fenotiazine (promazina e clorpromazina) ed il diazepam.
Non tutti i farmaci possono inoltre essere miscelati all’interno dello stesso microinfusore o elastomero per somministrazione in continuo per il rischio di incompatibilità fisica (cristallizzazioni, opalescenze, alterazioni del colore) o farmacologica. Anche il tipo di solvente (soluzione fisiologica vs acqua per preparazioni iniettabili) varia a seconda del farmaco o del presidio utilizzato.
Un elenco completo e continuamente aggiornato di tali compatibilità può essere trovato sul sito www.palliativedrugs.com (a pagamento…).
Subito dopo avere impostato la terapia tramite microinfusore per via sottocutanea Elisa era riuscita a mantenere un buon controllo del dolore, con ricorso a dose rescue, anch’essa sottocute, meno di una volta al giorno.
Dopo pochi giorni però il dolore aveva iniziato improvvisamente ad aumentare, richiedendo ogni giorno aumenti del dosaggio di morfina senza che questi portassero alcun beneficio.
Cosa stava accadendo?
Purtroppo (o per fortuna) il dolore non era una manifestazione di una progressione di malattia, ma semplicemente di un problema “tecnico” abbastanza frequente legato alla terapia sottocute, del quale non ci si era accorti in tempo…
Andando a vedere il sito di infusione del microinfusore sottocute abbiamo notato un indurimento ed arrossamento della cute, che era anche intensamente dolorabile in tal sede. Questo “durone” aveva impedito negli ultimi giorni l’assorbimento della morfina, togliendo di fatto ad Elisa una gran parte della sua terapia ATC (around the clock), mentre noi pensavamo che stesse diventando refrattaria…
Il modo per evitare questi problemi è un quotidiano e attento monitoraggio del sito di infusione, soprattutto per terapie in continuo con miscele di più di due farmaci ad alta concentrazione, ricercando segni di arrossamento, indurimento (granulomi), edema, dolore o bruciore, fuoriuscita di farmaco e verificando ovviamente anche che l’ago sia sempre in sede.
In caso di presenza di anche solo uno di questi segni l’ago e la sede di infusione andranno cambiati. In assenza di tali segni, un angioset sottocutaneo può essere mantenuto in sede ed utilizzato anche fino a 7 giorni consecutivi.
Monitorando assiduamente il sito di infusione inoltre può essere valutato anche il grado di assorbimento dei farmaci da parte del sottocutaneo del paziente, portandoci a rimodulare la velocità di infusione in continuo.
Altri effetti collaterali della via sottocutanea sono praticamente inesistenti (salvo una intolleranza innata da parte del paziente) in presenza di un assiduo monitoraggio del sito di infusione.
Le uniche controindicazioni assolute sono invece lo stato anasarcatico ed alterazioni della coagulazione.
Elisa, una volta sostituito l’ago e la sede di somministrazione della terapia, ha raggiunto un buon compenso e ha passato una bellissima… ultima serata in famiglia.
Si è infatti spenta la stessa notte per una emorragia intralesionale cerebrale.
In conclusione la via sottocutanea è una via sicura (utilizzabile anche da non professionisti), efficace (analoga efficacia rispetto alle vie orale ed endovenosa) ed economica (risparmio nell’utilizzo di presidi ad alto costo come CVC, oppure di meno frequente necessità di sostituzione di presidi a medio-basso costo, senza contare il risparmio di fastidio per il paziente).
Forse gli unici svantaggi rispetto alla via endovenosa sono un minor numero di farmaci utilizzabili ed un più lungo periodo di onset degli effetti farmacologici dopo terapia a bolo.
Mi chiedo come mai questa via non venga utilizzata maggiormente anche in setting diversi dalla Cure Palliative…
– Abitudine?
– Aspettative del paziente? Una “puntura” intramuscolare o “una flebo” ev hanno un maggiore effetto placebo (sul paziente ma anche sul medico…) rispetto ad una iniezione sottocute o tantomeno ad una compressa assunta per os?
Un’altro aspetto fondamentale è l’integrazione del punto di vista medico con quello infermieristico. Quest’ultimo è molto più vicino al paziente e fornisce in particolare vitali informazioni anche per quanto riguarda la decisione della via di somministrazione della terapia.
Questo per poter assumere un approccio non più reattivo (agisco come conseguenza di quello che accade) ma proattivo: pianificando le mie azioni in base a quello che mi aspetto possa accadere.
Tutto ciò non può che dipendere da una buona capacità prognostica e soprattutto da una aperta comunicazione con il paziente circa i suoi obiettivi di cura, così da evitare il caso di Mario (altro nome di fantasia…) che ha sprecato la sua penultima giornata di vita in ospedale a posizionare un Port-a-cath…
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Articolo stupendo malgrado l epilogo. Un po piu di buon senso, come lo intende lei dottore, aiuterebbe tante persone a non “sprecare” del tempo preziosissimo quando non è il momento…..
Complimenti, post molto interessante. Avere vie alternative di somministrazione dei farmaci è prezioso per medici ed infermieri d’emergenza.urgenza. Nella nostra esperienza in pre-hospital e P.S., troviamo insostituibile la via intranasale con MAD per la somministrazione di midazolam, fentanyl, morfina, ketamina a scopo analgesico (ma noi no ce l’abbiamo) e gli anatagonisti. Cosa ne pensi?
Grazie per l’interesse ed i commenti.
La via intranasale è sicuramente più rapida di quella sottocutanea.
In Cure Palliative inizia ad essere sempre più considerata, soprattutto nel paziente pediatrico. Rimane il problema del suo utilizzo e gestione al domicilio da parte del caregiver laico (con relativi curve di apprendimento e costi dei dispositivi, ma non avendone conoscenza diretta non posso fare confronti con il sottocute).
Sono uscite da qualche anno formulazioni intranasali pre-preparate di fentanyl (con però indicazione AIFA esclusiva per il dolore oncologico e a costi non bassi) per essere utilizzate al domicilio da caregiver laici o pazienti stessi, ma anche questi hanno avuto poco successo, soprattutto se confrontati con i loro “cugini” ad assorbimento sublinguale/transmucosale (anch’essi però con la stessa discutibile limitazione al solo dolore oncologico…).
E anche quest’ultima via, che tutti abbiamo utilizzato off label almeno una volta, meriterebbe forse più attenzione…
Bell’articolo davvero, ma ogni volta che ne leggo di simili capisco quanta strada c’è ancora da percorrere per far capire ai colleghi che da un atteggiamento decisionale “reattivo” si dovrebbe passare ad uno “proattivo”. Mi piacerebbe, come impiantatore di PICC e Midline, potermi sedere ad un tavolo con il medico prescrittore di terapia e con il paziente per poter decidere TUTTI INSIEME il dispositivo più giusto sia per la terapia ma anche per il paziente.
Perdonatemi un’ultima chiosa, ricordiamo che per gli accessi venosi periferici esiste uno strumento che permette di vedere dove si sta andando:l’ecografo.
Vorrei sapere cosa ne sai dell’utilizzo del diclofenac a boli sottocutanei come antipiretico.
Ciao e grazie.
Non ho esperienza diretta dell’uso di diclofenac sottocutaneo a scopo antipiretico.
Tendiamo a non utilizzare FANS per via sottocutanea per le loro formulazioni ad alti volumi (2-3 cc o piu’ per fiala, anche se e’ uscita recententemente una formulazione di diclofenac in maggiore concentrazione apposta per il sottocute, che pero’ non ho ancora avuto modo di sperimentare), il loro potere irritativo e la loro scarsa compatibilita’ in elastomero o pompa siringa con altri farmaci.
A scopo antipiretico tendiamo ad utilizzare invece il paracetamolo e lo steroide.
Spesso pero’, soprattutto in pazienti in end of life e quindi con possibilita’ esclusiva di terapia sottocutanea, la febbre e’ asintomatica (spesso ad origine centrale) e quindi tendiamo a non trattarla in maniera aggressiva, privilegiando presidi assistenziali (ghiaccio ecc) e soprattutto il dialogo con il caregiver per evitare l’insorgere di ansie inutii.
Sono curioso di conoscere la tua esperienza, a presto
ottimo articolo
una curiosità riguardo alla infusione in continuo; 90 ml/h non è un volume eccessivo?
90 ml:60Min. = 1,5 ml/min.
Ciao Andrea,
i 90 ml/h (30 gtt/min) sono la velocita’ massima di infusione (ovviamente non in continuo nelle 24 ore, cosa non possibile nell’ipodermoclisi) che nella mia esperienza e’ ben tollerata (anche in pz cachettici) per volumi di massimo 500cc.
Quello che succede e’ il formarsi di una raccolta di liquido sottocutanea nel sito di infusione (noi prediligiamo la coscia se non ci sono controindicazioni) che si riassorbe pian piano dopo la fine dell’infusione nel giro di qualche ora. Se la quantita’ da infondere e’ maggiore (fino ad un massimo di 1500 cc per la letteratura, 1000 per la mia esperienza) e’ preferibile usare due siti di infusione diversi.
Ovviamente e’ importante monitorare la raccolta sottocutanea e, nel caso non si riassorba nel giro di quache ora, e’ utile valutare una riduzione della quantita’ e/o della velocita’ di infusione (e/o dell’opportunita’ di idratare il paziente, ma qui si ritorna al discorso del mio primo post https://www.empillsblog.com/2014/02/19/vorrete-mica-farlo-morire-di-sete/).
Spero di essere stato utile, a presto
Ok chiarito il dubbio….lavoro in un servizio di cure palliative e questa via di infusione la usiamo quotidianamente con grande beneficio x i ns pazienti….grazie
E’ possibile usare il fenobarbitale sottocute? ho letto in proposito indicazioni contrastanti e ho più dubbi di prima… Sai dirmi qualcosa di più?
Grazie
Sì è possibile, l’assorbimento, vista la natura oleosa, è più lento rispetto alla via ev o im, ma l’efficacia anticomiziale è sovrapponibile. Unica controindicazione è il possibile bruciore in sede di somministrazione, risolvibile con l’applicazione topica preventiva di anestetico locale topico. Spero di esser stato utile a presto
Ma il fenobarbitale si somministra sottocute in bolo così come e o e’ meglio diluirlo e quindi metterlo in un elastomero?
Grazie ancora
La somministrazione può essere fatta a bolo
Iniziato da poco a lavorare in Hospice, mi piacerebbe trovare materiale per la diluizione dei farmaci, usando giornalmente le pompe cadd.
Meglio Fisiologica oppure acqua ppi?
Ciao, grazie per l’interesse anche a cosi’ tanti anni dalla pubblicazione…
Normalmente, anche per comodita’, come diluizione si usa soluzione fisiologica, anche se in molte pompe elastomeriche la velocita’ di infusione e’ garantita e tarata usando glucosata al 5% o acqua per preparazioni iniettabili. Nei microinfusori (tipo Cane’) si utilizza soluzioen fisiologica. Il problema e’ che l’indicazione “da bugiardino” non tiene conto della presenza dei farmaci da diluire. L’importante e’ quindi verificare la compatibilita’ dei farmaci e del solvente, mettendo in conto, soprattutto per gli elastomeri, di eventuali rallentamenti o accellerazioni della velocita’ di infusione.
Una risorsa molto interessante per tutti questi argomenti e’ il sito palliativedrugs.com.
Fammi sapere se hai bisogno di altre informazioni.
Molto interessante
grazie
Bellissimo articolo grazie mille!
La via ipodermica si utilizza molto anche in RSA, nell’anziano, per supportare L’ idratazione orale .
Vedo che alcuni infermieri posizionano l’accesso venoso con direzione verso il basso . Pur non trattandosi di somministrazione ev , non è opportuno , per buona pratica , direzionare l’ago secondo il ritorno venoso?
Grazie
Ciao,
Per rispondere ho chiesto anche al nostro gruppo infermieristico. Al momento non ci sono evidenze circa la necessità di “direzionare” l’angioset per la somministrazione di terapia sottocutanea in un particolare verso.