L’eclissi, il momento in cui realizzi che non esiste un lato oscuro della medicina d’emergenza, ma è tutta oscura.
L’eclissi, il momento in cui tante persone capaci decidono di abbandonare questo lavoro perché vinte dai vari elementi affrontati e osservati nei post precedenti: la mancanza perenne di riconoscimento e gratitudine, il burn out, l’ossessione per il tempo, la violenza, il contesto perennemente caotico e sovraffollato.
Ma in realtà, a ben vedere, questo è un problema ancora trascurabile, seppure importante, e sicuramente si dovrà lavorare molto per cambiare le cose: migliorare la sicurezza dei professionisti dell’emergenza, contemplare un sistema retributivo differente, tutelare il sistema dell’emergenza grazie a norme e leggi pensate da chi conosce il sistema stesso, e garantire un adeguato turnover, anche interno al reparto, per permettere ai colleghi senior un alleggerimento del carico di lavoro.
No, non “figura”. Devo utilizzare un termine migliore, più forte, più importante.
“Identità”.
Cosa è un medico d’emergenza-urgenza? Di cosa si occupa? Qual è la sua Identità?
Attenzione, non mi riferisco solo ai neospecialisti o ai futuri specialisti, ma anche a chi ha conquistato questa identità lavorando sul campo, coltivando un orto con passione, recuperando quello che veniva lasciato dalle altre specializzazioni, mettendolo in ordine, curandolo con passione e dedizione, per farlo brillare e – a questo punto – renderlo nuovamente appetibile dalle altre specialità.
Che ora vorrebbero recuperarlo.
Ripeto: non parliamo di etichette, e l’interesse primario è sempre il paziente: è evidente, il medico d’emergenza-urgenza non è né si deve sentire superman, come accennato nel primo post della serie, e sarà inevitabile talvolta consultare uno specialista per situazioni particolari o per fugare un dubbio, ma questo non deve essere la regola. Se il medico d’emergenza non può valutare un ECG, non potrà prendere decisioni rapide in un paziente critico; se non potrà utilizzare sedativi o analgesici come il fentanyl (perché è questo che viene richiesto da alcune parti del mondo anestesiologico) ci rimetterà il paziente, magari un politraumatizzato sul territorio (e conosciamo bene gli impatti emodinamici dell’oligoanalgesia ed i rischi sull’outcome stesso del paziente); e gli esempi possono essere numerosi.
Quindi l’identità del medico d’emergenza deve essere forte, e tutelata, per tutelare i pazienti stessi. Parliamo di dolore: chi è il massimo esperto di dolore? Il terapista del dolore, ovvio. Eppure, quale figura professionale osserva, valuta, gestisce il maggior numero di pazienti con dolore in tutto l’ospedale? Il medico d’emergenza-urgenza: se consideriamo che fino al 70% dei motivi di accesso in pronto soccorso è per una qualche forma di dolore, significa che ogni medico di pronto soccorso visita e (si spera) cura, ogni anno, più di 1000-1500 pazienti con un dolore acuto (o cronico riacutizzato).
Medico di medicina d’emergenza, medico di pronto soccorso, medico del territorio, medico dell’OBI: l’identità deve prevedere un terreno comune, ed uno scambio continuo di competenze, per essere davvero uniti e forti. Ho ormai appurato che gli organici più forti e coesi sono quelli in cui si svolgono diverse mansioni: così si apprende un linguaggio comune, e così si fanno proprie le diverse problematiche organizzative e di lavoro, evitando contenziosi, e prendendo decisioni condivise e comuni. Non dovremmo tollerare organici separati.
Quindi, per evitare l’eclissi dobbiamo difendere la nostra identità professionale, le nostre competenze e saper però anche riconoscere i nostri inevitabili limiti: nessun MEU è superman, anche se talvolta gli verrà richiesto; e come scriveva John Donne, “nessun uomo è un’isola”, e nessun medico d’emergenza-urgenza, o di pronto soccorso, o del territorio, dovrebbe sentirsi isolato da una rete che arriva fino ai reparti dell’ospedale.
(the end)
Post Scriptum: qualcuno conosce il mio “strano” interesse per i titoli di coda. Rendono onore a tutte le persone che in qualche rendono possibile la riuscita di un film. In questa serie di post ho quasi sempre parlato di medico dell’emergenza-urgenza perché parlavo di me; qualche volta ho parlato anche di infermieri, e raramente ho citato gli OSS. In realtà, il nostro è un lavoro in team, e solo il team (in cui tutti gli attori hanno un ruolo e pari importanza) può ottenere un risultato, e solo un team può crescere e migliorarsi: è forse uno degli aspetti più belli del lavoro dell’emergenza.
Ringraziamenti: volevo ringraziare Carlo D’Apuzzo, per aver creato questo blog e per aver creduto in questa serie di post; i miei colleghi ed amici del gruppo SAU, dai quali ho preso molti spunti per queste righe: Fabio De Iaco (anche per la metafora del faro nella notte), Mario Guarino (che condivide con me la passione per i Pink Floyd), Enrico Gandolfo, Maria Paola Saggese, Gaetano Diricatti; tutto lo staff del pronto soccorso di Savona, che ha vissuto i miei primi dieci anni di medico MEU sopportando (tra l’altro) anche la genesi di questi post, e Roberto Lerza, per il suo continuo aiuto e per avermi “salvato” da una carriera da internista e avermi permesso di diventare un medico d’emergenza-urgenza.
Mi farebbe davvero piacere leggere nei vostri commenti cosa rappresenta per voi la medicina d’emergenza-urgenza, quali lati oscuri trovate insostenibili, e cosa invece trovate stimolante e positivo…
bellissimo il tono calmo e rassicurante dell’articolo. nel caos del lavoro quotidiano, le Sue riflessioni sono faro di luce. grazie.
Grazie davvero di questo commento!
Grazie per l’arricchimento che i vostri articoli elargiscono permettendo anche di confrontarsi . Anna Maria Costa medico PS ASTIa
complimenti ,parlavo proprio oggi con una collega finlandese della grande considerazione e autonomia del medici d’urgenza emergenza che agiscono nel suo paese ,lei ne fa parte.ti chiedo scusa se ti rubo dello spazio.indirizzami dove acquistare evidence based physical diagnosis di STEVEN MC GEE GRAZIE
Alessandro con questa serie di post hai fatto centro, hai fatto breccia nel cuore di tutti… la Medicina d’Urgenza è una brutta bestia, è un lavoro bello e dannato. Una grande stronza. Certi giorni sono innamorato del mio lavoro e penso che mi romperebbe davvero le scatole andare a lavorare in un reparto, certi altri darei fuoco alle polveri. Credo che il mio livello di stress e di burn-out sia direttamente proporzionale alla quantità di pazienti PS, alla discrepanza tra quello che vorrei/saprei fare e quello che riesco a fare, ai consulenti che rimpallano sempre con estrema classe. E’ incredibile la quantità di vita che vedi passare per il PS, la quantità di esperienze, di aneddoti, di dolore e di gioia che incontri… qualcosa di sconvolgente che mi fa sempre paura. L’unico lavoro in cui vedi così tanta gente è il cassiere del supermercato… ma in quel caso hai meno responsabilità.
Leggerti fa bene al cuore, Alessandro. Grazie mille
… and if I show you my dark side… will you still hold me tonight?
Come una cassiera! Mauro, sei unico! Grazie del tuo commento! Comunque, ti svelo una cosa: l’idea di un post sulla medicina d’emergenza (che poi è diventata una serie, complice The Dark Side of the Moon) mi è nata leggendo il tuo magnifico post “Vento a Tindari”, che a mio avviso rimane il più bello mai pubblicato su Empills…