Sì avete letto bene. Il riferimento è proprio al film fantascientifico di qualche anno fa. Immagino cosa pensiate: ho completamente sbroccato. Non è escluso. Tuttavia cercherò di spiegare cosa possibilmente abbia a che fare questa bellissima pellicola del 1995 con l’embolia polmonare. È stato pubblicato uno studio retrospettivo da cui è emerso che sino ad un terzo dei casi di embolia polmonare sono mancati in Pronto Soccorso. Prima che questo lavoro divenga il nuovo mantra sulla necessità di sospettare la tromboembolia polmonare in chicchessia varchi le soglie del PS, vorrei fare una riflessione sull’attendibilità dei dati ottenuti quando si estraggono informazioni frammentarie dal passato, come accade negli studi retrospettivi e capitava appunto a Bruce Willis protagonista del film. Innanzitutto, per le mie capacità di giudizio, si tratta di uno studio ben impostato, la cui discussione è equilibrata e in larga parte condivisibile. Riporta l’attenzione su una patologia per la quale, stando alle conclusioni degli autori, nonostante le attuali strategie, si riscontra ancora frequentemente un alto tasso di fallimento diagnostico.
1/3 of ED Pts w PE are misdiagnosed. Chronic lung conditions contributed to the delay in diagnosis. http://t.co/43tW11Owtz — Gemma Morabito (@MedEmIt) October 9, 2013
Questi studi hanno implicitamente una forte risonanza. Sapere che una patologia temuta come l’embolia polmonare ci passa sotto il naso così frequentemente è di per sé preoccupante. Tuttavia la dimensione allarmistica di un tale riscontro spesso tende a prendere il sopravvento sul peso reale dell’evidenza scientifica da cui deriva.
Vorrei dichiarare sin da ora la mia opinione: questo studio, che pure reputo ben fatto, non cambierà il mio atteggiamento clinico e penso non dovrebbe cambiarlo in nessuno di noi Medici d’Urgenza.
I dati di quest’articolo evidenziano, come altri studi precedenti, che la mancata diagnosi si associa a presentazioni atipiche e, più frequentemente, alla concomitante presenza di altre patologie. Comprensibilmente il riscontro di un addensamento alla radiografia del torace o la presenza di patologie come asma, insufficienza cardiaca e BPCO, è collegato al ritardo nella diagnosi ed all’erronea esclusione dell’embolia polmonare dalla diagnostica differenziale. Sono condizioni che di per sé possono giustificare i sintomi del paziente e pertanto spingono a non perseguire la ricerca dell’embolia polmonare. Sebbene l’associazione non equivalga a causa, è ragionevole pensare che questi elementi siano implicati nel portare il medico del Pronto Soccorso fuori strada e potrebbero spiegare l’elevata percentuale di errore riscontrata. In effetti, anche la precedente letteratura aveva portato in evidenza questi aspetti, quindi del vero ci deve essere. Si trattava quasi invariabilmente di studi retrospettivi, ad eccezione di uno studio di Kline del 2007.
[table id=28 /]
Sarei tuttavia cauto nell’affermare che queste ricostruzioni del passato, seppure colgano alcuni aspetti veritieri, siano rappresentative della reale dimensione del problema e, soprattutto, che dimostrino un fallimento delle attuali strategie. L’impossibilità di giungere a conclusioni definitive attraverso i dati estratti da una rivisitazione a posteriori delle cartelle cliniche non è una questione di credi personali, ma un limite intrinseco degli studi retrospettivi caso-controllo. A riprova di ciò nella piramide gerarchica dell’evidenza gli studi retrospettivi stanno alla base, mentre il vertice, oggigiorno, è costituito dagli studi randomizzati controllati e dalle metanalisi.
Nondimeno inserire nel titolo di un articolo il termine studio randomizzato controllato o metanalisi non rende la pubblicazione automaticamente una solida evidenza. Anche in questo caso tutto dipende dall’adeguatezza della metodologia (particolarmente negli studi randomizzati controllati) nonché dalla qualità ed omogeneità dei dati analizzati nelle metanalisi.
Per rimanere sul tema vorrei ricordare che nel 2009 è stata pubblicata una metanalisi che analizzava quanto frequentemente le riacutizzazioni di BPCO fossero in realtà riconducibili ad un’embolia polmonare. Quello studio, che spesso è ricordato in maniera del tutto acritica e incompleta, è abbastanza emblematico del problema che stiamo affrontando. Gli autori della metanalisi concludevano che, guarda caso, un terzo delle BPCO riacutizzate erano dovute ad una tromboembolia polmonare. C’è, nondimeno, un però, che si perde frequentemente nella trasmissione spiccia dello studio. Le popolazioni degli studi inclusi nella revisione non erano omogenee, innanzitutto, in termini di rischio a priori. La maggior parte dei pazienti erano ospedalizzati ed il fatto che il paziente sia ricoverato aumenta di gran lunga il suo rischio di tromboembolia. Non ultimo la prevalenza delle patologie oncologiche era molto variegata passando da circa il 30% al 5% nei diversi gruppi analizzati. L’unico studio di quelli considerati, condotto solo su pazienti afferenti al DEA, aveva una prevalenza di TEP solo del 3.3%. Questo è direi scontato: la popolazione del DEA è altamente indifferenziata e non è paragonabile a quella dei pazienti ospedalizzati che hanno intrinsecamente un rischio più elevato. Coerentemente nella discussione della metanalisi è stata posta l’enfasi sull’elevata prevalenza di embolia polmonare nei pazienti ospedalizzati per esacerbazione di BPCO (ma non in quelli che si rivolgono al DEA). Si prendeva inoltre atto che l’eterogeneità dei dati analizzati non poteva rendere questo riscontro certo. Gli autori, infatti, auspicavano una convalida attraverso uno studio multicentrico su larga scala.
Ritorniamo allo studio in esame.
Per riassumere, in soldoni, i risultati erano i seguenti:
– 436 pazienti dal 2008 al 2011 (dopo esclusione di 10 perché la diagnosi non era fatta con la TC e 6 perché non avevano sintomi associati).
– età media 67.4±18.8 (maschi 49%)
– 33.5% hanno ricevuto una diagnosi tardiva: il 21.5% successivamente al ricovero (in questo caso in DEA era posta una diagnosi errata) e l’11.9% ad un successivo accesso dopo una prima dimissione dal DEA (diagnosi mancata).
– Nei pazienti ospedalizzati, che erano generalmente più anziani e presentavano più comorbidità, i fattori predittivi di diagnosi tardiva erano i seguenti: anamnesi di BPCO/asma, la presenza di tosse e l’assenza di sincope.
– Nei pazienti dimessi dal DEA i fattori predittivi di diagnosi mancata erano i seguenti: assenza di dispnea, la presenza di infiltrati all’Rx del torace, febbre, emottisi e dolore toracico meccanico/pleuritico.
È difficile stabilire quale fosse il rischio a priori di questi pazienti. Nello studio è stato ricostruito il revised Geneva score. Credo che di per sé, sebbene basato su dati oggettivabili, non sia completamente attendibile perché può soffrire dell’incompletezza dei dati riportati nelle cartelle cliniche. Per altro non è uno strumento concepito per un utilizzo a posteriori e avrebbe senso solo se computato dal medico che ha in carico il paziente nel momento in cui mette nella sua diagnostica differenziale l’embolia polmonare. Pertanto non è una parte dello studio su cui personalmente farei grandi considerazioni ed, infatti, non se fa menzione nella discussione. Rispetto ai pazienti con diagnosi corretta di TEP già in PS, i pazienti con diagnosi tardiva durante l’ospedalizzazione e quelli con diagnosi inizialmente mancata, la media dello score non ha sostanziali differenze (5.6 ± 3, 5.3 ± 2.6, e 4.8 ± 2.2 rispettivamente). Questo è un punto fondamentale: non si può affermare che le strategie diagnostiche abbiano un tasso di fallimento elevato se non si è in grado di stabilire se esse siano state applicate in modo corretto o se siano state applicate del tutto. Gli autori correttamente fanno presente questo problema. La valutazione del rischio tromboembolico è centrale a queste strategie diagnostiche e non è specificato nello studio se questo processo clinico decisionale sia stato applicato coerentemente. Quando la strategia è applicata rigorosamente, negli studi prospettici, sappiamo essere affidabile ed è un avanzamento fondamentale della medicina contemporanea. C’è un aspetto che tuttavia è imponderabile e forse è inevitabile. Il prerequisito affinché una strategia di ricerca della TEP venga applicato, è che il medico decida di mettere questa patologia sul banco dei possibili imputati. Questo limite è un difetto non correggibile ma, fortunatamente, è anche un pregio del nostro ruolo che è e sarà, sempre, incentrato sulla necessità di formare un giudizio clinico. Poniamoci alcune domande per capire la rilevanza di questo studio.
Lo studio è originale?
Non particolarmente, esiste altra letteratura come abbiamo visto che ha analizzato lo stesso argomento in contesti analoghi con metodologie sovrapponibili. Aggiunge, tuttavia, informazioni su una problematica che non è ancora stata chiarita adeguatamente e pertanto è potenzialmente utile ai fini di una futura metanalisi.
Quali erano i criteri di inclusione/esclusione?
Sono sicuramente puntuali e, almeno in apparenza, adeguati al tipo di problema analizzato. Sono stati, difatti, inclusi tutti i pazienti con una diagnosi certa di difetto tromboembolico posta attraverso il gold standard odierno: la angioTc. Inoltre sono stati considerati solo i difetti che in base alle caratteristiche radiologiche erano valutati dal radiologo come fatti acuti. Gli autori hanno saggiamente incluso esclusivamente pazienti sintomatici, in modo da evitare i riscontri casuali non correlati alla presentazione clinica. Di per sé i criteri di selezione sono intelligenti. Si basano cionondimeno su un assunto tutto da dimostrare, in altre parole sul fatto che ciò che è riportato in cartella clinica abbia un’attendibilità del 100%. Mi riesce difficile credere che questi aspetti si possano ricostruire con affidabilità dalla rilettura dei dati registrati durante l’attività clinica quotidiana. Sarebbero attendibili solo se raccolti dopo una definizione preventiva, ad esempio, di cosa debba essere interpretato come difetto acuto: è difficile pensare, infatti, che un radiologo alla luce di un difetto subsegmentario si sbilanci sempre nel valutarne la reale rilevanza clinica e che inoltre ci sia concordanza fra radiologi su questi riscontri. Un altro aspetto da considerare è l’inevitabile soggettività nell’attribuire i sintomi del paziente a talune forme di piccoli embolizzazioni periferiche che sono presenti anche in pazienti asintomatici non infrequentemente. Questo è l’aspetto che trovo personalmente più contestabile.
A questo proposito, a costo di ripetermi, è necessario ricordare che è da dimostrare che le embolie polmonari siano tutte uguali, come abbiamo già avuto modo di discutere recentemente. Poca enfasi gli autori hanno posto sul fatto che del 33.5% di diagnosi mancate, il 9.1%, erano difetti subsegmentari unilaterali e che in particolare nei pazienti dimessi dal PS ben il 41% aveva questo tipo di riscontro. Difficile pensare che questa mancata diagnosi possa realmente contribuire alla morbilità e mortalità. Ricapitolando pertanto questo studio coglie alcuni aspetti veritieri della realtà dell’embolia polmonare ma non è in grado di ricostruire la scena nella sua interezza. Similmente questo capitava al protagonista delle dodici scimmie.
Nel film uno stralunato Bruce Willis veniva spedito più volte nel passato da un gruppo di inquietanti scienziati nel tentativo di identificare l’origine di una epidemia virale che aveva decimato l’umanità. Attraverso la rilettura dei giornali dell’epoca questo manipolo di angoscianti luminari aveva ricostruito il verosimile retroscena del principio dell’epidemia. Il tutto si incentrava su frammentarie informazioni riguardanti un gruppo ecorivoluzionari denominato l’esercito delle dodici scimmie. La realtà era lontana dalle loro convinte aspettative. A scoprirlo e farne le spese sarà proprio lo sventurato Bruce Willis che verrà sballottato nel tempo sino a quasi divenire pazzo sulla scorta di una ricostruzione errata della realtà basata su alcuni rapporti lacunosi. Ancora una volta scienziati dotati di potenti mezzi ma privi di metodologia scientifica.
Non vorrei proprio che quest’articolo divenga erroneamente uno stimolo ad incrementare indiscriminatamente la diagnostica. Penso la sua reale valenza stia nel ricordarci il fatto che le strategie diagnostiche devono essere applicate costantemente, incentrando il percorso sulla probabilità clinica a priori. Come talismano contro una eventuale lettura catastrofista qualcuno ha pensato di dare corso a questa mia idea: guardate il video e BUONE FESTE!
Ciao
il video è fantastico!!!!!
Finché non riusciremo a ragionare in un modo diverso, il Dimero ci ucciderà. Per fortuna oggi abbiamo gli strumenti per farlo ma le “catene” sono molto forti.
Complimenti e Buon Anno a tutti
GD
PS: scusate il fuoritema ma non so come contattarvi (tu e Carlo): avrei alcune idee da sottoporvi (così almeno se mi dite che sono cazz….. non ci penso più). La mia mail dovreste averla già (la scrivo nel form per lasciare il commento). Ciao
Gaetano, grazie per il commento. Il D-Dimero è sicuramente utile se applicato nelle basse e medie probabilità. Ci sono due ordini di problemi secondo me.
Il primo è quello che spesso viene utilizzato in sostituzione del ragionamento clinico senza il quale non ha senso. Molti test vengono usati come esche buttate nel lago per vedere se abbocca qualcosa, ma i pesci sono tanti e infatti il test è piuttosto poco specifico.
Il secondo è la variabilità con cui noi medici perseguiamo la ricerca dell’embolia polmonare. Perchè in fin dei conti la prima domanda da porsi è, per citare l’autore di emcrit, sono davvero convinto di dover mettere nella diagnostica differenziale questa patologia? Pubblicazioni come quella offerta del post possono essere erroneamente interpretate come una esortazione a cercare il problema a tappeto, il che è certamente deleterio.
Per quanto riguarda le idee e i suggerimenti ben vengano: direi che sono il succo di tutto quanto rappresenta la FOAM. Ci mettiamo in contatto.
Ciao
il Dimero voleva essere solo una metafora del nostro modo (scorretto) di approcciare il problema diagnostico. Ormai non facciamo test per convalidare (o meno) la nostra ipotesi diagnostica ma facciamo test in modo tale che ci venga data un’ipotesi diagnostica: senza conoscere (di ogni test) il valore predittivo e la probabilità di modificare a priori la mia ipotesi diagnostica, non facciamo medicina difensiva:è suicidio.
Nel caso specifico dell’embolia: oltre al discorso del mettere nella lista delle diagnosi differenziali l’embolia polmonare dobbiamo poi vedere se quella che abbiamo trovato (molte volte piccola, la tua famigerata subsegmentaria del video) possa spiegare in toto la sintomatologia e che provvedimento debbo adottare e se devo per forza intervenire. Voglio dire: la stessa (subdola) embolia polmonare non sarà a sua volta una “grande maschera” che ci nasconde altre patologie, più o meno banali?
Sul lavoro pubblicato: altro grande problema. Ho deciso di affrontarlo in maniera aggressiva nel mio sito (voglio approcciare la letteratura in senso estremamente critico) dopo la sberla presa dalla FAST nella pubblicazione della Cochrane: quel lavoro mi ha fatto (e mi sta facendo) ragionare sulla vera natura della pubblicazione scientifica in ambito medico e credo che una via di uscita sia proprio quella grande cosa che è FOAM.
Un saluto
GD