E’ pomeriggio.
Un consueto inizio turno di un normale pronto soccorso: quel momento in cui, per pochi istanti, si ha come una sospensione del tempo, nel passaggio di consegne tra medici ed infermieri, saluti e scambi di battute.
Lei, Roberta, è una signora di 52 anni, in pronto soccorso per dolore toracico e febbre. Vedo che si guarda intorno e sorride, divertita dalle scene che si svolgono intorno a lei.
Quando mi avvicino per scusarmi della poca serietà del nostro comportamento – penso che il paziente possa sentirsi un estraneo quando si verificano situazioni simili – la paziente sorride ancora.
“Lei, dottore, potrebbe fare qualsiasi cosa. Un anno fa ha visto la milza rotta a mio figlio, caduto in moto. Gli ha salvato la vita.”
La prima reazione è, ovviamente, di piacere e di gratificazione: è ovvio, al di la della retorica e del fatto di aver messo il volto ad un lavoro di un team che ha lavorato bene, un ringraziamento per un lavoro ben fatto è sempre gradito.
Ma in profondità, un tarlo ha iniziato a rodere questo sentimento, e ho faticato un po’ a comprendere perché.
Poi ho capito.
In dieci anni di pronto soccorso era la prima volta che un familiare mi ringraziava in modo così caloroso per qualcosa che avevamo fatto.
Dieci anni, quasi 30.000 pazienti visitati, diverse proteste, numerose aggressioni verbali, una lettera di encomio inviata ad un quotidiano cittadino, ma per la prima volta una parente mi ringraziava per il nostro lavoro, riconoscendo che il nostro intervento aveva davvero cambiato, in meglio, la situazione.
E se queste considerazioni, in parte, mi avevano lasciato un po’ di amaro in bocca, la realizzazione che questi ringraziamenti erano capitati per puro caso (era un caso che la signora fosse in pronto proprio durante il mio turno, era un caso che l’avessi visitata io e non il mio collega), ha fatto accrescere ancora un po’ la mia delusione.
Queste riflessioni ci conducono nella prossima tappa del nostro viaggio nei lati oscuri nella medicina d’emergenza, e a farci da guida, oggi, sarà la quinta canzone di The Dark Side of the Moon: Money.
Parlare di denaro potrebbe apparire scontato: è evidente, i professionisti dell’emergenza non ricevono un adeguato compenso per le loro fatiche. Prendiamo un infermiere, per fare un esempio: è corretto che le responsabilità (non trascurabili) di un infermiere che si occupa di emergenza non vengano riconosciute dal punto di vista economico? Le responsabilità che un infermiere si assume svolgendo un triage, per esempio, o il peso del lavorare in condizioni di emergenza, per reperire accessi vascolari in pazienti critici o in condizioni disagevoli come quando si lavora sul territorio, non ricevono un adeguato riconoscimento retributivo; e per quanto riguarda il medico, è altrettando evidente che il carico di lavoro usurante, per il numero di notti e di turni festivi, abbia pochi confronti con gli altri medici del servizio sanitario nazionale: questo fatto, in aggiunta all’impossibilità ad integrare lo stipendio con dell’attività libero-professionale (che quasi tutti gli altri medici, se non altro, possono svolgere), rende comunque lo stipendio inadeguato al carico di lavoro e di responsabilità.
Queste sono considerazioni ovvie, e sarei populista ad occuparmene in questo post, e rischierei di essere banale.
Infatti vorrei parlare di gratitudine, un’altra forma di “compenso” per il nostro lavoro, un aspetto così trascurato che non ne parla quasi nessun professionista dell’emergenza: siamo così abituati a svolgere il nostro lavoro senza esser in qualche modo notati, che non ci facciamo quasi più caso. E non facendoci caso, non ci rendiamo neppure conto che non ne parliamo quasi mai. Infatti non ho trovato quasi nulla su questo specifico argomento: nessun articolo, nessuna pubblicazione, nessun editoriale o presentazione a qualche congresso. Nulla, o quasi.
Alla fine, infatti, sono riuscito a scovare qualcosa: in un blog di un medico d’emergenza statunitense vengono elencate alcune “lagnanze” (o per dirla alla genovese “mugugni”) di un professionista dell’emergenza, una specie di viaggio nei lati oscuri della medicina d’emergenza da un punto di vista differente: e tra i tanti motivi per lagnarsi (appunto, la retribuzione scarsa, i pasti irregolari, l’assenza di “giorni di neve” come motivo per non doversi recare al lavoro e dover sempre e comunque garantire un servizio), alcuni scherzosi e ironici, il collega chiude con una lagnanza serissima, considerata forse la peggiore: passare del tutto inosservati, svolgere un lavoro duro in grado di aggiustare molte magagne nei pazienti che visitiamo (e, a volte, salvare qualche vita) senza essere notati, senza ricevere alcun ringraziamento, e senza stabilire alcuna relazione con i pazienti e i loro familiari, che passeranno oltre, che stabiliranno relazioni con altri medici (i colleghi dei reparti), e che ringrazieranno altri medici e altri infermieri.
Noi urgentisti, nella nostra trincea, saremo occupati ad aggiustare altre magagne (e magari a salvare, ogni tanto, qualche vita) con altri pazienti, che poi proseguiranno oltre e così via.
Il collega definisce il medico d’emergenza (ma il discorso vale anche per gli infermieri) come “the unsung physician in the hospital”: “unsung”, si può tradurre come trascurato, oscuro, non celebrato. E quindi, siamo i professionisti “oscuri” all’interno dell’ospedale.
Un ulteriore richiamo al lato oscuro della medicina d’emergenza.
Lavoriamo dunque nell’ombra?
Tutt’altro: nei nostri dipartimenti d’emergenza, illuminati a giorno anche di notte, con le notti che sembrano giorno e i giorni che sembrano notte (molte strutture non hanno neppure finestre) siamo sempre sotto i riflettori. Siamo in vetrina, e se è vero che i pazienti non si accorgono del nostro operato quando lavoriamo bene, tutti si rendono immediatamente conto se non ci accorgiamo di qualcosa, o se somministriamo una fiala di furosemide di troppo, o se non abbiamo raggiunto una diagnosi.
Ma questa è un’altra storia: in questo post volevo occuparmi della gratitudine, della nostra invisibilità, del nostro lavoro che non viene quasi mai riconosciuto.
Del fatto che per ricevere una pacca sulla spalla da una mamma di un ragazzo a cui hai forse hai salvato la vita devi sperare di essere in turno quando sarà in pronto soccorso per altri motivi.
Del fatto che, in fondo, non me ne importa nulla e che continuo a pensare che il mio sia il lavoro più bello dell’ospedale, malgrado tutti gli aspetti oscuri di cui ci occupiamo in questo viaggio.
E della gratitudine possiamo imparare a farne a meno. Se ci pensiamo un attimo, quando gestiamo un paziente critico siamo nell’occhio del ciclone, e intorno a noi ruotano vorticosamente innumerevoli emozioni: paura, ansia, dolore; il paziente non si potrà mai rendere conto di noi, i familiari, probabilmente, vorranno dimenticarci perché vorranno lasciarsi alle spalle tutti quei momenti. Ma come ha scritto un lettore, commentando il post citato in precedenza, se possiamo pensare che la nostra presenza non sia percepita, la nostra assenza avrebbe un impatto davvero drammatico.
Come scrisse Antoine de Saint-Exupery ne “Il piccolo principe”,
“Si vede bene solo con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi.”
E forse, a volte, siamo davvero essenziali.
(to be continued)
Caro Alessandro il nostro é il RADIOSO lato oscuro della Medicina
Grazie! È un ottimo spunto, e lo inserirò nel post conclusivo! È una definizione meravigliosa!
Se fosse solo per la mancanza di riconoscimento pazienza. Ogni paziente che respira, ogni colica che molla il morso, ogni cefalea che svanisce, febbre che svapora, diuresi che riprende, alvo che si apre, orecchio che si stura, vertigine che si blocca, ogni paura che si consola per noi è una soddisfazione. Sarebbe bello essere invisibili sempre, e invece quando la procura apre le cartelle il nostro nome e cognome improvvisamente troneggia nitido che l’insegna del supermercato. Improvvisamente la catena di responsabilità dribbla medici di famiglia, specialisti di fiducia, luminari di varia fama e punta dritto sul medico di PS. Complice il fatto che abbiamo la cattiva abitudine di assumerei responsabilità, firmare referti, rispondere delle nostre azioni. Invisibili per il fattorino del pacco di Natale, sempre rintracciabili al casellario giudiziario.
Clizia, hai ragione. A volte il coinvolgimento del medico di emergenza ha delle connotazioni paradossali (pazienti visti mesi prima,per fare un esempio, se ti riferisci a qualcosa di particolare), ma questo è un problema più trasversale, che deve essere sicuramente affrontato e risolto per evitare il lievitare della medicina difensiva
Concordo pienamente! Dopo un turno di rotture di scatole ed incazzature, anche un singolo paziente che sinceramente ti ringrazia, diventa come un colpo di spugna per tutto il resto.
È uno degli aspetti più belli del nostro strano lavoro: invisibili, sì, ma presenti per molti pazienti che altrimenti non avrebbero risposta (gli anziani, le persone fragili) e che sono spesso coloro che ci ringraziano. Hai proprio ragione!
È bello leggere tanta passione e amore per il proprio lavoro. Non è scontato , anzi. Peraltro un lavoro , il vostro, così importante quanto bistrattato. Importante perché il PS è il secondo anello della catena dopo il 118 , e nell’abituale casino che solitamente regna nelle vostre sale con tanti codici e vari casi, non è facile gestire il rosso o il giallo che arriva, e necessita di rapido inquadramento , di primi trattamenti e quindi indirizzamento verso il reparto/specialisti giusti. Pochi si ricordano di dire anche un semplice grazie. Troppi pretendono e considerano il medico come un impiegato di un certo servizio. In pronto soccorso questo è ancora più accentuato. Ma quei rari “grazie” , quando li ricevi, riempiono davvero la giornata di gioia e ti danno l’energia per andare avanti.
Arianna, perdona il gioco di parole, ma di fronte a questo tuo bellissimo commento non posso che dire “grazie”. E peraltro, il tuo riferimento ad una catena mi fa pensare che un semplice “grazie” può essere scambiato anche tra i professionisti dell’emergenza, sia nell’ambito del pronto soccorso tra medico ed infermiere quando si lavora bene o ci si aiuta, e sia nell’ambito dei vari anelli della catena, tra il pronto soccorso e il territorio, e tra il pronto soccorso e la rianimazione, per esempio, quando un collega ti aiuta a gestire una situazione complessa o ti toglie una castagna dal fuoco… Si crea un team, e se il team è affiatato e c’è rispetto, il lavoro è più leggero, divertente, e chi ci guadagna non sono solo i professionisti, ma anche – e soprattutto – il paziente
Caro Alessandro, il nostro è il lavoro più bello del mondo perché, come il lato oscuro della luna, siamo invisibili ma necessari a dare risalto al visibile.
Siamo il lato oscuro perché proprio lì si trovano i nostri pazienti e il nostro compito è cercare di riportarli verso il lato luminoso dove altri continueranno a curarli
Erika, il tuo commento vale un post, e anticipa parte dei temi del post conclusivo di questa serie. Però, The Dark Side of the Moon si chiude con una voce appena appena udibile, che afferma: “Non esiste il lato oscuro della luna. In realtà, è tutta oscura” (“There is no dark side of the moon, really. Matter of fact, it’s all dark”). Io credo che si possa applicare anche alla nostra metafora, ma capovolgendola, come ha scritto Ciccio Stea in un commento precedente: il nostro è il RADIOSO lato oscuro della Medicina, e il tuo commento lo lascia intendere in pieno…
Io un “Grazie” sincero vorrei dedicarlo a te Alessandro(se permetti). Mi occupo di emergenza anch’io(da circa 7 anni) e il tuo modo così accademico ma contemporaneamente pratico di affrontare problematiche a noi comuni ti rende onore.
Questa è la medicina d’urgenza che vorrei sempre sentire. E questo è il linguaggio che vorrei si parlasse sempre fra noi medici di ps.Grazie
Sì, il grazie andrebbe scambiato anche tra professionisti quando si collabora. Ma questi “grazie” sono ancora più rari, purtroppo quasi come la vera collaborazione. Ahimè , a mio modesto avviso, è così. Non ho mai capito perché. In fondo siamo tutti nella stessa barca