E’ una domanda che penso sia stata posta almeno una volta ad ognuno di noi da parte di un paziente o di un familiare.
A volte è usata come poco più di un intercalare, ma ci sono occasioni in cui è una vera richiesta di aiuto da parte della persona che ci sta di fronte, in un momento di scelta, terapeutica in senso stretto o meno che sia.
In Cure Palliative la discussione con pazienti e familiari circa diagnosi e percorsi di malattia fino ad allora tenuti “nascosti”, circa approcci terapeutici non più presentati come “salvavita”, quasi sempre porta a trovarsi di fronte la domanda del titolo di questo post (oppure la altrettanto gettonatissima variante “Cosa farebbe se al posto suo ci fosse sua mamma/papà/figlio/figlia?”).
Mi è capitato spesso di ritrovarmi a pensare che decisioni prenderemmo noi operatori se ci trovassimo nella stessa situazione di un nostro paziente. A volte se ne parla in ospedale daventi alle macchinette del caffe’ tra colleghi e le risposte che diamo sono sovrapponibili a quelle dell’infografica che ho trovato qualche tempo fa su Twitter sotto l’hashtag #hpm (hospice & palliative medicine)
I dati di questa infografica si riferiscono al Precursors Study della Johns Hopkins University di Baltimora, uno studio (la cui elaborazione grafica si trova nella tabella sotto) che ha arruolato i laureati in Medicina di questa università dal 1948 al 1964 e ne ha creato un’enorme banca dati medica, da cui sono stati estrapolati in pubblicazioni successive anche questi dati relativi al fine vita.
Ovviamente questi dati non hanno la pretesa di essere rappresentativi di tutta la popolazione medica, essendo limitati ad una ben precisa (e anziana) popolazione, in stile “Framinghamiano”. Questi numeri comunque fanno riflettere.
Sulla stregua del Precursors è uscito recentemente un altro studio: il “Do Unto Others” della Stanford University, nel quale sono state confrontate le risposte di un gruppo di 1081 medici (Urgentisti, Ginecologi, Fisiatri, Pediatri, Internisti, Neurologi, Anatomopatologi, Psichiatri, Radiologi, Chirurghi, Ortopedici e Radioterapisti, tutti impiegati in ospedali universitari) ad un questionario sulle proprie opinioni circa le direttive anticipate ed il fine vita con le risposte date allo stesso questionario nel 1989 dai 770 partecipanti (esclusivamente Internisti e MMG) a questo studio, effettuato prima della approvazione del Patient Self Determination Act, la legge americana riguardo al diritto dei pazienti di fornire direttive anticipate di trattamento.
Le risposte alle singole domande sono nella tabella seguente:
Cio’ che salta subito all’occhio e’ la sostanziale sovrapponibilita’ delle risposte date a 25 anni di distanza. Le uniche differenze statisticamente significative nelle risposte hanno evidenziato, se in presenza di direttive anticipate, una maggiore fiducia nelle proprie decisioni ed una minore preoccupazione di conseguenze legali da parte dei medici del 2013 rispetto a quelli del 1989.
Gli autori vedono questa sostanziale assenza di variazione come un “bicchiere mezzo vuoto”: nonostante siano passati quasi 25 anni dalla promulgazione della legge sulle direttive anticipate, i medici americani ancora appoggiano le loro decisioni alle loro “pratica clinica abituale” anziche’ alle decisioni espresse dei pazienti (dove spesso la mancanza sta addirittura nel non raccogliere le direttive dei pazienti).
Questi dati sono poi stati stratificati per eta’, gruppo etnico e specialita’.
Ne emerge che le donne hanno (anche se di poco) una maggiore sensibilita’ alle direttive anticipate e che la branca specialistica in cui e’ stato registrata la maggiore predisposizione a queste tematiche e’ quella della Medicina d’Urgenza, agli ultimi posti le specialita’ chirurgiche…
Ma la parte ancora piu’ interessante dello studio e’ questa: il gruppo di medici intervistati nel 2013 ha anche risposto ad una domanda “secca”, su un modulo simulato di direttive anticipate, sul volere per se stessi uno status “full code” (prolungare ad ogni costo la propria vita) o “no code” (non prolungare la vita con trattamenti “aggressivi” in caso di malattia non guaribile).
Questa è stata la prima volta che una domanda come questa è stata posta ad un gruppo esteso e variegato di medici, di età anche considerevolmente inferiori a quelli partecipanti al Precursors Study.
Indovinate la risposta…
L’88,3% degli intervistati ha scelto il “no code”.
Ma questo numero si scontra violentemente contro il numero di pazienti che negli ultimi mesi di vita viene sottoposto a trattamenti intensivi, spesso senza aver espresso le proprie direttive al riguardo (interessanti questi due report: su scala nazionale americana e solo californiana).
Questa frase dell’articolo e’ emblematica: “…terminally ill Americans receive care from many sub-specialists in the last six months of life and are subjected to ineffective high-intensity treatments only to die expected deaths from known chronic illnesses”.
Lo studio prova poi a spiegare il perche’ di questo atteggiamento da parte dei medici americani fornendo alcune ipotesi:
1- i medici sono testimoni quotidiani delle sofferenze che trattamenti intensivi e inefficaci procurano nei loro pazienti in fine vita e quindi non vogliono fare loro una fine del genere…
2- i medici tendono sempre ad over-stimare la sopravvivenza attesa dei loro pazienti e quindi non riconoscono in tempo il fine vita (e qui nasce il discorso della necessita’ di migliori strumenti prognostici ed addestrare noi operatori ad utilizzarli…)
3- i medici si sentono in dovere di fornire per default il massimo possibile per tutti, anche se chiaramente spropositato e inefficace, anche per motivi strettamente di “rimborso di prestazione”: viene premiata economicamente una procedura ad alta intensita’ e non una discussione con il paziente ed i familiari circa i goals of care. 1/4 del budget di Medicare e’ speso per pazienti nell’ultimo anno di vita ed il 40% di questo per pazienti negli ultimi 30 giorni di vita (non oso immaginare le cifre relative al nostro paese…).
– L’articolo non cita invece tra le possibili motivazioni la famigerata “medicina difensiva” che, notizia di questi giorni, qui in Italia secondo l’AGENAS ci costa il 10,5% della nostra spesa sanitaria…
COMMENTO PERSONALE
E allora, se come dice lo studio noi medici “predichiamo bene e razzoliamo male”, come fare ad a decidere cosa fare con il paziente che abbiamo davanti, per il quale, se si trattasse di noi o di un nostro parente, non metteremmo in atto procedure invasive/intensive, ma visto che non lo è spesso ci troviamo a dover fare solo perchè “non si può non fare qualcosa”.
(Bellissimo post di qualche giorno fa di Alessandro Riccardi “Credersi un Dio… Tra paternalismo e consenso informato” ed altrettanto interessante la discussione scaturitane).
Forse il problema è culturale, i medici nell’immaginario collettivo sono sempre stati premiati per il loro agire, non per il dialogare con i propri pazienti.
L'”agire” dovrebbe però essere inteso non solo l’atto di trattare il paziente, ma anche il processo dell’esaminare ogni opzione disponibile, compresa quella del non fare nulla. La differenza la fa il coinvolgere il paziente in questo percorso decisionale confrontarsi con lui il più precocemente possibile nel percorso di malattia.
Al contrario di quello che i media (e a volte anche noi medici…) portano la popolazione a pensare (basti pensare al clamore di questi giorni legato alla vicenda di Brittany Maynard, la ragazza affetta da glioblastoma che ha deciso per il suicidio assistito, legale in Oregon), non esiste un aut aut, un bianco o un nero, in caso di malattia inguaribile:
“Morte Eroica” “Lottando Fino alla Fine” “Tra Sofferenze Indicibili” OPPURE Eutanasia
Esistono invece una infinità di gradazioni intermedie di grigio di cui abbiamo il dovere di far conoscere al paziente l’esistenza.
Ed è qui che le Cure Palliative, la Simultaneous Care precoce, diventano una risorsa.
Una risorsa anche per il paziente ad affermare la propria unicita’ in un momento unico della vita: il fine vita. Un momento che tutti vivono una volta sola, ma che noi operatori sanitari viviamo come spettatori tutti i giorni.
Abbiamo quindi il dovere di far conoscere ai nostri pazienti il “dietro le quinte”, dando loro la possibilita’ di avere il maggior numero di informazioni per effettuare le proprie scelte, conoscendo e discutendo pro e contro di tutte le opzioni possibili (tra cui magari un giorno potrà esserci anche l’eutanasia), esattamente come il bravo architetto consiglia i propri clienti nel costruire ed arredare la propria casa nel miglior modo, avendo gia’ sperimentato con altri clienti i pro e contro delle varie soluzioni di arredamento.
Ed è per questo che la discussione precoce con paziente e familiari può aiutarci nel nostro compito di “architetti”.
Precoce, quindi quando i sintomi e i disturbi non si sono ancora presentati. Precoce, quindi auspicabilemente ancora durante il percorso di terapie causali, oppure già alla diagnosi per altre patologie (SLA, glioblastomi, addirittura demenza, ecc) perchè in ogni malattia inguaribile, in modo più marcato o meno, arrivo un momento in cui le terapia causali diventano un burden maggiore della malattia stessa.
Questo concetto di discutere precocemente, “in tempi non sospetti”, si rende ancora più necessario nel nostro paese, dove una legge sulle Direttive Anticipate non c’è (anzi con il rischio qualche anno fa di avere una legge sull’obbligo della nutrizione e idratazione forzata a tutti…) e che quindi espone noi operatori a rischi legali per “non aver fatto”, con uno “stato di necessità” che non si sa bene a chi sta definirlo…
E da qui i grossi problemi a gestire in DEA pazienti in fine vita che non sanno di essere in fine vita: un vero e proprio evento sentinella di un fallimento delle cure palliative, delle medicina territoriale e del sistema sanitario tutto.
A questo scopo sono inutili le cure palliative come tradizionalmente e troppo spesso sono immaginate, quelle che si occupano dell’End of Life (ultimi 15 gg attesi di vita) solo dopo che “non c’è più niente da fare”. Lo sono invece le Cure Palliative Simultanee, attivate precocemente, in parallelo alle terapie causali.
Queste hanno il compito di preparare paziente e familiari psicologicamente praticamente a gestire al domicilio o in luoghi adeguati (non i DEA) i problemi ATTESI che la malattia può provocare.
Ad esempio, una dispnea refrattaria in una SLA è attesa già dalla diagnosi. Prepararsi significa discutere (e ridiscutere giorno dopo giorno) con il paziente di cosa potrà succedere e dei pro e contro delle varie opzioni (trachestomia vs controllo medico della dispnea) ed, in caso di scelta “no code”, preparare tecnicamente la famiglia a gestire il sintomo dispnea al domicilio evitando di ritrovarsi in DEA “d’urgenza” con “l’obbligo legale” di posizionare una trachestomia (dalla quale non cè ritorno, come il caso Welby testimonia…).
Ma come fare a sapere quando, da un punto di vista piu’ strettamemte clinico, attivare le Cure Palliative?
Ci viene in aiuto il Documento Condiviso “Grandi Insufficienze d’organo End Stage: Cure Intensive o Cure Palliative?” elaborato nel 2013 dalla SIAARTI insieme ad altre società scientifiche tra cui SIMEU e SICP (Società Italiana di Cure Palliative).
Ma di queste potremo parlare in un prossimo post…
È un vero piacere leggere @cinghio81 oltre i famosi 140 caratteri di Twitter, così come è stato un piacere leggere il post di Alessandro Riccardi poche settimane fa, come ancora è stato un piacere sentire la relazione di Enrico Gandolfo sul fine vita nel DEA al Congresso Nazionale SIMEU.
I temi di cui trattiamo meritano riflessioni che non possono stare in un commento a un post. Nel corso della sessione SIMEU sul paziente end stage ha parlato anche il Prof. Mori, bioeticista, che in un intervento lucidissimo e sinceramente appassionato ha spronato i medici a gettare la maschera ed a pronunciarsi con forza a proposito dell’eutanasia.
Mi è sembrato quasi di sottrarmi alla sfida quando ho risposto che mi pongo obiettivi molto più miseri, da un punto di vista culturale o filosofico, ma che ritengo ancora più “impellenti” di una discussione, pur sacrosanta, sui massimi sistemi: gli obiettivi della consapevolezza del problema e della competenza sulle pratiche necessarie ad assistere questi pazienti.
Il post di Fabrizio in qualche modo mi dà ragione: l’accesso di un paziente in fine vita al Pronto Soccorso è il segno del fallimento del sistema, così come esistono innumerevoli gradazioni di grigio tra il bianco e il nero dell’essere banalmente pro o contro. E ancora: agire non significa necessariamente accanirsi. Accompagnare, proteggere, garantire diventano facilmente sinonimi di agire, quando parliamo di fine vita, ed anzi riempiono di significati (e spesso di difficoltà) quello stesso agire.
Negli ultimi anni sono diventato, senza alcuna intenzione, un “formatore” in Medicina d’Urgenza, insieme ad alcuni grandissimi amici. Questo ruolo, che avevo sempre rifiutato ritenendolo troppo monotono per un disordinato irrequieto come me, mi ha coinvolto al punto che oggi ragiono continuamente in termini di formazione (seppure con modalità che vengono spesso ritenute “insolite”).
I temi di cui parla Fabrizio sono probabilmente la sfida più ambiziosa che ci stiamo ponendo in campo formativo. Questo post (ma non solo) dimostra che i tempi sono maturi: tra noi c’è dibattito, e le decisioni in fine vita le sentiamo tutti “sulla pelle”.
Quel che dobbiamo fare è alimentare il dibattito, metterci in discussione, ma allo stesso tempo iniziare ad agire (ancora questa parola!) sul piano delle cose da fare.
Noi Medici d’Emergenza Urgenza non siamo affatto “tuttologi” (qualcuno ci accusa di questo), siamo semplicemente inevitabilmente orientati all’assistenza e alla cura: la migliore e la più immediata. Ci siamo attrezzati in tanti campi, ma fino ad oggi abbiamo dimenticato il fine vita. Il problema è davvero culturale, come dice Fabrizio, e la soluzione passa attraverso la presa di coscienza completa del nostro ruolo. La concezione del pronto Soccorso come ultima spiaggia per il malato in fine vita è certamente inappropriata: quel malato merita qualcosa di meglio. Ma quando nel nostro sistema il malato approda comunque a quella spiaggia è necessario rispondere innanzi tutto con competenza.
Su questo stiamo lavorando, e l’anno prossimo proporremo un primo evento “pilota” su questi temi, con l’intenzione di offrire strumenti di lavoro immediatamente utili in Medicina d’Urgenza, da un punto di vista clinico e farmacologico ma anche sul piano della gestione della comunicazione con il malato e i suoi congiunti. Il nostro obiettivo, banalmente, è mettere fine all’approssimazione (o, peggio, all’ignoranza), sostituendola con risposte appropriate, pur nell’inappropriatezza di quell’accesso.
Per provarci abbiamo necessità di aiuto da parte di coloro che questi problemi affrontano quotidianamente: i Palliativisti sono, in questo, i nostri naturali interlocutori. Nell’ultimo anno ho scoperto qualcosa di inatteso: noi Medici d’Urgenza siamo, per indole, atteggiamento, sensibilità, molto più vicini ai Palliativisti che a tanti colleghi dell’Ospedale abituati a trattare l’urgenza. Siamo entrambi obbligati dal nostro ruolo a guardare alle necessità del malato prima ancora che alla malattia stessa.
Il contributo di Fabrizio Motta è davvero prezioso: dimostra come non esistano confini tra campi d’azione e competenze quando si mette al centro il malato. E ci aiuta a inquadrare il problema in una cornice che deve essere “clinica” prima ancora che “etica”, o “filosofica”, o “religiosa”.
Chiedo scusa a Carlo: quello che voleva essere solo un commento positivo è diventato una specie di annuncio pubblicitario per un prossimo evento formativo: ma tutto sommato una vetrina come Empills è quanto di meglio potessimo cercare, e in qualche maniera ne abbiamo approfittato.
Ciao a tutti.
Grazie Fabio per il tuo commento, anche a me fa piacere dialogare con te oltre i limiti dei 140 caratteri (chissa’, magari un giorno potremo addirittura incontrarci di persona…). Non posso che, dal mio punto di vista esterno alla Medicina d’Urgenza, essere d’accordo con te.
Spero nel mio piccolo di poter essere utile al tuo progetto.
Salve, volevo complimentarmi per l’articolo, il suo contenuto e la coscenziosa serenità nell’affermare sia il fallimento che la voglia e la possibilità, se non principalmente, il dovere di cambiare un modus pensandi e operandi. È un dovere verso il paziente e verso di noi, operatori sanitari. Sono un’infermiera professionale che ha deciso, dopo vari anni di lavoro in Emergenza, di frenare e passare ‘dall’altra parte’, dove c’è un bisogno volutamente taciuto (e le motivazioni non sono poche) sulla necessità di morire con dignità. Sto seguendo un corso di specializzazione in cure palliative presso l’università di Melbourne: coinvolgente, emozionalmente e filosoficamente profondo!
Wow! Deve essere un’esperienza fantastica. Le Cure Paliative in Australia sono anni luce avanti a noi, forse solo seconde al Regno Unito.
Ho sempre creduto che un grosso punto in comune tra Cure Palliative e Medicina d’Urgenza sia il ruolo fondamentale dell’Infermiere nella sua peculiarita’ di cogliere aspetti e bisogni inespressi e di fornire un apporto tecnico e non che la parte medica mai riuscira’ a dare, ottenendo cosi una visione d’insieme (per usare una parola che non mi piace, “olistica”) del paziente e di quello che gli gravita intorno.
Fabrizio, grazie per questo lucido e accorato punto di vista su un argomento che è diventato centrale anche per gli operatori del sistema di emergenza.
Hai ragione, affrontare questi temi in pronto soccorso rappresenta un fallimento del sistema, ma non dimentichiamoci che ancora a molti pazienti viene taciuta una diagnosi a prognosi infausta a breve termine, il che comprensibilmente complica non poco le cose.
I medici e non solo loro, hanno su questo punto un atteggiamento un po’ schizofrenico, insomma predicano bene e razzolano male. Non stupisce. La pressione psicologica quando ci si trova ad affrontare queste situazioni in pazienti che non si è mai visto prima non è indifferente, ma il modello culturale, l’idea stessa di cosa sia la vita o la morte che rende le cose più difficili.
La medicina viene vista da molti come la scienza che tutto può e morire diventa non un evento naturale, come è per la maggior parte degli uomini, ma un fallimento di questa scienza e soprattutto delle persone che la praticano: medici e infermieri.
E’ su questo oltre che sul modo di prepare pazienti e familiari al percorso che finirà inevitabilmente e naturalmente con la morte, che tutti dobbiamo lavorare.
Esiste poi, guardando l’ altra faccia della medaglia, il rischio per medici e infermieri che si prendono cura di pazienti con diagnosi a prognosi infausta, del non fare , del non agire, anche quando il paziente non si trova ancora in quella fase, anche quando ci si trova di fronte invece a una complicazione che può essere superata, regalando loro ancora un po’ di tempo. Non è per niente facile prendere le decisioni giuste. Solo dalla relazione con il paziente e i suoi cari e dall’educazione potremmo avere le risposte che tutti stiamo cercando. Questo, come in altri campi della medicina d’urgenza, fa la differenza.
Concludo dicendo che è sempre un onore ospitare commenti di chi, come Fabio De Iaco, da anni si spende perché il nostro atteggiamento in ambito di sedo analgesia e trattamento del fine vita cambi, contento che il blog possa essere un volano per questo cambiamento. Questo è uno dei suoi scopi, almeno così spero.
Grazie ancora Carlo per l’opportunita’ che mi dai di scrivere sul tuo blog.
Hai ragione, si deve fare attenzione a non sconfinare in quello che noi chiamiamo “accanimento palliativo”, cioe’ visto che il paziente ha una diagnosi di malattia infausta nulla va fatto. E’ questo l’altro rischio che la vecchia concezione di cure palliative si porta dietro. Il modo migliore per evitare questo accanimento alla rovescia e’ quello della collaborazione con gli specialisti d’organo (dagli Oncologi ai Neurologi ai Nutrizionisti ai Geriatri ai Radioterapisti ecc) nella (lo so, sono ripetitivo…) Simultaneous Care, per la cui piena attuazione purtroppo al momento mancano le risorse culturali (e umane…).
Verissimo Carlo, dinanzi ad una prognosi infausta è un rischio il non agire,
in particolare quando si somma anche la possibilità di fare predizioni inaccurate e imprecise. Anzi, si è riscontrata una tendenza da parte dei medici e degli infermieri a sottostimare la predizione sul fine vita dei pazienti. Credo ci sia molto ancora da imparare e perfezionare, del resto la medicina non è una scienza esatta.
Volevo solo aggiungere la referenza per la mia affermazione sulla tendenza da parte di medici o infermieri a sottostimare la predizione sul fine vita dei pazienti.
Clarke MG et al. How accurate are doctors, nurses and medical students at predicting life expectancy? Eur J Intern Med. 2009 Oct;20(6):640-4.
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/19782929
Dalla nostra esperienza, forse con il bias di vedere quasi sempre gli ultimi 6 mesi di vita, è più frequente che i medici sovrastimino la sopravvivenza (cioè il paziente muore prima dell’atteso), mentre gli infermieri hanno spesso una migliore accuratezza.
Metto a seguito alcune fonti, le ultime due sono anche citate nell’articolo “Do Unto Others” oggetto del post.
http://annonc.oxfordjournals.org/content/early/2012/09/29/annonc.mds341.full.pdf
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/17157758
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/10678857
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/11527298
Di fronte ad un argomento così difficile e importantissimo, vi voglio esprimere una mia grande perplessità, che ahimè mi trovo a rispolverarla fin troppo spesso: perché non pochi pazienti neoplastici, che per un motivo o l’altro mi capita di vedere, muoiono durante ” quel ciclo di chemio che l’oncologo ha detto di provare a fare….”?
Perché a me capita di vedere fare chemio nelle ultimissime settimane/ma anche giorni! prima del decesso? con peraltro un tragico peggioramento della qualità di vita del paz , proprio concomitante e conseguente alla chemio (riferito dai parenti).
Mi chiedo allora di cosa stiamo parlando…..?