In questi giorni di influenze varie e raffreddori i miei interrogativi si sono concentrati sul sintomo FEBBRE.
Spero di non cadere in ovvietà, e se è così abbiate pazienza. A volte non è la sindrome rara e complessa che mi mette in crisi, ma il trattamento dei sintomi più frequenti e semplici. Ed è proprio in questi momenti che mi sorge il dubbio: starò facendo la cosa giusta nel modo giusto?
Fisiologia e fisiopatologia della termoregolazione
Vado rapidamente a ripassare [1]
– normale T° corporea è tra i 36.3 e 37.7 gradi °C, il nostro “termostato” è regolato dall’ipotalamo.
– la T° varia in diverse parti del corpo, ricordandoci che la T rettale è quella rappresentativa del “core” e quella orale invece di solito è 0.5°C inferiore a quella “core” centrale.
-nelle 24h vi è una oscillazione circadiana, toccando il punto più basso durante il sonno e aumentando notevolmente con l’attività fisica, a causa della produzione di calore dovuta alla contrazione muscolare.
– vi sono numerosi meccanismi di produzione e di dissipazione fisiologici. (vedi tabella sottostante)
– il nostro organismo presenta una serie di sofisticati meccanismi termoregolatori elencati nella tabella successiva.
– l’ipotalamo è il centro regolatore della temperatura corporea.
Esistono soglie di temperatura, alle quali il nostro organismo risponde con un meccanismo di produzione o dissipazione di calore. Per esempio T 37°C attiva i processi di vasodilatazione e sudorazione, T 36.8°C invece avviano quelli di vasocostrizione. Con 36 °C si attivano processi di termoregolazione senza brivido, mentre sotto i 35.5°C il nostro corpo risponde con la generazione del brivido.
La febbre è senza dubbio uno dei segni e sintomi riconosciuti come patologici dall’alba dei tempi.
In tali casi il nostro termostato interno è stato “alzato”, la nostra temperatura soglia non è più circa 37°C ma superiore. Il nostro corpo reagisce con i meccanismi sopra elencati a soglie differenti da quelle fisiologicamente impostate.
Agenti patogeni che infettano il nostro organismo scatenano una risposta immunitaria che porta alla produzione di particolari sostanze, citochine, quali IL6, IL1, TNF-alfa e INF gamma. Esse possono agire direttamente nella variazione della soglia di termoregolazione o grazie alla produzione di prostaglandine, generando quindi un’attivazione di meccanismi di aumento della produzione di calore.
Tutt’altra cosa, ma assolutamente non da dimenticare nelle nostre diagnosi differenziali, è l’ipertermia maligna.
Essa non è causata dalla catena di eventi sopra descritta, ma da una mutazione del gene RYR 1 codificante per il recettore della rianodina.
Questa mutazione porta ad un alterato meccanismo di feedback, per cui il canale di rilascio del Calcio, presente nel reticolo sarcoplasmatico dei muscoli, non riceve segnali d’inattivazione, rimanendo costantemente attivo e causando ipercontrattilità muscolare con iperproduzione di calore.
Tale fenomeno può essere scatenato dall’assunzione o somministrazione di alcuni farmaci, quali anestetici e bloccanti dei canali di depolarizzazione, quali succinilcolina.
Ok, fatto un po’ di ordine nei meccanismi fisio-patologici, non è mio compito elencare diagnosi differenziali in cui sia presente la febbre, (non la finiremmo più) ma le mie indagini si incentreranno su due domande principali:
1) devo sempre trattare l’ipertermia, inteso come cooling/raffreddamento?
2) Quale tipo di trattamento?
Alla ricerca di risposte mi sono imbattuta in una recente review pubblicata su Critical Care nel 2016, dal titolo Should we treat pyrexia? And how do we do it? Che a sua volta mi ha portato ad analizzare altra letteratura in circolazione.
Gli autori innanzi tutto esordiscono proponendo una definizione di febbre:
- Fever has been defined by The American College of Critical Care Medicine, the International Statistical Classification of Diseases and the Infectious Diseases Society of America as a core temperature of 38.3 °C or higher.
Successivamente però commentano sottolineando come:
1) tale soglia non sia universale,
2) i metodi che si hanno per misurarla siano spesso poco precisi e la misurazione è variabile nel tempo (anche nel giro di minuti)
3)nella letteratura le soglie di trattamento della ipertermia siano decisamente variabili a seconda del contesto in cui la febbre viene identificata. Nella febbre ad eziologia infettiva la soglia è T 38.3 °C, in studi relativi al trattamento nel post-rianimazione dopo arresto cardiaco la soglia è 37.6°, negli studi relativi agli stroke la soglia è variabile tra 37.2, 37.5 e 38 nella letteratura.
Fondamentale per gli autori è identificare il fattore causale della ipertermia, senza dimenticare situazioni non così frequenti come l’ipertermia maligna, sindrome maligna da neurolettici, colpo di calore etc…
“Pyrexia secondary to the systemic inflammatory response should be distinguished from hyperthermia resulting from excessive heat production, as observed in heatstroke and malignant syndromes, or from ineffective heat loss. Temperature levels encountered during hyperthermia are usually higher than during pyrexia because thermoregulation is abolished; indication of rapid temperature control is, therefore, indisputable to avoid irreversible tissue damage”.
1) Devo sempre trattare l’ipertermia?
Innanzi tutto perché devo trattare l’ipertermia?
La febbre è dimostrato essere associata a aritmie cardiache, tachicardia con incremento di consumo di ossigeno, tachipnea, convulsioni e possibile danno cerebrale. Tali condizioni possono essere dannose e mortali in pazienti fragili, per esempio quelli che popolano i reparti di terapia intensiva.
Beh, allora se la mettiamo così, non c’è dubbio, trattiamoli tutti!!!
MA….
Come è stato evidenziato da numerosi studi ed osservazioni, la febbre è una risposta fisiologica del nostro organismo ed ha un ruolo protettivo nel paziente.
Noto e’ infatti che l’incremento della temperatura crea un ambiente che inibisce la proliferazione batterica e virale, e’ legata alla produzione di citochine che a loro volta stimolano il sistema immunitario, con attivazione e della risposta immunitaria innata e adattativa (aumento dell’attivazione dei linfociti T, incremento di produzione di anticorpi..etc…)
Nell’era pre-antibiotici, l’induzione della febbre, ad esempio, era utilizzata per il trattamento e controllo di alcune infezioni, quali la meningite meningococcica, la gonorrea e la sifilide (Bennett AE et al 1936, Hench PS et al 1935).
Alcuni studi inoltre, hanno identificato un prolungamento della durata e persistenza di alcune infezioni dopo utilizzo di antipiretici, quali la varicella, la malaria e l’infezione da rinovirus, ed in alcuni casi incremento di mortalità.
Ed allora???
Any potential benefit of the febrile response needs to be weighed against this substantial metabolic cost.[ Young et all. Crit Care 2014][3]
Alla luce di queste osservazioni nel testo dell’articolo (Should we treat pyrexia? And how do we do it?) gli autori modificano quindi un po’ la domanda in
“ in what conditions is it beneficial to treat pyrexia?”
A questa domanda hanno provato a rispondere alcuni studi apparsi su riviste scientifiche negli ultimi anni.
Ad esempio: Uno studio di Lee e colleghi del 2012 su Critical Care [4], descrive i risultati di uno studio osservazionale su 1425 pazienti in ICU, 606 con febbre+infezione e 819 con febbre senza infezione.
Le loro conclusioni sono:
- non vi era relazione tra differenti gradi di ipertermia e mortalità nei pazienti con infezione, mentre l’incremento della T ° era associata ad aumento della mortalità a 28 gg in caso di T > 39.5 nei pazienti non settici.
- Il trattamento farmacologico della ipertermia (con NSAIDs o paracetamolo) si è dimostrato essere associato ad incremento della mortalità a 28 giorni in pazienti settici (adjusted odds ratio: NSAIDs: 2.61, P = 0.028, acetaminophen: 2.05, P = 0.01), ma non nei pazienti con ipertermia ma senza sepsi.
LIMITI: studio osservazionale, metodi non standardizzati di misurazione della ipertemia (strumentazione, sede della rilevazione) e somministrazione di trattamenti non standardizzati conseguenti al riscontro di febbre (paracetamolo maggiormente usato per pazienti con sepsi, mentre antiinfiammatori non steroidei per i non settici).
Uno studio pubblicato da Young e colleghi su Intensive Care Medicine nel 2012 [5], ha analizzato due popolazioni di pazienti afferenti alle terapie intensive in UK e Nuova Zelanda (269078 pt per la NZ e 366973 pt per UK) , dimostrando come picco febbrile con T> 39 °C nelle prime 24 ore dopo il ricovero fosse associato alla riduzione del rischio di mortalità intra-ospedaliera nei pazienti con evidenza di infezione.
Per coloro con ipertermia senza evidenza di infezione, il picco febbrile si è dimostrato associato a incrementata mortalità intra-ospedaliera.
(NZ cohort > adjusted in-hospital mortality risk progressively decreased with increasing peak temperature in patients with infection. Relative to the risk at 36.5–36.9°C, the lowest risk was at 39–39.4°C (adjusted OR 0.56; 95% CI 0.48–0.66). In patients without infection, the adjusted mortality risk progressively increased above 39.0°C (adjusted OR 2.07 at 40.0°C or above; 95% CI 1.68–2.55). UK cohort, adjusted odds ratios at corresponding temperatures of 0.77 (95% CI 0.71–0.85) and 1.94 (95% CI 1.60–2.34) for infection and non-infection groups, respectively)
In differenti studi su diverse popolazione di pazienti non ricoverati, dopo inoculazione di rhinovirus, la somministrazione di antipiretici, aspirina o ibuprofene, non ha dimostrato nessun miglioramento o peggioramento delle condizioni dei pazienti, della gravità dei sintomi o della prevenzione nello sviluppo e durata della ipertermia. [6-8]
Altri setting particolari sono descritti in questo paper, quali il trattamento della ipertemia nei pazienti post trauma cranico, in quanto noto che l’ipertemia può causare aumento della pressione intracranica e conseguente peggioramento del danno cerebrale post trauma.
È attualmente in corso un trial per indagare l’utilizzo di antipiretici per prevenire la ipertermia nei pazienti post stroke.
È invece noto come l’ipertermia possa essere un trigger per lo sviluppo di convulsioni nei pazienti con epilessia,per questo sembra essere utile per questa particolare popolazione di pazienti avere qualche scrupolo in più per il trattamento e/o prevenzione dell’ipertermia. [2]
2) Quale tipo di trattamento?
Numerosi sono gli studi che hanno investigato il miglior trattamento per l’ipertermia, sia farmacologico che non farmacologico.
Uno dei farmaci che vengono più facilmente prescritti per l’ipertermia è il PARACETAMOLO, che tutti noi prescriviamo abbondantemente in ogni tipo di formulazione.
L’azione del PARACETAMOLO è data dalla sua capacità di inibire le cicloossigenasi 3 e la sintesi delle prostaglandine, permettendo un reset del nostro termostato ipotalamico.
Uno degli studi più famosi relativi all’uso del paracetamolo è lo studio HEAT, i cui risultati sono stati pubblicati su NEJM nel 2015 [9]da Young e colleghi.
Questo studio ha randomizzato i pazienti a ricevere paracetamolo 1 gr ogni 6 ore o placebo, durante la loro permanenza in ICU allo svilupparsi della prima ipertermia intesa come T ascellare (utilizzando tipo di termometri e sede di rilevazione standard in tutti i pazienti) > o uguale a 38°C.
L’idea alla base di tale studio era quella di verificare un eventuale beneficio in riduzione di numero di giorni di permanenza in ICU nei pazienti sottoposti a cooling farmacologico.
Le conclusioni hanno evidenziato assenza di aumento o diminuzione statisticamente significative della durata della permanenza in ICU, nessuna differenza inoltre in mortalità a 28 giorni e 90 giorni, riduzione piu’ rapida della temperatura corporea nella popolazione trattata con paracetamolo rispetto ai non trattati, e non evidenza di particolari eventi avversi legati al paracetamolo infuso.
Conclusion: “Early administration of acetaminophen to treat fever due to probably infection did not affect the number of ICU-free days.
LIMITI: assenza di valutazione di dosi di paracetamolo date prima della randomizzazione in ICU, circa il 30% ha ricevuto paracetamolo dopo la fine della somministrazione del study drug, l’uso di paracetamolo dopo la dimissione dall’ICU non è stata registrata, non è chiaro se è possibile traslare tali risultati anche per il paracetamolo per via orale.
Una recente review è apparsa su Journal of Critical Care nel 2016 relativa all’utilizzo del Paracetamolo per pazienti febbrili. [10] In essa sono riassunti i risultati di numerosi studi che hanno indagato l’utilizzo del paracetamolo, ma sono per lo più retrospettivi, difficili da valutare nel complessivo in quanto dosi, misurazioni della temperatura, soglie di trattamento differenti.
Anche se lo somministriamo a volte con una certa generosità, il paracetamolo può causare alcuni eventi avversi, quali reazioni allergiche, rialzo degli enzimi epatici, e, da non dimenticare, ipotensione. Alcune evidenze hanno descritto cadute anche significative della pressione arteriosa, accompagnate dalla sudorazione profusa, e necessità di ricorrere a boli di fluidi IV.
Al termine della review gli autori suggeriscono una flowchart per la valutazione dell’utilizzo di trattamenti per l’ipertermia.
Tra i possibili altri rimedi per il trattamento della ipertermia non sono da dimenticare il Metamizolo (Novalgina) a volte un po’ dimenticato ma efficace in popolazioni di pazienti ipersensibili alla Tachipirina, farmaci antiinfiammatori non steroidei, quali Ibuprofene, utilizzati per le loro proprietà antipiretiche e antiflogistiche soprattutto nei pazienti pediatrici, e il “cooling” non farmacologico.
Scoprire il paziente dalle mille coperte in cui si è rintanato, l’utilizzo di coperte refrigerate, o applicazione di ice packs sul corpo possono incrementate la dissipazione del calore ed agire da soli o in associazione con terapia farmacologica.
Tali presidi possono incrementare il rilascio di calore attraverso la cute e permettere un conseguente calo della temperatura corporea graduale, evitando reazione avverse a farmaci, tossicità o ipotensione/ bagni di sudore che accompagnano spesso la defervescenza febbrile dopo somministrazione di antipiretici. [11]
TAKE HOME MESSAGE:
- Montagne e montagne di letteratura, ma poche evidenze chiare
- La definizione stessa di ipertermia è variabile e complessa e andrebbe considerata nel setting in cui stiamo lavorando ( sepsi, non infettiva, post traumatica….)
- Diverse sono le modalità di misurazione, le soglie di trattamento, le dosi, le schedule, le zone di rilevazione della temperatura, per cui difficile dare una risposta chiara e cristallina al 100% derivata dai diversi studi
- Ammetto che per la prima volta dopo anni di pratica mi sono ritrovata a pensare che la FEBBRE, che spesso vediamo come antagonista, in realtà è un’amica, che ci sta aiutando a combattere e sconfiggere l’infezione o la causa che ha perturbato il fisiologico equilibrio del nostro organismo, per cui la febbre NON sarebbe sempre da debellare
- Nei pazienti “sani”, con un po’ di febbricola, raffreddore, influenza, se tollerano bene i sintomi, magari il trattamento antipiretico aggressivo si può ritardare o evitare. Possiamo pensare a misure non farmacologiche, non abusando di Paracetamolo o Novalgina, somministrandola solo per alleviare i reali dolori o la cefalea e non rincorrendo il paziente con il termometro (cosa che prima non facevo, e la tachipirina era d’obbligo al fine di “conquistare” la battaglia facendo scendere la temperatura sotto il “temibile” 38°C!)
- Altro discorso su pazienti anziani e con mille comorbidità, in cui il distress fisico legato alla tachicardia, alla tachipnea ed all’aumentato consumo metabolico, possono essere dannosi e far precipitare rapidamente le precarie condizioni cliniche. In questa popolazione forse mi ritroverei ad essere più conservativa e somministrarei il trattamento antipiretico.
- Come abbiamo visto la febbre può essere causa di distress e reale disagio nei nostri pazienti ricoverati , in condizioni più o meno gravi, per cui il trattamento con mezzi farmacologici e non farmacologici va tarata sul singolo individuo.
- Nel paziente fragile, settico , anche se gli studi sembrano non identificare un reale beneficio su particolari outcome o sulla sopravvivenza, la riduzione del distress fisico ed il miglioramento delle condizioni avvertite soggettivamente dal paziente mi vedrebbero più propensa al trattamento, sempre considerando a tutto tondo eventuali insufficienze d’organo o intolleranze farmacologiche.
- Nei pazienti con neutropenia febbrile, magari in corso di trattamento chemioterapico, fortemente immunocompromessi, con scarsissima risposta immunitaria, forse il gioco di non aggredire il sintomo febbre non vale la candela, ed in questa popolazione sarei propensa a trattare il disagio legato alla ipertermia e ridurre al minimo il dispendio di energie, la tachicaridia e tachipenea.
- In particolari condizioni cliniche, che ho solo accennato in questo post, il trattamento invece è fortemente consigliato, post trauma cranico acuto, post stroke o nei pazienti con epilessia.
- Lo ammetto, a volte” mi piace vincere facile”, vedere risultati rapidamente e dire a noi stessi ed ai nostri pazienti “ beh, almeno la febbre l’abbiamo trattata..” ma d’ora in avanti, ogni volta che lo farò (e se lo farò), avrò nella mia testa un po’ più chiaro quello che sto facendo e soprattutto il perché.
- Di sicuro avrò difficoltà a convincere i pazienti stessi, che sono stati educati a considerare la febbre una nemica da sempre e che avranno probabilmente poca facilità ad accettare alcune volte il mio consiglio di tenersela, in quanto arma fisiologica contro il nemico.
- Trattare il paziente con il sintomo, considerando comorbidità, causa, beneficio o danno del trattamento, NON il sintomo scollegato dal paziente.
La lezione che ho insegnato a me stessa in una riga: Any potential benefit of the febrile response needs to be weighed against this substantial metabolic cost.[ Young et all. Crit Care 2014][3]
Bibliografia
1]Ganong’s Review of Medical Physiology 23rd Edition
2]James F. Doyle and Frédérique Schortgen Should we treat pyrexia? And how do we do it? Critical Care (2016) 20:303 link
3] Young PJ, Saxena M. Fever management in intensive care patients with infections. Crit Care. 2014;18:206 link
4] Lee BH et al Association of body temperature and antipyretic treatments with mortality of critically ill patients with and without sepsis: multi-centered prospective observational study Critical Care Page. 2012, 16:R33 link
5] Paul Jeffrey Young et all. Early peak temperature and mortality in critically ill patients with or without infection Intensive Care Med (2012) 38:437–444 link
6]. Graham NM, Burrell CJ, Douglas RM, Debelle P, Davies L: Adverse effects of aspirin, acetaminophen, and ibuprofen on immune function, viral shedding, and clinical status in rhinovirus-infected volunteers. J Infect Dis 1990, 162:1277–1282. link
7] Sperber SJ, Sorrentino J V, Riker DK, Hayden FG: Evaluation of an alpha agonist alone and in combination with a nonsteroidal anti-inflammatory agent in the treatment of experimental rhinovirus colds. Bull N Y Acad Med 1989, 65:145–160. link
8] Kramer MS, Naimark LE, Roberts-Brauer R, McDougall A, Leduc DG : Risks and benefits of paracetamol antipyresis in young children with fever of presumed viral origin. Lancet 1991, 337:591–594. link
9] Young P, Saxena M et al. Acetaminophen for fever in critically ill patients with suspected infection. N Engl J Med. 2015;373(23):2215–24. link
10] D Chiumello, M Gotti et al. Paracetamol in fever in critically ill patients—an update Journal of Critical Care 38 (2016) 245–252 link
11] N.E. Hammond, M. Boyle Pharmacological versus non-pharmacological antipyretic treatments in febrile critically ill adult patients: A systematic review and meta-analysis Australian Critical Care (2011) 24, 4—17 link
Bellissimo post!! Veramente grazie!! Se posso concedermi questa riflessione…La febbre è bella all’inizio del confronto con il paziente, è un segno che ci conforta, indirizza la nostra anamnesi, restringe la nostra diagnosi differenziale e ci fa vincere facile con gli antipiretici. Ma quando non passa , quando è resistente alla terapia, quando abbiamo sbagliato nell’interpretarla diventa un incubo per noi e per il paziente… E così si riprende il suo ruolo e ci richiama all’attenti..Forse abbiamo sbagliato qlc? 😉 Da qui anche il valore della diagnosi differenziale considerando le caratteristiche della febbre, a cui tanto valore danno i libri di semeiotica. Hai trovato qualcosa negli studi da te analizzati? Grazie!!
Ciao Giuseppe, hai davvero ragione. A conferma di quello che dici mi viene in mente proprio il caso clinico di un paziente che ho recentemente conosciuto che dopo 15 giorni di febbrone a 40, tra mille ipotesi, sottoposto a mille ed un approfondimento, alla fine aveva “semplicemente”una febbre di origine “paraneoplastica” . (dico semplicemente perche’ lavoro in una oncologia..)Per cui davvero spesso e’ di difficile interpretazione. Negli studi valutati, quello che emerge e’ la distinzione tra febbre “infettiva” e “non infettiva”, considerata quella infettiva ipertermia + isolamento di un qualche agente batterico/virale. Distinzione tra alcune differenti categoria la si ritrova nell’articolo principale da me citato, ma di nuovo suddivisione in grandi categorie principali. Di per se questo pezzo non era incentrato sul discorso di differenziale sulle cause della febbre, perche’ non sarebbe bastato lo spazio nel blog, era piu’ una riflessione relativamente alla nostra costante idea di dover debellare la febbre, trattarla per “vincere” e risolvere qlcs, ma a volte forse, sarebbe meglio solamente osservare e lasciare al corpo il tempo di reagire in autonomia. Grazie ancora del tuo feedback!
Davvero Interessante.
Grazie del tuo commento!
Un bel post, effettivamente utile per chiarirsi un po’ le idee sul frequente sintomo febbre, molte volte causa di eccessivi allarmismi ingiustificati da parte di pazienti, medici e infermieri, quando poi in realta’ dovrebbe essere considerato in primis un valido meccanismo di difesa dell’organismo in corso di infezione…