Gaia ha 65 anni e un nome che smentisce il suo umore.
Gaia ha avuto ed ha una vita non troppo lunga ma sicuramente troppo difficile, tanto che tu ti senti in difetto e quasi in colpa al suo cospetto. Tu che sei nato in un paese a suo dire sviluppato, che hai avuto modo di studiare e soprattutto di divertirti, di leggere, di entusiasmarti, di ridere, di sognare ma anche più semplicemente di mangiare. Ogni giorno. Ogni pasto. Che hai avuto modo di dormire in un letto, in una camera fatta di muri e di un tetto. Con un cuscino. Una coperta. Acqua corrente, addirittura riscaldata. La fortuna di andare a lavoro. La fortuna di riempire la vita con sogni, affetti e speranze. Addirittura la fortuna di fantasticare e di amare.
Gaia ci fa sentire in colpa perché è lo specchio dei nostri privilegi senza meriti. Della nostra indifferenza. Del nostro lamentarci per sport ma evitando di pensare troppo, preferendo rimanere in superficie, per non sentirci troppo sbagliati in fondo o troppo Colpevoli. O troppo Deboli.
Gaia tutto questo non lo ha mai avuto. Vita difficile, tempo non per vivere ma solo per sopravvivere. Da qualche mese è conosciuta dagli assistenti sociali cittadini e risiede in una comunità, comunità che noi guardiamo con pregiudizio, sdegno e discriminazione ma che per lei è una residenza a sette stelle.
C’è un problema: si chiama diabete. Non è una colpa o una punizione ma lei ne soffre, purtroppo. E un giorno, il malandrino si complica e la porta in pronto soccorso. La complicanza è acuta, il diabete si è ribellato, ma basta qualche ora e pochi giorni per averne ragione e far rientrare la patologia da acuta a cronica.
Ma qui una altra complicanza: Gaia è troppo per rientrare in quella comunità dicono i responsabili. Troppo cosa? Troppo sfortuna? Troppo sciagurata? Troppo complicata? Troppo a rischio? Ma a rischio di cosa? L’unico rischio è vedere in Gaia il riflesso di ciò che dovremmo essere, di ciò che dovremmo fare e di ciò per cui dovremmo combattere e che per pigrizia, indolenza, abitudine, disinteresse o perchè infine è più semplice decidiamo di non affrontare. E di non ribellarci.
Vabbè ci sembra una “stronzata“, ma la assistenza sociale del comune fornirà comunque una altra sistemazione. Attendiamo fiduciosi ed anche senza colpa, demando ad altri una soluzione del problema che viviamo come non nostro.
Ma non esiste una soluzione per Gaia. Meglio, ne esiste una ma che non può rappresentarla. La dimissione con invio al dormitorio. Al dormitorio?
Gaia sta 20 giorni in ospedale. Due per guarire e 18 per cercare di curare una patologia incurabile: l’indifferenza della burocrazia, della società, dello stato, degli altri. Nessuno vuole forzare il sistema, ribellarsi, cercare un piano B, una idea, anche se non geniale va bene così, una via alternativa.
Il 21° giorno Gaia rappresenta un posto letto in un ospedale per acuti che presenta il conto. Quello non è più il suo posto, e su questo possiamo essere d’accordo, ma non esiste un altro posto. Il 21° giorno Gaia è accompagnata a una fermata del pullman. Con uno stradario che disegna la strada al dormitorio e due biglietti del bus per raggiungerlo.
Da una parte la lettera di dimissione, le penne di insulina ed i farmaci da prendere per bocca non si sa per quanto. Dall’altra parte una borsa con un paio di scarpe, un pantalone e una divisa ospedaliera per coprire il suo corpo e la nostra vergogna. Per terra l’impegnativa per la visita diabetologica ottenuta tramite un STP che Gaia in un gesto di ribellione e dignità ha rifiutato. Rifiuto di chi la ha Rifiutata.
Nel mezzo il suo sguardo fatto da occhi limpidi ma ormai spenti da chi ha guardato e visto troppe cose per sorprendersi ancora e per meravigliarsi. Dall’altra, la nostra vergogna, nel rimandare in strada chi la strada la conosce troppo bene per capire che non è una cura. Piangiamo entrambi, ma non è difficile capire di chi siano le lacrime di coccodrillo.
E io mi vergogno. Di me stesso e della facilità di piegarsi a un sistema ferreo alle regole che valgono solo per alcuni. Di uno stato la cui soluzione è costringere qualcuno altro a buttare in strada dopo aver curato. L’ipocrisia regolarizzata.
Entrambi ci allontaniamo dall’ospedale: lei abbandonata fino alla prossima complicanza acuta, magari fatale; io a fine turno, schifato dal mio comportamento necessario forse, inevitabile non so, aziendalistico certamente ma sicuramente zuppo di viltà e noncuranza.