Il dolore addominale in Pronto Soccorso: che santi pregare?
Mentre una volta il dolore addominale era la tomba del chirurgo, adesso è il calvario del medico d’urgenza. Leggere per credere.
Con la supervisione di Davide Tizzani, che colgo l’occasione per ringraziare di tutti gli insegnamenti che mi ha dato (e spero mi darà ancora)
Il signor Zeno
Pt.1: alle 5 del mattino
Sono le 5 del mattino, io e il mio strutturato siamo stanchi dopo un lungo turno notturno in Pronto Soccorso, quando si presenta il signor Zeno, 57 anni, con un dolore epigastrico urente insorto nel corso della notte, non associato ad altra particolare sintomatologia se non nausea.
Le caratteristiche sembrano quelle di una normale gastrite: lieve dolore alla palpazione in sede epigastrica con sfumato irradiamento verso destra, eruttazioni vomito e nausea, segno di Murphy negativo; il paziente conferma di avere una dieta poco equilibrata, fuma 1 pacco di sigarette al giorno e beve una moderata quantità di alcolici, e ha recentemente sospeso la terapia con inibitori di pompa protonica iniziata nel 2014 per ulcera duodenale.
L’ecoscopia bedside, eseguita sia da me che dal mio strutturato, non evidenzia nulla di atipico; pertanto, somministriamo paracetamolo e metoclorpramide endovena e aspettiamo l’esito degli esami ematochimici.
Agli esami notiamo solo una leucocitosi principalmente neutrofila (18k WBC di cui 15k N), che ascriviamo in parte agli episodi di emesi, per il resto sono poco indicativi di patologia acuta in atto con PCR spenta; il paziente adesso sta molto meglio, non ha mai avuto febbre e il dolore è ora totalmente regredito.
È arrivato il momento: il solito momento. Quello in cui hai fatto gli accertamenti ed adesso devi tirare le somme. Il top sarebbe fare una diagnosi. A volte ti accontenti dell’esclusione delle principali. Ogni tanto inventi una patologia fantasiosa per accontentare la fame di malattia dei pazienti che preferiscono essere malati di qualcosa che essere sani di nulla.
Poi ci sono loro: il paziente in questione vorrebbe essere dimesso. Soprattutto noi vorremmo dimetterlo. La nostra voce interiore ci fa riflettere sull’importante intensità del dolore avvertito all’ingresso ma noi ci affidiamo alla lucida obiettività di esami ematochimici praticamente di norma e la silenziamo. Sono ormai quasi le 8, e anche per non gravare sulla collega montante, lo reinviamo al domicilio con una ipotesi diagnostica brillante di gastrite acuta e l’indicazione ad assumere PPI e antidolorifico al bisogno. Ovviamente poco dopo le 8 il signor Zeno è di nuovo in Pronto Soccorso, di nuovo per dolore epigastrico associato a nausea, questa volta descritto come più irradiato a destra.
Pt.2: alle 8 del mattino
In questo secondo accesso viene provato un cocktail farmacologico nuovo: metamizolo e ondansetron, ottenendo un buon controllo dei sintomi. Ci riaffidiamo agli esami più che alla clinica: il laboratorio ripetuto due pre e trenta dopo il primo risultato evidenzia nuovamente solo una moderata leucocitosi neutrofila, con PCR di fatto spenta (1.14).
Essendo il secondo accesso nel giro di poche ore, la collega consiglia al paziente un periodo di osservazione in Pronto Soccorso per poter valutare l’evoluzione del quadro clinico, ma di nuovo il paziente preferisce andare a casa. Noi non ci strappiamo le vesti e non proviamo a fargli cambiare idea con argomenti convincenti alla luce del nostro motto: “al nemico che scappa ponti d’oro”.
Pt. 3: alle 2 di notte del giorno dopo
Tornerà la notte successiva intorno alle 2 con dolore epigastrico irradiato francamente in ipocondrio dx, Murphy positivo, incremento della leucocitosi e positivizzazione della PCR (7.4), con evidenza alla pocus di colecisti dilatata e a margini inspessiti, magma biliare e piccola falda di versamento periviscerale, poi confermato anche alla TC addome.
In 24 ore dall’insorgenza della sintomatologia gli esami e la diagnostica strumentale sono risultati chiaramente patologici; in breve, il paziente entra in sala operatoria per colecistite acuta, passando da una doppia dimissione ad un accesso urgente in Sala Operatoria.
Noi vedendo Zeno prendere una strada diversa da quella che avevamo battuta non una ma due volte ci chiediamo: “Abbiamo sbagliato qualcosa”? O meglio cercando di trasformare l’eventuale errore mai in una colpa ma in un insegnamento: “potevamo agitare meglio?” Il paziente era stabile; gli esami ematochimici e anche una ecoscopia addominale erano risultati normali; dopo due antidolorifici il paziente era effettivamente asintomatico e lui richiedeva la dimissione. Tuttavia la sintomatologia algica in entrambi gli accessi era particolarmente accentuata e lui sofferente; il rientro in DEA rappresenta sempre un campanello d’allarme, la leucocitosi era in aumento e ben 5 flebo di sintomatici erano state necessarie per silenziare il suo urlo interno. Zeno era simpatico, ma anche evidente ad una minima introspezione che era una di quelle personalità che non si fermerebbe in pronto neanche con un femore rotto a costo di tornare a casa strisciando. E questo dato, anche se nessun score lo considera, bisogna avere il dono e la sensibilità di soppesarlo.
Perché dimetterlo | Perché trattenerlo |
Emodinamica stabile, mai febbre | Doppio accesso, il secondo in pochi minuti dal primo |
Esami poco indicativi di patologia acuta in atto | Esami ematochimici con leucocitosi in aumento |
Peristalsi e appetito conservati, esame obiettivo sostanzialmente negativo | Sintomatologia algica intensa e sproporzionata rispetto al quadro obiettivabile |
Volontà di essere dimesso | Sottostima del dolore |
Buon controllo del dolore iniziale | Terapia antidolorifica numerosa e corposa per avere successo sul dolore |
In grado di comprendere le istruzioni relative alla necessità di rientro | Assenza di diagnosi precisa |
Il dolore addominale di mezzogiorno (parte I)
Qualche giorno dopo si presenta verso mezzogiorno in DEA Annibale, ragazzo di 18 anni, con un forte dolore addominale in fianco destro due ore prima, associato a numerosi episodi di vomito biliare, senza mai febbre o diarrea. L’esame obiettivo è scarsamente indicativo, se non per una lieve dolorabilità addominale diffusa senza segni di peritonismo; anche l’ecografia, ripetuta due volte, non evidenzia segni sicuri di patologia pericolosa acuta in atto, con i limiti di un intenso meteorismo. Trattata efficacemente la sintomatologia con la tripletta di P (paracetamolo-pantoprazolo-plasil), aspettiamo l’esito degli ematochimici; anche qui una lieve leucocitosi neutrofila (13k WBC), che in questo caso ascriviamo all’emesi ripetuta, con una PCR non significativa, almeno per noi (2.1).
Dopo la terapia, Il paziente diventa asintomatico e noi ne approfittiamo per dimetterlo: solita diagnosi coraggiosa (colica addominale), soliti consigli: idratazione e terapia procinetica con consiglio (più per proteggere noi che lui) del ripresentarsi se la sintomatologia dovesse ripresentarsi.
Qualcuno di noi avrebbe avuto dubbi nel trattenerlo? O meglio qualcuno di noi avrebbe potuto permettersi di trattenerlo in osservazione nel proprio pronto?
Il dolore addominale di mezzogiorno (parte II)
Il giorno successivo, più o meno alla stessa ora, lo rivedo.
Adesso il dolore è peggiorato, accompagnato da nausea ed emesi ed ipertermia nella notte, senza pronta risposta alla terapia con paracetamolo. L’obiettività evidenzia un peritonismo localizzato in fossa iliaca dx con segno di McBurney francamente positivo; all’ecografia bedside vedo per la prima volta l’appendice, non perché sono bravo ma perché è chiaramente enorme ingrossata, flemmonosa, con lieve falda di versamento periviscerale; gli esami ematochimici sono finalmente una sentenza, con evidenza senza ombra di dubbio di un quadro di flogosi acuta.
Vedo Annibale fare la stessa strada di Zeno, diversa da quella che io avevo immaginato e progettato. Ed allora mi chiedo: dove è il problema?
Il Problema
Il problema è il dolore addominale indifferenziato.
Sono numerosi i casi in cui accedono alle nostre cure pazienti con una sintomatologia addominale sfumata, insorta relativamente di recente, i quali data una buona iniziale risposta alla terapia antidolorifica ed essendo gli esami clinico-laboratoristici “permissivi” sono stati alla fine dimessi. Dimessi senza una diagnosi precisa, ma il compito del medico d’urgenza non è quello di fare diagnosi; quello che fa la differenza è la capacità di comprendere la molteplicità dei quadri clinici e sapersi orientare all’interno dei vari percorsi diagnostico-terapeutici che il paziente potrà affrontare durante l’evoluzione della sua malattia.
In alcuni casi è andata bene: si trattava probabilmente per esempio solo di una colica addominale o di un episodio di gastroenterite, regrediti in poco tempo e senza necessità di rientro in Pronto Soccorso. In altri casi ovviamente no. Almeno di quelli che conosco, altri potrebbero essere andati molto peggio e non essere neppure stato in grado di rientrare in pronto. Ma di quelli chiederò conto all’avvocato. Di tutti gli altri invece dobbiamo porci una domanda: questi pazienti spesso non vengano inquadrati in maniera soddisfacente o liquidati in maniera frettolosa? Stiamo compiendo un errore? Stiamo mantenendo una condotta superficiale? Abbiamo esposto le persone che hanno affidato e si sono affidate a noi ad un rischio clinico possibile e non completamente soppesato? Oppure è inevitabile, dato che molto spesso i pazienti vengono in Pronto Soccorso appena insorto il dolore, dover prendere tempo e valutare la possibile evoluzione della patologia? Come discriminare i pazienti da dimettere con indicazioni da quelli da tenere in osservazione?
In parallelo a tutto ciò, è sempre bene chiedersi: è opportuno spingersi a definire una diagnosi in contesti clinici come quelli riportati e presi ad esempio?
Quello che empiricamente ho imparato
In definitiva, sono principalmente due almeno due i fattori da tenere a mente per cercare di ridurre il rischio di una dimissione che possa rivelarsi erronea o frettolosa:
- Considerare il tempo dall’insorgenza dei sintomi. L’accesso in ospedale è spesso molto precoce, poco tempo dopo le prime avvisaglie di malattia, quando il processo patologico è solo in fieri e non si è ancora del tutto sviluppato. Ciò giustifica innanzitutto una sintomatologia poco specifica, variabile, senza segni di peritonismo localizzato né tantomeno diffuso, e determina esami ematochimici ed eventualmente radiologici poco o nulla significativi, essendo il processo patologico ancora molto localizzato e nella sua fase embrionale.
- Cercare di non farsi troppo condizionare dalla volontà del paziente: nell’immaginario collettivo l’addome spaventa molto meno del torace, e appena la sintomatologia migliora spesso è lo stesso paziente a spingere per essere dimesso.
Non è assolutamente facile: di fronte c’è un paziente che si è presentato sintomatico; dopo la somministrazione di antidolorifico sta meglio e gli esami disponibili non ci aiutano nel prendere una posizione. Come dovremmo comportare in questi casi? Quando dovremmo preoccuparci e mantenere in osservazione il paziente, e per quanto tempo? Se lo dimettiamo, può avere senso in alcuni casi di farlo tornare in Pronto Soccorso per rivalutarlo e sottoporlo nuovamente a degli esami? O basta essere precisi e chiari e soprattutto onesti dichiarando la nostra incapacità attuale di definire la situazione patologia attuale e di tornare in caso di comparsa di determinati sintomi o segni.
Sicuramente dovremmo poco o per nulla utilizzare la volontà del paziente per affidare a lui una scelta di rientro al domicilio che in realtà deve essere nostra e condivisa.
La letteratura
In letteratura viene spesso utilizzato il lasso temporale di 72 ore dalla dimissione al secondo accesso per discriminare i pazienti dimessi impropriamente; in altre parole, se un paziente viene dimesso e ritorna dopo meno di 3 giorni con un peggioramento della sintomatologia significa che probabilmente, per i motivi più disparati, può non essere stato effettuato un adeguato lavoro di prevenzione e di selezione del paziente da tenere in osservazione [1-5].
In uno studio retrospettivo pubblicato ad agosto 2023 su European Journal of Medical Research [6] si analizzano i dati clinici di più di 700 pazienti con un rientro in DEA per dolore addominale, i quali sono stati divisi in due gruppi: quelli in cui il rientro entro 7 ore è poi esitato in un ricovero, e quelli invece dimessi di una seconda volta senza particolari differenze nelle indicazioni rispetto alla prima dimissione. Questa distinzione, secondo chi ha condotto lo studio, è utile in quanto permette di discriminare i rientri per così dire “impropri”, che inquinano le statistiche, da quelli in cui invece il secondo accesso ha cambiato la storia clinica del paziente (proprio come nei nostri due casi clinici).
Con una analisi di regressione multivariata, è emerso che nel primo gruppo alcune variabili del paziente e della sua gestione in Pronto Soccorso erano più rappresentate:
- età > 40 anni
- codice triage alto (l’equivalente dei nostri arancione/rosso)
- utilizzo di 2 o più analgesici per il controllo del dolore (valido per i codici minori)
- necessità di esecuzione di test ematochimici
Gli autori sono giunti alla conclusione che la presenza di 3 o più delle variabili in questione sia da considerare un campanello d’allarme per un successivo ricovero.
Si potrebbe pertanto dedurre che questi pazienti sono, per lo meno teoricamente, candidati a rimanere in osservazione, per poter eseguire una valutazione clinico-laboratoristica ad almeno 12 ore dalla prima.
Una review sistematica condotta da un gruppo di ricerca olandese nel 2015 [7], giunge a delle conclusioni interessanti e in qualche modo complementari a quanto trattato sinora.
Primo capitolo è la distinzione fra le urgenze e le non urgenze; generalmente, nelle prime è necessario un trattamento ospedaliero immediato, data la possibile insorgenza di complicanze gravi e ed evoluzione infausta in assenza di trattamento, mentre nelle seconde è accettabile attendere che la patologia evolva. Secondo il gruppo di studio, un lasso temporale sicuro ed accettabile sono 24 ore di osservazione.
Cosa ho imparato
In alcuni casi la diagnosi è piuttosto facile e abbastanza rapida, con necessità di pochi esami (colica renale, per esempio) grazie ad una clinica particolarmente significativa. Formulare una diagnosi altamente probabile, con paziente stabile, permette una dimissione più sicura, in quanto possono esserne meglio soppesati gli eventuali rischi di una dimissione. Abbiamo però detto che questo caso è piuttosto raro, se non altro in confronto a tutte quelle volte che la diagnosi proprio non ce l’abbiamo.
Pertanto, il lavoro principale che dobbiamo fare è escludere le urgenze dalle non urgenze. Come detto finora, e sperimentato con la nostra esperienza, gli esami ematochimici non sono particolarmente dirimenti: un accurato esame obiettivo volto a valutare segni di shock, peritonismo locale o diffuso, masse pulsanti e gli altri campanelli d’allarme nel dolore addominale, accompagnato da una dettagliata anamnesi remota e farmacologica, è di fatto sovrapponibile in termini di specificità nell’individuare il paziente urgente, con o senza associazione di esami di laboratorio [8-9].
Noi abbiamo un’arma in più – la POCUS
Che valore che dobbiamo dare all’ecoscopia durante la visita ambulatoriale? Raramente, infatti, un paziente che accede in DEA per dolore addominale non viene “guardato in eco” dall’urgentista, considerando tra l’altro che la nostra specializzazione pone come obiettivo formativo quello di padroneggiare almeno le basi dell’ecografia. La significatività e l’importanza dell’ecoscopia nel dolore addominale provengono soprattutto dall’alta specificità che ha nell’escludere alcune condizioni cliniche (aneurisma aorta addominale, idronefrosi, aria o liquido liberi in addome, evidente dilatazione delle vie biliari) che sono effettivamente delle urgenze mediche. Tuttavia, sono rari i casi in cui permette effettivamente di fare diagnosi nel contesto del dolore addominale (bassa sensibilità), soprattutto, come detto, se la patologia è ancora in fieri e non florida. La conclusione più logica è quindi la seguente: l’ecoscopia è da farsi, è uno strumento potente per il medico d’urgenza che permette di escludere con ragionevole certezza alcune condizioni cliniche potenzialmente molto pericolose ed instabili, ma qualora risulti negativa non permette di escludere una patologia evolutiva. In sintesi, anch’essa aiuta a discriminare le vere urgenze dalle non urgenze.
Dati interessanti emergono in merito da uno studio del 2009 pubblicato su Medical Care [10] che riporta come l’incremento dell’utilizzo dell’imaging (ecografia e TC addome, con e senza mdc) nelle fasi precoci di presunta malattia infettiva ad origine addominale non correli con l’aumento di diagnosi precoci di diverticoliti, colecistiti e appendiciti. È consigliabile perciò comunque aspettare più tempo, se la sintomatologia è insorta relativamente da breve, prima di eseguire imaging approfondito (leggasi TC addome). Le vere urgenze, come detto, dovrebbero essere evidenti già all’ecoscopia ambulatoriale.
E quindi come ci comportiamo?
Negli altri casi, in assenza di chiari criteri clinici di urgenza, anche senza una preliminare esecuzione di esami laboratoristici, si può mettere in pratica l’algoritmo per le non-urgenze. Ovvero è possibile e consigliabile aspettare almeno 24 ore dal primo accesso in Pronto Soccorso prima di eseguire gli esami ematochimici, aspettando cioè che il processo patologico faccia il suo corso e positivizzi gli esami. In base al contesto (affollamento del pronto soccorso, gestione domiciliare, compliance del medico curante) si può optare per
l’osservazione del paziente in Pronto Soccorso ed esami il giorno successivo, o dimetterlo con indicazione a una valutazione da parte del curante o in regime di DEA entro 24 ore.
Per definire meglio il concetto, possiamo introdurre l’espressione dimissione protetta.
Che cosa significa?
Fondamentalmente una dimissione che protegga il paziente, soprattutto, ma anche noi che dimettiamo. Deve essere chiaro il nostro atteggiamento e devono essere riportati in verbale i consigli dati al paziente in merito alla gestione domiciliare della patologia. Devono essere indicati i farmaci (con posologia) per il controllo del dolore, dei sintomi associati (nausea, vomito). Ma soprattutto deve essere chiaro che non lo stiamo dimettendo perché non ha nulla, ma perché la diagnosi non può ancor essere fatta e ci sono dei campanelli d’allarme che il paziente deve saper riconoscere e nel caso si presentino, tornare in Pronto Soccorso.
Pertanto probabilmente non esisterà mai un comportamento corretto per gestire il dolore addominale in pronto soccorso, perché il rischio non potrà mai essere ridotto a zero.
Quello che ho imparato ho cercato di riassumerlo in una flow chart da me ideata, utilizzando la letteratura in merito, nozioni cliniche e, soprattutto, il vaglio del mio mitico strutturato Dottor D.; per uniformarla al contesto clinico di tanti PS italiani ho considerato la significatività deli esami ematochimici alla stregua della loro necessità, secondo il medico di Pronto soccorso di essi come una delle variabili indipendenti. La necessità degli esami, come detto, dipende molto dall’atteggiamento clinico del medico accettante ed è comunque subordinata ad una approfondita valutazione clinica ed obiettiva. Obiettivo di questa flow-chart, con i sui limiti strutturali, può forse essere di spunto nel caso in cui vi troviate a dover gestire delle situazioni simili a quelle successe a me.
Grazie a tutti per essere arrivati fino a qui!
Bibliografia
1. Abualenain J, et al. The prevalence of quality issues and adverse out‑ comes among 72-hour return admissions in the emergency department. J Emerg Med. 2013;45(2):281–8.
2. Hayward J, et al. Predictors of admission in adult unscheduled return visits to the emergency department. West J Emerg Med. 2018;19(6):912.
3. Jimenez-Puente A, et al. Causes of 72-hour return visits to hospital emer‑ gency departments. Emergencias: Revista de la Sociedad Espanola de Medicina de Emergencias. 2015;27(5):287–93.
4. Liaw SJ, et al. Rates and causes of emergency department revisits within 72 hours. J Formos Med Assoc Taiwan yi zhi. 1999;98(6):422–5.
5. Wu C-L, et al. Unplanned emergency department revisits within 72 hours to a secondary teaching referral hospital in Taiwan. J Emerg Med. 2010;38(4):512–7
6. Li Tsung-Lin, et al. Predictors of 72-h unscheduled return visits with admission in patients presenting to the emergency department with abdominal pain. European Journal of Medical Research (2023) 28:288
7. Sarah L. Gans, et al. Guideline for the Diagnostic Pathway in Patients with Acute Abdominal Pain. Dig Surg 2015;32:23–31
8. Lameris W, van Randen A, van Es HW, van Heesewijk JP, van Ramshorst B, Bouma WH, et al: Imaging strategies for detection of urgent conditions in patients with acute abdominal pain: diagnostic accuracy study. BMJ 2009; 338:b2431
9. Laurell H, Hansson LE, Gunnarsson U: Diagnostic pitfalls and accuracy of diagnosis in acute abdominal pain. Scand J Gastroenterol 2006;41:1126–1131.
10. Pines JM. Trends in the rates of radiography use and important diagnoses in emergency department patients with abdominal pain. Med Care. 2009;47(7):782–6
Leggendo i tuoi casi mi sorgono due dubbi, oltre quelli che hai giustamente sottolineato e cui hai giustamente cercato di dare una risposta tu:
1) se possiamo attribuire 17 mila bianchi davvero SOLO al vomito, in un paziente con un dolore importante, ma soprattutto, con quanta certezza possiamo attribuirlo solo a quello. Abbiamo chiesto un esame per identificare un quadro infettivo; benché con scarsa specificità (pensiamo al vomito, infatti) è aumentato, e aumenta la mia probabilità post-test.
2) se possiamo davvero considerare una PCR 4 volte sopra il limite di norma dopo due ore dall’inizio dei sintomi come una PCR negativa, a maggior ragione in un giovane sano (pur considerando il fatto che la PCR ha uno scarsissimo valore predittivo nell’identificare i pazienti da trattenere e dimettere – o meglio, aggiunge molto poco a quella che è la valutazione senza).
Ultima considerazione: premesso che è evidente che sia la realtà in cui ci troviamo a lavorare e formarci, penso che sia davvero aberrante arrivare a pensare e scrivere “qualcuno di noi avrebbe potuto permettersi di trattenerlo in osservazione nel proprio pronto?”.
Lavorare in un sistema che ti fa arrivare a mettere in qualche modo a rischio la vita di una persona che a te si è affidata e a farlo sembrare una cosa “normale” dopo 3 anni di specializzazione penso sia una cosa che dovrebbe farci pensare molto (se cogli una critica personale, non è voluta, è un ragionamento di sistema, perché a me spesso viene il tuo stesso pensiero).
Ciao Marco, grazie per le tue domande. Innanzitutto tengo a precisare che i due casi clinici sono stati utilizzati solo come esempio ed introduzione all’argomento generale, e come giustamente fai notare tu, ci sono state delle criticità fin dall’inizio. I 17k bianchi, effettivamente, sono già di per sè molto oltre il limite di normalità e spesso un valore del genere correla con un’infezione in atto. Così come anche la PCR di 4, seppur non particolarmente elevata, è già patologica. Tuttavia, correlando i valori soprelencati alla situazione specifica (mai febbre, vomito alza i bianchi, dolore regredito dopo una dose di antidolorifico, volontà del paziente di andare a casa) abbiamo spinto per la dimissione. Ma è proprio questo il centro del discorso: da quanto ho visto finora può succedere che esami alterati non correlino per forza con patologia, soprattutto se all’inizio del processo infettivo. Ovviamete spesso pertanto capita di sbagliare.
Per quanto riguarda l’ultima osservazione, ovviamente, spero si sia colto un velo di ironia: per forza di cose, come è giusto che sia, nonostante il sovraffollamento se un paziente è considerato meritevole di osservazione una barella in DEA gliela si deve trovare. La mia frase s riferiva a quel meccanismo, per un problema di sistema e spazi, che spesso ci mette quasi un po’ di fretta nel cercare di dimettere i pazienti, (anche per non gravare sui colleghi, sugli infermieri ecc..); ciò non è giusto, ma anzi in questo pezzo ho cercato di proporre uno schema mentale che possa aiutarci anche in queste situazioni.
Grazie per il confronto!
In questo secondo accesso viene provato un cocktail farmacologico nuovo: metimazolo e ondansetron, ottenendo un buon controllo dei sintomi.
Sapete tutti perché è stata fatta questa assicurazione e allora vi do l’ occasione per spiegarmelo
Grazie a tutti
PS: ciò che non ci spieghiamo deve preoccuparci
Gianluigi, grazie del tuo commento. Nel post c’era un refuso, ora corretto, non si tratta dell’antitiroideo metimazolo ma di metamizolo (Novalgina). Spero che adesso l’associazione terapeutica sia più comprensibile
Ec: associazione
non sono assolutamente d’accordo nel criticare queste dimissioni, almeno al primo accesso.. è assolutamente difficile prevedere con certezza l’evolutività di questi pazienti, che son sempre difficili e rognosi. la verde è spesso più rognosa della rossa, lo dicono tutti
in un turno ne vedi tanti di pz, un tot che chiaramente non ha assolutamente nulla, un tot che ha chiaramente qualcosa, e un tot che boh.. su questi interviene la nostra bravura, ma è difficile filtrarli sempre al 100% per cui bisogna mettere in atto delle misure correttive e preventive (una terapia ex juvantibus, un rientro per rivalutazione, un controllo specialistico a breve, o anche solo una dimissione con scritti bene i motivi di allarme o rientro) in maniera tale che se sbagliamo a dimettere perlomeno ci mettiamo una pezza..
e non si dica che chi ha scritto il post ha ‘messo in pericolo la vita altrui’, perché se non dimetti non fai bene questo lavoro. e se non dimetti pazienti così descritti, almeno al primo accesso, non stai facendo bene questo lavoro, non ti metti in gioco, e scarichi la palla al collega dopo di te..
il pronto soccorso è apice e fondo della sanità, a mio vedere. apice perché è sempre aperto, dà sempre risposte, è un faro in una realtà difficile e spesso ombrosa, un appiglio per tutti i pazienti. fondo perché per lo stesso motivo è il cesso della sanità e tutti, paziente e colleghi di altre realtà, ci *** dentro 😀 noi che ci stiamo dentro abbiamo il compito di filtrare e pulire, di capire, e di svuotarlo anche a mani nude. se non lo svuoti si intasa e poi è sempre peggio. per cui ben vengano le dimissioni coraggiose, purché siano pensate e ragionate, ben vengano le rivalutazioni se qualcosa non ci convince. ma con le risorse che abbiamo a disposizione, pensare di tenere tutti in osservazione DENTRO il DEA, o di seguire le bellissime linee guida americane che però sono scritte nel mondo delle idee e dei sogni, è impensabile
risposta più sensata in assoluto. LG americane che sono scritte su studi condotti con cutoff di 65 anni, e noi che mediamente abbiamo una media in carico che ne ha 90.
Secondo me quel che conta più di tutto quando si fa una dimissione chiamiamola coraggiosa (cioè ho capito che potresti peggiorare ma credo tu non lo farai) piuttosto che boh (cioè non ho capito cosa tu abbia ma credo alla peggio non sia qualcosa per cui ti trovano freddo nel letto) l’importante è scrivere BENE in dimissione quello che si pensa come orientamento diagnostico, quelli che sono i consigli e i campanelli.
Le linee guida americane però son quelle che usano per farci il culo nei contenziosi..
Io avrei tenuto entrambi i pazienti almeno 12h, lavoro così, della tenuta del sistema ormai non me ne frega niente. Tutelo il paziente.. e me
Ciao a tutti
Si tutela il paziente fino ad un certo punto, un OBI pieno di pazienti ‘dimissibili’ con le giuste indicazioni implica un sovraffollamento che a sua volta conduce ad utilizzare più risorse (infermieri, OSS, TC, radiologi e noi) e che alla fine porta necessariamente ad un ritardo diagnostico anche importante. La gestione del PS non può prescindere dalla gestione dei flussi che, se non corretta, porta a saturare un sistema e alla fine a condurre errori ancora più gravi. Voglio vedere come fai a valutare un paziente se il tuo infermiere di OBI deve fare prelievi ed esami di controllo a 50 pazienti. Probabilmente avrai la riposta di quella PCR aumentata in 12 ore o quando si complica…
Ovviamente il tutto va fatto solo se la dimissione è fattibile e se il paziente comprende bene le indicazioni.
Mia personale opinione
Ma c’è un limite?
Perché se a forza di dire “fare il MEU vuol dire gestire i flussi” si sposta sempre più in alto l’asticella per mantenere un numero n di persone in OBI, anche io se fossi un politico continuerei a tagliare, onestamente.
Ok la gestione dei flussi, non mi trovi d’accordo sulle dimissioni “coraggiose” (perché la pelle non è la mia.)
La dimissione deve essere ben ponderata ovviamente sul paziente. Coraggio sì ma fino ad un certo punto. Quello che sto dicendo è che fare medicina difensiva alla fine porta comunque ad un danno al paziente che tra l’altro può risultare ben più grave. Un sistema bloccato e intasato porta a commettere molti più errori. Penso che tutti noi abbiamo svolto turni in ps dove le risorse erano esaurite e ci siamo ritrovati a visitare i pazienti in corridoio con ritardi diagnostici e terapeutici enormi annessi.. Bisogna trovare un buona compromesso anche perchè la risposta non può essere un banale: ‘chiediamo più soldi, più spazi e più personale’ perchè
in un giorno visiti una quindicina di dolori addominali e non puoi tenerli tutti ( dovresti avere OBI di 40 persone.. penso sia impossibile..)
Non mi sento affatto di criticare le prime dimissioni. Vero che il primo paziente aveva i bianchi aumentati, ma il resto degli esami erano obiettivamente “poco preoccupanti” (a parte la lipasi, ma che anche può essere spiegata dal vomito), con tutto il resto che non indicava patologie acute. Poi qui ci stiamo dimenticando qualcosa: e cioè il bias del sopravvissuto “al contrario”. Questi due pazienti ci saltano all’occhio perché sono rientrati e ci sembra di “aver sbagliato”… ma quanti li abbiamo mandati a casa e sono andati bene? Il nostro compito è questo: stratificare e stabilizzare. Il paziente aveva una patologia acuta? Non che fosse obiettivabile (dove lo metti quel paziente? Perché? Per cercare cosa? Per rifare degli esami ematochimici e sperare che uscisse qualcosa?). Era stabilizzato? Sì. E allora la dimissione non è stata “sbagliata”. Fermo restando che se hai dei dubbi è meglio consegnare un paziente che rischiare di farlo rientrare, ma qui dubbi non mi pare potessero esserci.
Ecco, una cosa che però mi lascia stupito, soprattutto nel primo paziente, è piuttosto non aver escluso una possibile origine cardiologica del dolore. 60enne con fattori di rischio… una troponina ed un ECG se lo meritava.
P.S.: un rientro dopo 72 ore è una dimissione impropria? Cioè se io mando a casa una sciatalgia e quello torna dopo 24 ore perché io sono l’unico che gli da un antidolorifico ho fatto male il mio lavoro?
P.P.S.: quei criteri per decidere chi ha bisogno di essere trattenuto mi sembrano poco funzionali, soprattutto per quanto riguarda il dolore addominale. Quanti pazienti vediamo con dolore addominale di meno di 40 anni ed a cui non chiediamo esami?
P.P.P.S.: il metamizolo? Perché?
Ciao Gabriele! Grazie per il tuo commento. Come già detto da Carlo in un commento precedente ho commesso un refuso: non metimazolo ma metamizolo (Novalgina). Per quanto riguarda i criteri di trattenimento in DEA ovviamente molto dipende dal contesto in cui si lavora: lo studio che ho riportato è stato condotto in Taiwan, in un contesto sanitario diverso dal nostro, pertanto ovviamente costituisce solo uno spunto ma può essere senz’altro migliorato ed adattato al nostro contesto clinico. Per rispondere alla prima domanda, invece, le 72 ore come discrimine per un ritorno improprio nello studio da me considerato erano relative ai pazienti con dolore di origine addominale; nei restanti casi non ho trovato letteratura in merito.
Bel post!!
Anche io mi sarei comportato lo stesso modo. Forse in un quadro così “sporco” avrei anche prescritto degli ematici di controllo da fare a breve raccomandando di farli vedere al mmg.
Dobbiamo anche ragionare/far ragionare i nostri amministratori riguardo ad una continuazione di cure nell’ambito territoriale (che ahimè può deficitare in determinate situazioni determinando tutte quelle situazioni di crowding che ci troviamo spesso ad affrontare).
Sarebbe bello (ma non so se possibile) fare uno studio su questi riaccessi e vedere come e se vengono agganciati dalla medicina territoriale.
Casi clinici ben descritti. Una domanda; come il vomito al livello fisiopatologico determini un aumento dei globuli bianchi. Me lo sono chiesto numerose volte.