Parliamo di Burn Out.
Davvero lo vogliamo fare? Vogliamo dedicare del tempo ad una condizione su cui altri (medici, psicologi, sociologi) hanno speso tempo e parole prima di me, senza riuscire a trovare una soluzione?
Il viaggio nei lati oscuri della medicina d’emergenza volge al termine: siamo all’ottava tappa, e a farci da guida è Brain Damage, l’ottava canzone di The Dark Side of the Moon. La canzone della follia, dell’isolamento, della fuga dalla propria realtà.
La canzone del burn out, allora.
Di questa sindrome dal nome terribile si è detto di tutto, e di tutto si potrebbe dire.
Sicuramente, si continuerà ancora a lungo a parlare di burn out, ma quello che non si riuscirà a fare, sarà il trovare una soluzione, forse perché non si comprende appieno il problema.
Perché il burn out non è un problema del singolo medico o infermiere che deve essere curato, o blandito per fargli amare nuovamente un lavoro che lo ha logorato: il burn out è conseguenza di un problema del sistema.
Mafalda sosteneva che il mondo era malato: e quando il personale della rete dell’emergenza diviene vittima del burn out, possiamo affermare che sia malato il sistema, e il burn out dei dipendenti sia solo un sintomo di una malattia del sistema.
Il primo post di questa serie si occupava di come nasce un medico d’emergenza, e si parlava della follia come requisito fondamentale per poter amare un lavoro bello e complesso come il nostro, un lavoro che ha pochi eguali nel novero delle professioni sanitarie; e in altre tappe del viaggio abbiamo affrontato le problematiche connesse alla nostra organizzazione, che vede professionisti motivati e consapevoli della scelta che hanno fatto (o felici del caso che li ha spinti a fare questo mestiere, come è accaduto a me), accanto a medici che sono entrati in pronto soccorso ma che ambiscono a fare altro.
Ecco, il nodo della questione è qui: il burn out è una sindrome reale, che colpisce davvero chi deve affrontare quotidianamente condizioni critiche e di emergenza (medici, infermieri, poliziotti) e che richiede una pianificazione di tipo organizzativo, come dei percorsi di debriefing quando accadono eventi particolarmente stressanti o traumatici. Ma gli eventi stressanti e traumatici, nel nostro lavoro, per fortuna non sono così frequenti, mentre l’urgenza, quella vera, costituisce il sale della nostra attività: casi che a volte vanno bene, a volte no, ma l’impegno è sempre al massimo; e quindi? cosa è il burnout per il professionista dell’emergenza? non parliamo dei colleghi costretti ad un lavoro che non appartiene loro, per i quali lo stress è insito in una condizione professionale non congeniale, dalla quale vogliono fuggire il prima possibile; no, vorrei capire che cosa può essere il burn out per un professionista che ha scelto la via dell’emergenza-urgenza. Perché tante persone motivate, appassionate della medicina d’emergenza-urgenza, scappano da questo mondo? Non di certo perché incapaci di sopportare ulteriormente lo stress.
Il problema è altrove, ed è così evidente e banale che non dovrei neppure scriverlo: scappano perché non svolgono il lavoro che hanno scelto o imparato a fare, scappano per le carenze organizzative che li costringe a farlo male, quello stesso lavoro che hanno scelto o imparato a fare, scappano perché non ci sono posti letto, scappano perché in una notte devono visitare una miriade di persone molte delle quali per prestazioni ambulatoriali, scappano perché le strutture scoppiano a causa del sovraffollamento, e scappano perché vittima di aggressioni fisiche o verbali da parte di pazienti o di familiari esasperati da un sistema in crisi. Scappano per via di alcuni dei problemi della medicina d’emergenza che abbiamo affrontato nelle varie tappe del viaggio, e in effetti il burn out è la dichiarazione di fallimento, la discesa nel lato oscuro della medicina d’emergenza, il problema dei problemi perché difficilmente ha una via d’uscita.
“Ti vedrò nel lato oscuro della luna”, canta Roger Waters in Brain Damage: e se un professionista può esser curato da un burnout canonico (o meglio, se un burnout canonico può esser evitato grazie ad una buona organizzazione), come si può curare il burnout se è sostenuto da situazioni organizzative non modificabili? se un medico è esasperato per l’impossibilità a ricoverare i pazienti dopo la stabilizzazione per via della cronica carenza di posti letto, possiamo curarlo per farlo nuovamente lavorare nella medesima situazione? Ecco, il mondo è malato, diceva Mafalda, e se ad esser malato è il sistema sanitario in cui prestiamo la nostra opera di urgentisti, dovremo trovare una cura per risolvere i suoi problemi: solo in questo caso potremmo davvero svolgere il nostro lavoro senza (troppi) rischi di divenire vittime del burnout.
Ma sarà davvero possibile? potremo davvero pensare di correggere le tante magagne che intoppano il nostro cammino? la carenza di personale? la carenza di personale motivato? la carenza di posti letto? le carenze degli altri servizi che ci condannano ad un overcrowding perenne? forse no, per quanto una sterzata dovrà essere necessaria altrimenti i pronto soccorso diverranno ambulatori che si occuperanno solo marginalmente dell’emergenza-urgenza.
E’ vero che il pronto soccorso ha un ruolo sociale (“il faro nella notte”), ma attenzione: è un ruolo che abbiamo iniziato a coprire perché era necessario, non perché lo abbiamo scelto; e la stessa immagine del faro nella notte (secondo le parole di Fabio De Iaco stesso, l’autore della metafora nella bellissima lezione sull’etica in medicina d’emergenza all’apertura dell’ultimo congresso nazionale SIMEU) non vuole essere una metafora eroica, perché è vero che il pronto soccorso è un faro nella notte, ma lo è non per scelta, ma perché è l’unica luce accesa, quando tutte le altre sono spente. E quindi, continueremo a svolgere questo compito, ma a prezzo di professionisti capaci e motivati che prima o poi cercheranno altri lidi se non si corre ai ripari.
Se la medicina d’emergenza-urgenza richiede una dose di follia, allora il burnout in questi casi è un rinsavire, è il vedere con lucida chiarezza l’esistenza di problematiche organizzative che ostacolano il nostro lavoro. E quando questa lucidità compare, è difficile rituffarsi a testa bassa nel lavoro con la stessa leggerezza e serenità di prima.
Una soluzione sarà possibile, dovrà essere possibile, ma dovremo pazientare ancora a lungo, con il rischio concreto di vedere scivolare nel lato oscuro della medicina d’emergenza molti medici ed infermieri, incapaci di uscirne e di ritrovare quella gioia che il loro lavoro aveva donato fino a poco tempo prima.
Eppure, una soluzione deve esistere, ma credo che non possa essere una soluzione universale: chiunque abbia visto il lato oscuro del burnout può, deve trovare una strada propria. Come ha detto David Gilmour in una recente intervista “In ogni momento della nostra esistenza, anche in mezzo al caos, è sempre possibile trovare bellezza e speranza”.
Sperando che possa essere vero anche per il nostro lavoro.
(to be continued)
TERMOPILI
Onore a quanti in vita
si ergono a difesa di Termopili.
Mai che dal dovere essi recedano,
in ogni circostanza giusti e retti,
agendo con pietà, con tenerezza,
generosi se ricchi, generosi
ugualmente quanto possono se poveri,
conformi ai loro mezzi sempre sovvenendo
e sempre veritieri ma senz’astio
verso coloro che mentiscono.
E un onore più grande gli è dovuto
se prevedono (e molti lo prevedono)
che spunterà da ultimo un Efialte
e che i Medi finiranno per passare.
(Costantino Kavafis)
Grazie Giuseppe, di questo commento, ma speriamo di resistere e non finire soverchiati!
ribaltare i punti di vista per trovare una soluzione pratica e realizzabile. l’ospedale come pensato 30 anni or sono con corsie e letti di numero infinito, non ESISTE piu’. farsene una ragione una volta per tutte. pronto soccorso inteso ormai come UNICA risorsa che il SSN mette a disposizione del cittadino. sorta di DAY-HOSPITAL H24 che comunque sia sopperisce ale note carenze del territorio. arriva polmonite critica? iniziare subito in dea migliore terapia possibile fornendo la MIGLIORE assistenza possibile in dea. barella che a tutti gli effetti ormai sostituisce il letto oramai scomparso. dopo i canonici 5 gg di attesa del posto letto, piu’ di qualcuno va meglio ed e’ dimissibile. insomma, un crollo verticale dell’assistenza ” alberghiera” ma una ottimale assistenza medica. e allora, altro che burn-out. al suo posto ORGOGLIO e senso di soddisfazione enorme per un ruolo di grande importanza ed assoluta UNICITA’
Luigi, anche io sono orgoglioso del nostro ruolo, unico e importante, e sono convinto che non possiamo tirarci indietro perché altrimenti i pazienti potrebbero perdere un alleato importante. Però ho due considerazioni: la prima, molti colleghi capaci e appassionati come è più di me iniziano ad essere stanchi di questo carico di lavoro che, comunque, non dovrebbe competerci, e quindi questo è un problema di cui tenere conto; la seconda, come dice Igor in Frankenstein jr, potrebbe andare peggio: potrebbe piovere… Ovvero, se oggi ci viene chiesto dieci, domani sarà dodici e così via, e fino a quando riusciremo a garantire una assistenza degna, dignitosa e valida?
L’unico punto che non condivido, è oltre concetto della barella. Dobbiamo essere noi ad essere indignati e lottare perché non accada. Il signore anziano, che ha pagato tasse per ottant’anni, ha il dovere di una assistenza dignitosa in un letto, non in un corridoio affollato.
il burn-out puo’ in parte essere contrastato da queste semplici considerazioni
1* l’ospedale come luogo di cura e diagnosi ormai appartiene al passato
2* il reparto, la corsia vivono nei nostri ricordi
3* esiste ancora una discreta capacita’ di cura per alcuni pz selezionati chirurgici o acuti-iperacuti
4* nel deserto assistenziale del territorio il dea e’ il faro che illumina la notte
5* pz con polmonite? preso in carico dal DEA. il medico del pronto soccorso stabilisce iter diagnostico e terapeutico. lo cura AL MEGLIO e dopo 4-5-6 gg di barella , ahime’, se possibile lo invia al domicilio.
6* altro che Burn-out. al suo posto, dobbiamo avere un senso di ORGOGLIO-UNICITA’-CONSAPEVOLEZZA del nostro ruolo
7* spiegare ai parenti SEMPRE che il goal assistenziale e’ curare il parente. NON il posto letto. il nonno e’ qui in DEA da 2 ore. appena visitato ha iniziato la terapia del caso. rimarra’ qui’ 24-48-72….ore. al termine si vedra’ cosa e’ possibile fare. chiedo scusa per la prolissita’
Alcuni problemi del nostro lavoro che secondo me ci espongono al rischio di burn out.
– consapevolezza che le cose non potranno che peggiorare (nessuno ci ascolta)
– cronica carenza di personale (il riposo, nel nostro lavoro, e’ sacrosanto, non siamo martiri)
– nessuna progressione di carriera (ci chiamano dirigenti: ma fatemi il piacere….)
– nessun riconoscimento economico per il plus lavoro svolto (ma neanche nessuno che ti dica: bravo, hai lavorato bene)
. mancato riconoscimento di lavoro usurante (ma come vi sentite, come siete al rientro in famiglia dopo un turno di 12-18 ore? cosa vi dicono i vostri familiari?)
– ostilità e ostruzionismo dei colleghi (nessuno si prende più uno straccio di responsabilità: meglio che lo faccia il medico di ps, no?)
– mancanza di qualcuno che ti possa ascoltare, con cui parlare dei problemi sul lavoro (uno psicologo?)
Scusate il pessimismo (saranno mica i primi sintomi di burn out?)
No, non sei in burnout! Hai solo una lucida comprensione di qualche piccolo problema connesso al nostro lavoro! Problemi che dovranno essere affrontati, ad ogni buon conto…
bel post, davvero
per terminare in bellezza il lato oscuro della MEU
a
Grazie!!
Sono in PS per scelta da più di 15 anni e ho avuto varie fasi di burn out e ogni volta ne sono uscito trovando un nuovo motivo per fare questo lavoro. Però, più vado avanti e più mi rendo conto che il vero nocciolo della questione non è tanto lo stress, il carico di lavoro, il personale risicato, i malati in barella, le notti sfiancanti.. il vero primario problema è la totale assenza di riconoscimento sociale del nostro valore. Ci rendiamo conto che sono morti 300 medici nella sola prima o data di covid? Ci hanno fatto un applauso alla finestra e poi via, tutto come prima: aggressioni, denunce, accessi impropri come se nulla fosse…. Il vero problema è la cittadinanza, gli stessi “pazienti” , l egoismo che tante volte manifestano di fronte alle oggettive carenze di risorse che impongono di dedicarsi ad altri pazienti più gravi… Questo è il mio burn out di adesso e non so quale sarà il nuovo motivo che potrò trovare per fare ancora con convinzione questo nobile lavoro ..
Bellissime tutte queste analisi della situazione. Ma la soluzione secondo te chi la deve trovare se non noi stessi? L’esonerarsi dal peso (sicuramente gravoso) di DOVER trovare una soluzione, su più piani, lascia tutte queste belle frasi un pò fini a sè stesse, un pò uno sfogo che ci fa sentire tutti partecipi alla stessa “sciagura”, una grande famiglia. Bello sì. Io sono convinta che dovrebbe cambiare il modo di affrontare questa disorganizzazione della sanità. Siamo noi che dobbiamo cambiare le cose, farci venire le idee, essere propositivi e dedicare le nostre energie (residue) a fare qualcosa piuttosto che lamentarsi di ciò che non viene fatto. Ne va dl futuro della nostra professione (e professionalità!)
Grazie per il commento…
Per risponderti: intanto, questi post nascevano come analisti dell’identità del MEU, e questo post, in particolare, era una critica al concetto del burn out. Sul lavorare per non subire, mi trovi d’accordo. Nessuno vuole esonerarsi. Siamo impegnati a più livelli per cambiare le cose. Per poter cambiare le cose in ogni reparto, però, è necessario avere il supporto di tutti, altrimenti è molto difficile. Ma nel piccolo di un turno, il nostro lavoro ha molti “lati oscuri”, che sono stati affrontati in questi post, fino alla conclusione, che arriva ad una realtà diversa.