Un altro giorno di ordinaria follia nel DEA COVID
E’ fine Aprile, sono le 8 di mattina e sono pronto a iniziare l’ennesimo turno nella cosiddetta “zona filtro”, un’altra delle straordinarie innovazioni dell’era COVID. Perché sì, in tempo di pandemia, non abbiamo visto altro che pazienti COVID. Ma in men che non si dica, quasi senza accorgencene, è di nuovo cambiato tutto.
E’ tutta una questione di… probabilità
COVID19 è una sindrome eterogenea, dagli asintomatici alle ARDS gravi; non esistono casi bianchi e neri come dicono in televisione e nei giornali, bensì una cinquantina di sfumature di grigio di pazienti non-A non-B (per citare i tempi dell’ancora sconosciuta epatite C).
In questi giorni sono stati creati in tanti ospedali i reparti “grigi”, molto spesso delle zone del pronto soccorso dove i pazienti rimangono in attesa di definizione di malattia. Viene chiamata “zona filtro”, ma forse andrebbe chiamata “zona non ci ho capito niente”.
In questo Purgatorio tutti i pazienti sono accomunati dagli stessi sintomi che riecheggiano ormai da più di un mese nei nostri DEA: TOSSE / FEBBRE / DISPNEA.
A ognuno di loro però mancano dei dati per concludere il loro iter diagnostico e trovare la collocazione definitiva: chi attende l’esito del tampone, chi il tampone lo ha negativo ma ha il ground glass alla TC, chi aspetta la sierologia, chi ha una storia clinica non chiara, residenti in RSA, ecc ecc.
Il compito della zona filtro è confermare o escludere la diagnosi di COVID e collocare i pazienti nei reparti puliti e sporchi.
A me a questo punto sorge un dubbio. Ci hanno insegnato che si curano i pazienti, non si curano le malattie. Non si deve ricercare affannosamente una diagnosi, soprattutto se questo porta a ritardi nell’inizio di una terapia o ancora peggio a iniziare una terapia presuntiva/sbagliata.
Ma torniamo al mio turno… Comincio scorrendo le consegne di pazienti, ci sono 7 pazienti da visitare e da “smistare” che sembrano il gioco trova le differenze della settimana enigmistica. Noto con piacere che ci sono pazienti ricoverati tra i “misti” da qualche giorno, brutto segno.
Primo paziente: Tampone positivo!! E’ arrivato nella notte l’esito! Facile, reparto Covid. Diagnosi confermata. Polmonite COVID +, ricovero, protocolli farmaci CPAP tocilizumab… tutto chiarissimo. Tiro un sospiro di sollievo e spengo il cervello per qualche minuto.
Cominciano le difficoltà…
L.A. (PAZIENTE 1)
51 anni, maschio, gode di ottima salute, nessuna patologia di rilievo. Febbre tosse dispnea da 3 settimane. Tampone eseguito in altro PS negativo. In corso nuovo tampone. All’Rx addensamento basale sx con ipodiafania basale, ispessimento dell’interstizio polmonare. Consegna: sierologia in corso.
La sua sierologia è negativa, lui è spazientito, sta male da quasi un mese e chiede: “cosa ho secondo lei?” e il pensiero in automatico è “ha il COVID, ma con tampone negativo”. Dopo settimane di solo COVID abbiamo dimenticato cosa siano le differenziali. Rifacendo l’anamnesi, richiediamo se avesse avuto contatti con pazienti covid, o se in famiglia qualcun altro avesse avuto sintomi e ci dice che moglie e figlia stanno bene entrambe. Probabilmente saranno asintomatiche o lievi come la maggior parte delle donne.
Uno sguardo agli esami alla ricerca di conferme, i globuli bianchi sono alti, neutrofilia, ma evviva i linfociti sono bassi. La PCR è alta e la procalcitonina solo lievemente modificata. Cosa manca per arrivare alla diagnosi? La TAC, certo… se ha la polmonite interstiziale diagnosi confermata alla faccia del tampone.
Richiediamo un HRTC e visitiamo il Sig. F.R.
F.R. (PAZIENTE 2)
ha 84 anni, maschio. Un nonnino in gamba, con febbricola da 3 settimane, mialgie. È già in terapia con plaquenil e azitromicina che gli ha dato il curante, ma continua ad avere febbre quindi è venuto in ospedale. Ega perfetto, all’Rx torace ispessimento della trama broncovascolare. In corso emocolture fatte in corso di puntata febbrile.
Consegna: Tampone in corso. RX torace dubbia e ecotorace negativo. Richiesta TAC.
Lui sta bene, è sfebbrato da quando è arrivato, i suoi esami non dicono molto, non è linfopenico, la PCR è 60. La Tac è pulita, non ha nemmeno uno sputo di ground glass. E’ arrivato persino il tampone che è negativo.
Rifacciamo l’anamnesi, il suo unico sintomo è la febbre, mai altissima, non ha la tosse, e il fiato gli manca solo per sforzi minimi. Ma ha 84 anni, una cardiopatia fibrillante e una TAVI quindi la dispnea da sforzo può essere legata a quello.
Sarà una forma lieve, ha già anche fatto il plaquenil a casa, per questo non sta male, il tampone negativo, un falso oppure ha già clearato il virus nelle mucose.
A questo punto arriviamo da..
T.R. (PAZIENTE 3)
maschio 51 anni. Proveniente dalla shock room. Arrivato per febbre e insufficienza respiratoria e diarrea, ha poi sviluppato un quadro di shock settico e insufficienza renale. Tampone negativo, ma è linfopenico e ha polmonite interstiziale alla TAC. Consegna: vedi sierologia.
Ora sta bene, gli esami migliorati, la creatinina rientrata, la pressione buona senza amine e respira bene.
Da quanto tempo stava male per arrivare così mal ridotto in PS a 50 anni di età? Lui dice che sta male da ottobre…ma com’ è possibile?! il COVID nemmeno esisteva a ottobre, ma tanto i pazienti esagerano sempre (penso io, ndr). Sta pranzando con del brodino e lo yogurt, gli brucia la gola ci dice. Fa fatica a deglutire e il cibo non va giù bene.
Gli chiediamo di tirare giù la mascherina e, guardando il cavo orale, noto che ha anche la candidosi orofaringea. Poverino, sto COVID l’ha proprio debilitato.
Il quarto paziente è..
V.S. (PAZIENTE 4)
62 anni, maschio anche lui (come tutti i COVID no?). Sempre in buona salute, viene in pronto per dispnea e astenia ingravescente nelle ultime 2 settimane. Gli rifaccio l’anamnesi, tutto era iniziato con 2 giorni di febbre sui 38.5, poi regredita. Ha assunto amoxi/clavulanato come da indicazione del curante. Da lì in poi, non più febbre ma tanta dispnea, soprattutto per sforzi minimi. Tampone negativo, ematici di norma, RX dubbia. Prendo il mio amato ecografo e comincio a guardare il torace; versamento bilaterale con sindrome interstiziale diffusa a linea pleurica regolare, non addensamenti. Mi si accende una lampadina, e se la dispnea fosse di origine cardiaca? FE ridotta, intorno al 25%, non versamento pericardico e cuore dx di norma. Miocardite? Chiedo una consulenza cardiologica e aspettiamo (chissà se il cardiologo scenderà giù stavolta, penso tra me e me).
Ed ecco che piano piano gli esami mancanti arrivano…
Arriva la Tac di L.A. (PAZIENTE 1), convinto di trovare la polmonite interstiziale e invece… ha una “banale” polmonite lobare sinistra, con versamento organizzato, ispessimento e infiammazione della pleura, sospetto empiema pleurico. Una diagnosi semplice, che in era non covid avremmo pensato subito, ma che ora ha richiesto molto più sforzo mentale e diagnostico.
Arriva la sierologia di T.R. (PAZIENTE 3) negativa anche lei. Possibile? Quale il prossimo step diagnostico, il BAL? Intanto ripensando ai suoi esami, alla linfopenia marcata, al mughetto, ai sintomi che dice essere lì da prima che il coronavirus comparisse a Wuhan, ci lanciamo (uso il plurale perché ho chiesto aiuto a un collega) in una diagnosi alternativa, facciamo partire un test HIV e una tipizzazione linfocitaria. Bingo: HIV + e 50 linfociti Cd4.
Ed ecco la tanto agognata diagnosi: AIDS! Senza dimenticare però la polmonite interstiziale… cambia il setting, cambia la probabilità pre-test di malattia… e se fosse Pneumocistis Jirovecii? SPOILER: confermato al BAL dell’indomani.
A conclusione di questo turno rimane da decidere cosa fare di F.R. (PAZIENTE 2), lui non aiuta, dice che sta bene, vuole andare a casa, la febbre non è alta, ma noi non abbiamo capito cosa abbia.
Dopo le batoste precedenti, ridiamo spazio all’anamnesi del paziente, anziano, cardiopatico valvolare (TAVI), con la febbre persistente, e se non fosse mai stato coronavirus? Stalkero la microbiologia per sapere delle emocolture, cocchi gram + a catenella che crescono su due campioni. Endocardite? Richiesta di un EET (chissà se lo faranno, penso di nuovo tra me e me) e ricoveriamo il paziente in medicina per l’endocardite.
Covid sì o no?
Al termine di questa giornata, rianalizzando mentalmente questi pazienti, non si può non essere soddisfatti delle diagnosi fatte, nonostante il ragionamento clinico sia stato viziato da errori cognitivi non indifferenti.
Facciamo un po’ di debriefing…
Euristica della disponibilità (availability bias) induce a giudicare più alta la probabilità di un evento se un maggior numero di eventi simili può essere facilmente richiamato alla memoria. L’euristica della disponibilità può portare a giudizi clinici “viziati”, in quanto più un certo tipo di evento è disponibile in memoria, più frequente sarà il suo utilizzo.
Anchoring bias: consiste nella tendenza a fissarsi prematuramente su una singola diagnosi basata su poche caratteristiche iniziali e non modificare il pensiero nel momento in cui nuove informazioni diventano disponibili.
Simile ad esso, il Diagnosis momentum bias, la difficoltà a togliere l’etichetta al paziente. Nel momento cioè in cui una diagnosi viene formulata diventa più complesso rimuoverla e reinterpretare i sintomi.
Ancora e strettamente connesso, il Confirmation bias, che riflette la tendenza a cercare dati che confermano l’ipotesi piuttosto che dati che la escludano (es. porre le domande in base alle risposte che vogliamo ottenere). Il vero arcinemico del ragionamento scientifico. Fa sì che i dati oggettivi vengano riletti, analizzati ed anche trascurati per ottenere il risultato che nella nostra mente vogliamo ottenere.
Infine, il premature closure bias, la tendenza cioè a concludere il ragionamento diagnostico prematuramente non appena avvicinata una diagnosi, senza raccogliere completamente i dati o esplorando ipotesi alternative rilevanti.
La probabilità pre-test di malattia…
La prevalenza di malattia nella popolazione da cui proviene uno specifico paziente può essere interpretata come probabilità pre-test (o probabilità a priori) di quel particolare paziente.
Conclusioni…
Il ragionamento clinico deve sempre partire dalla probabilità pre-test di malattia, legata alla prevalenza della malattia.
In tempo di pandemia il nostro cervello ha chiaramente messo in atto delle “scorciatoie” cognitive, le cosiddette euristiche, che ci hanno aiutato nel momento della crisi. Ma, al contempo, ha reso più faticosi e complessi i processi diagnostici per arrivare ad altre diagnosi.
Se da un lato è vero che in tempo di pandemia la prevalenza dell’infezione da coronavirus è stata sicuramente più elevata di tutte le altre malattie, con il passare dell’epidemia la probabilità pre-test di malattia sarà sempre inferiore.
Bibliografia
- “LIBRO DI GRAMMATICA 2013”, a cura del GRUPPO DI AUTOFORMAZIONE METODOLOGICA (GRAM)