giovedì 21 Settembre 2023

Il paziente ha sempre ragione? Parliamo di dolore…

charlie-brown-argh“Far mostra d’un dolore non sentito è una parte che san bene recitare gli ipocriti.” William Shakespeare, Macbeth

La domanda che segue può apparire banale, ma in realtà rappresenta uno dei problemi principali nella pratica quotidiana degli infermieri e dei medici di pronto soccorso. Il dolore può essere valutato dall’esterno? Un infermiere o un medico possono permettersi di giudicare attraverso quella stanza priva di porte e di finestre che è il dolore di un paziente?

 Ovviamente no.

 Ma vorrei riformulare la domanda: il dolore in pronto soccorso può essere valutato dall’esterno? Un infermiere di triage o un medico di pronto soccorso possono permettersi di giudicare il dolore del paziente che stanno valutando?

 Ovviamente no. Ma con qualche riserva. Perché il mondo del pronto soccorso è del tutto particolare.

 Perché la gestione del dolore in pronto soccorso è particolarmente problematica? E perché la scienza della misurazione del quinto parametro vitale, ossia il dolore, in pronto soccorso si tramuta sempre più spesso in un’arte? Attenzione, perché il problema è rilevante, se pensiamo che fino al 70% degli accessi di pronto soccorso avviene per un qualche tipo di dolore. Noi siamo portati a parlare di infarto miocardico, di diverticolite, di fratture: ma le persone cercano il nostro aiuto per un dolore toracico, un dolore addominale, un dolore conseguente ad una caduta: il resto, la diagnosi, per esempio, viene dopo, in un secondo tempo.

 

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Parliamo di scale valutative del dolore, parliamo della loro storia. Il dolore, in quanto tale, ha una storia antica come l’uomo; la scienza della sua misurazione invece ha una origine molto più recente, e si concentra negli ultimi cento anni. Attraverso studi di vario genere (tra cui studi in cui si inducevano vari tipi di dolore nei volontari partecipanti, anche mediante la stimolazione della polpa dentaria – per fortuna sono nati i comitati etici…) si è dimostrato in modo sempre più chiaro come il dolore non possa in alcun modo essere misurato con modalità scientifica. A ben pensarci, il sintomo dolore rimane una delle questioni irrisolte della medicina moderna: possiamo misurare all’istante la concentrazione di ossigeno nel sangue con una semplice luce, monitorare a distanza i nostri pazienti, effettuare ecografie con apparecchi sempre più portatili, valutare un’emogasanalisi direttamente in ambulanza. Ma non possiamo in alcun modo misurare il dolore di un paziente. Dovremo sempre basarci sulla sua dichiarazione.

 

E qui nascono i problemi, perché l’entità del dolore riferita da un paziente al triage condiziona l’intero flusso di lavoro del pronto soccorso. E’ evidente: se  il paziente dichiara di avere un dolore severo (da 7 a 10 su una scala numerica), non richiede solo un trattamento immediato, ma anche adeguato, ossia con analgesici potenti come gli oppiacei. E quanti sono i pazienti che si presentano al triage dichiarando – per qualsiasi tipo di problema – un “dolore pari a 10, anzi 11”?

 

Queste righe nascono dalla lettura di un post pubblicato qualche anno fa,  di cui ignoravo l’esistenza e per il quale ringrazio Felix Arcamone per la sua condivisione nel gruppo Facebook della SAU. Il post in questione tratta l’argomento della valutazione del dolore in triage, ma  riguarda la realtà americana, dove la dipendenza da oppiacei e i pazienti che ricercano oppiacei sono un problema frequente: e se questo problema non ci riguarda (perché forse ancora lontano nel tempo), comunque solleva alcune questioni che possiamo fare anche nostre.

 

Non ho una spiegazione del motivo per il quale molti pazienti in triage dichiarino dolori particolarmente severi anche per situazioni in apparenza banali, ma il fatto che sia un problema così diffuso e presente anche in altre realtà mi induce a pensare che nasconda una spiegazione più profonda, insita nella natura umana più che nelle singole realtà contingenti. E allora cerchiamo di dare una spiegazione al fenomeno:

1.   LA SPIEGAZIONE SCORRETTA: il paziente arriva nel triage di un pronto soccorso sovraffollato e vuole “barare” per passare prima. “Se dico che ho poco dolore per la mia caviglia distorta, trascorro la giornata in sala d’aspetto. Adesso rispondo che ho un dolore insopportabile”. Se questo può esser vero per alcuni pazienti, tuttavia non rappresenta la verità per la maggior parte dei casi osservati.

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2. LA SPIEGAZIONE SCOLASTICA: “quanto dolore ha, da 1 a 10?”, è una domanda banale, semplice, eppure sottintende dei richiami a qualcosa che per la maggior parte delle persone è un ricordo lontano: la scuola. Da 1 a 10 è il risultato di un tema, di una prova di matematica, è il voto di rendimento. Affermare di avere un dolore pari a 4 non significa non raggiungere la sufficienza? Se dichiaro un dolore pari a 4, non significa ammettere di non avere un dolore meritevole della mia visita in PS? Allora posso pensare che alcuni pazienti siano portati a sovrastimare, inconsciamente, per giustificarsi, per ammettere la loro presenza in pronto soccorso. Anche questa teoria, forse valida per un maggior numero di pazienti rispetto alla precedente, non mi convince ancora del tutto.

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E quindi passiamo all’ultima, 

 3. LA SPIEGAZIONE RELATIVISTICA: ossia, che diamine di domanda è: che dolore hai da 1 a 10? pensiamo ad un paziente giovane, con una “banale” distorsione tibiotarsica. Per noi può essere banale perché nella sala accanto abbiamo appena accolto un paziente con un infarto miocardico, ma per quel ragazzo tanto banale non lo è, se magari gli impedisce di partecipare a quella partita di calcio a cui pensava da giorni, o andare alla festa dell’amico, o a partecipare alla gita di classe. E poi, il paziente potrà ben immaginare che il dolore di una frattura sia peggiore, ma in quel momento lui è concentrato sulla sua “banale” caviglia, e il dolore, in quel momento, è comunque intenso.

 

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Infatti, a ben guardare, le scale di valutazione del dolore sono nate grazie agli sforzi dei fisiopatologi, ma si sono poi diffuse nell’ambiente oncologico e in quello delle cure palliative. In questi contesti hanno indubbiamente un ruolo essenziale, soprattutto per valutare la risposta alle terapie analgesiche. “Rispetto all’ultimo incremento di posologia di morfina, il dolore è aumentato o diminuito?”, questa domanda presuppone una continuità, un rapporto fiduciario tra il team sanitario ed il paziente; e presuppone una interazione, una conoscenza reciproca che permette una risposta “utile” da parte del paziente; e soprattutto, è una risposta ad una domanda inerente ad un dolore cronico, le cui variazioni il paziente purtroppo ha imparato a conoscere.

Ma in Pronto Soccorso? noi non conosciamo il paziente (siamo portati a pensare che stia esagerando), il paziente non conosce noi (è portato a pensare che vogliamo lasciarlo in sala d’attesa di proposito perchè siamo cattivi), ma soprattutto il paziente ha un dolore che nella maggior parte dei casi prima di quel momento non esisteva: non esisteva il dolore alla caviglia prima della caduta, non esisteva il dolore addominale, non esisteva il dolore alla mano, e così via. Davvero possiamo colpevolizzare il paziente se tende a sovrastimare?

 

No, non possiamo.

 

E allo stesso tempo non possiamo neppure, dall’esterno, giudicare il suo dolore e declassarlo se riteniamo che stia esagerando. Non sarebbe etico, e rischierebbe di penalizzare i pazienti che un dolore severo lo sentono veramente. 

 

Quindi dobbiamo inevitabilmente dare credito al paziente, con tutto quello che comporta: ossia notevoli problemi di gestione. E qui si apre una voragine, e due scuole di pensiero differenti si scontrano in merito al dolore severo. C’è chi considera il dolore severo un’emergenza a prescindere, e quindi assegna un codice di colore adeguato al livello di dolore riferito dal paziente; e chi pone in secondo piano il sintomo dolore preferendo assegnare il codice colore sulla base della patologia per la quale il paziente ha richiesto l’attenzione sanitaria.

 

Il problema non interessa – ovviamente – i pazienti con un dolore severo e una causa francamente evidente, come una frattura. Il problema nasce per alcune patologie, assolutamente banali, come l’odontalgia, l’otalgia, il corpo estraneo oculare, e così via.

 

E quindi, che codice assegnare al paziente che si presenta al bancone per un mal di denti? codice bianco, ovviamente: è una patologia priva di rischi immediati. Ma se il dolore è particolarmente severo? codice bianco, ribadiscono i primi, tanto abbiamo un protocollo per il trattamento del dolore al triage; codice verde o superiore, affermano i secondi, perché il dolore richiede una valutazione medica: chissà che quel mal di denti non nasconda altra patologia, ben più temibile e minacciosa.

 

Non credo possa esistere una soluzione al dilemma, ma il problema di fondo non è di poco conto: e il problema di fondo è la terapia analgesica al triage. Che tipo di terapia può essere somministrata al triage? Molti protocolli prevedono paracetamolo o FANS come l’ibuprofene, che sono, a ben vedere, sufficienti per la maggior parte delle sintomatologie dolorose più banali. Ma facciamo l’esempio dell’odontalgia: il paziente arriva al bancone del triage avendo già assunto paracetamolo, magari ibuprofene, magari anche ketorolac. Come trattare un paziente del genere? E’ corretto lasciare bianco il suo codice di priorità? forse. Ma sicuramente non è corretto trattarlo basandosi su un protocollo che preveda solo FANS o paracetamolo. Nella mia esperienza, utilizzo l’ossicodone per os: 5 o 10 mg. Ma questo presuppone la visita, la valutazione medica: e quindi il codice bianco comporta un notevole ritardo prima dell’assunzione della terapia.

 

Ma possiamo ipotizzare protocolli che prevedano terapie analgesiche maggiori già al triage? Attenzione, perché questo rappresenta il nodo gordiano di tutta la questione. Allo stato attuale, l’infermiere di triage non può somministrare farmaci. Gli stessi protocolli che prevedono la terapia al triage (dietro responsabilità del medico in servizio) sono formalmente delle eccezioni importanti alla norma che prevede la prescrizione di un farmaco solo dopo valutazione medica. Io (e altri con me) ritengo questo approccio piuttosto arcaico e superato: però rappresenta uno scoglio da superare, e non di piccola portata, se si pensa all’esposto in procura deposto dall’Ordine dei Medici di Bologna contro alcuni protocolli sul See and Treat delle regioni Toscana ed Emilia-Romagna, esposto rivolto prevalentemente contro la somministrazione di farmaci in triage e definito come “esercizio abusivo della professione medica”. Parole pesanti, pesantissime; parole anche offensive, per certi aspetti, eppure espressione di una mentalità da superare ma che purtroppo si basa ancora sulla legge in vigore. La sanità sta evolvendo, e ancora di più sta evolvendo la medicina d’emergenza, che raggiunge traguardi e conquiste prima ancora che il legislatore si possa rendere conto della necessità di una riforma. Cosa è accaduto con il protossido d’azoto (o, per essere più precisi) con la Miscela Equimolare di Ossigeno e Protossido d’Azoto? la medicina d’emergenza si è appropriata di un vecchio farmaco, adottando misure di sicurezza (la premiscelazione con l’ossigeno, l’erogazione solo a richiesta con valvola) e quindi scoprendo un farmaco ottimale per le proprie esigenze – salvo poi scontrarsi con una vecchia legge che prevede la somministrazione esclusiva dell’anestesista dei gas definiti “anestetici” – proprietà che l’attuale protossido d’azoto non possiede.

 

La situazione non è differente per un protocollo di somministrazione di terapia analgesica al triage, che dovrà rappresentare il futuro. Ma attenzione: non dovrà basarsi solo su protocolli precedentemente codificati, ma dovrà prevedere l’autonomia di giudizio, di scelta del farmaci, da parte dell’infermiere. Che dovrà poter scegliere anche analgesici maggiori, come l’ossicodone per citarne uno. Questo passaggio però deve prevedere una profonda riforma del ruolo dell’infermiere, che in Italia è ben lungi dal diventare moderna: perché le competenze specifiche di un infermiere che opera in un’area critica, o che accoglie i pazienti in un triage, sono ben diverse da quelle di un infermiere che opera in una cardiochirurgia o in una dialisi; e l’attuale formazione generica, senza una specializzazione che invece è presente in altri paesi, non permette una adeguata crescita professionale infermieristica che sarà inevitabile.

 

E quindi, per tornare alla questione iniziale, come risolvere il problema del paziente che riferisce un dolore severo al momento del triage? Credo che la soluzione la possa offrire il paziente stesso: è stata esperienza di tutti, infatti, sentire la risposta tipica del paziente, di fronte alla domanda “Vuole qualcosa per il dolore?”: “No grazie, sopporto bene”.

 

Torniamo allora alla citazione in epigrafe, che definisce “ipocrita” chi recita un dolore che non gli appartiene. Ma non possiamo essere noi a giudicare i pazienti: e lo stesso Shakespeare, sempre nel Macbeth, sembra metterci in guardia:

 

“Date al dolore la parola; il dolore che non parla, sussurra al cuore oppresso e gli ordina di spezzarsi”

 

E forse, uno dei compiti più difficili del professionisti dell’emergenza, è cercare di identificare quei dolori che sono muti e in attesa di qualcuno che li sappia ascoltare.

 

Alessandro Riccardi
Alessandro Riccardi
Specialista in Medicina Interna, lavora presso la Medicina d’Emergenza – Pronto Soccorso dell’Ospedale San Paolo di Savona. Appassionato di ecografia clinica, è istruttore per la SIMEU in questa disciplina, ed è responsabile della Struttura di Ecografia Clinica d’Urgenza . Fa parte della faculty SIMEU del corso Sedazione-Analgesia in Urgenza. @dott_riccardi

11 Commenti

    • Grazie Camilla! La citazione è assolutamente appropriata e divertente! E mi fa riflettere: perché gli sceneggiatori della pixar padroneggiano questi concetti e i professionisti sanitari italiani sono ancora lontani?

  1. Salve mi chiamo Salvatore sono un infermiere in una casa di cura in Friuli Venezia Giulia, qui per la valutazione del dolore per gli anziani o meglio per le persone affette da varie tipologie di demenza si utilizza la Abbey Pain Scale http://www.apsoc.org.au/PDF/Publications/4_Abbey_Pain_Scale.pdf
    Personalmente non credo sia sempre efficace, ma si dimostra molto utile nella gestione della terapia del dolore cronico.
    Credo comunque che meriti una valutazione ed una sua sperimentazione anche in Italia e in ambiti diversi dal mio quale appunto il Triage, poiché è in grado di dare un punto di inizio oggettivo del sesto parametro vitale.

    • Grazie Salvatore del tuo interessante spunto, che apre una voragine, ossia la valutazione del dolore nel paziente con demenza, assolutamente inadeguata, il che rende un paziente fragile ancora più fragile. Si, la abbey dovrebbe essere testata e diffusa, anche se io conosco meglio ed uso la Painad

  2. Bellissimo post Alessandro, e ti ringrazio soprattutto per aver introdotto un concetto a me molto caro : quello della Urgenza Soggettiva. La odontalgia e/o il dolore da distorsione tt di un paziente per noi è poco conto rispetto alla sala affianco dove stiamo trattando uno Stemi, ma per il paziente è la SUA odontalgia e, penso, questa è una cosa che non possiamo trascurare. Un abbraccio

    • Grazie mille del tuo commento e dei tuoi apprezzamenti! La soggettività è fondamentale, e anche se il paziente ci appare “scenoso” – perdonami il termine – non possiamo giudicarlo, se i suoi comportamenti sono dettati da una cultura, una educazione o una intelligenza diversa. La medicina d’emergenza deve essere ecumenica, da questo punto di vista

  3. Buona serata a tutti. Leggendo il post ho trovato molto interessante la “spiegazione scolastica”. Pensavo ai pazienti visitati ieri che riferivano dolore per la loro patologia (dalla cefalea al trauma) senza evidenti manifestazioni di disagio, definendolo “non grave” ma attribuendo in scala numerica un valore tra 7,5 e 9. In effetti sembrava più un “voto di approvazione” che una valutazione semiquantitativa… Nei prossimi giorni proverò un sistematico confronto tra NRS e VAS, magari la seconda sarà “esente” da questo confondente…

    • Grazie Roberto del tuo commento. La spiegazione “scolastica” è sicuramente valida per un bel numero di pazienti (sono i classici pazienti che riferiscono 8 su 10, e poi rifiutano l’analgesico in quanto sopportano bene, come ho accennato nel post); ma credo che l’idea della soggettività, come ha scritto Ciccio Stea nel commento precedente, dovrebbe essere l’unico nostro metro di giudizio. Il dolore di una otalgia sarà inferiore a quello di uno STEMI? possiamo ipotizzarlo noi professionisti – e forse potrebbe affermarlo il paziente che ha provato entrambi. Ma anche il paziente che ha provato il dolore dello STEMI, la notte che giunge in PS per una otalgia intensa non credo gli importi molto pensare che la notte dell’infarto stava peggio… noi tendiamo, spesso e forse inconsciamente, a confondere la severità del dolore con la serietà della patologia. Comunque, sono interessato ai risultati della tua ricerca: fammi sapere se emerge qualche dato interessante.

  4. Alessandro hai perfettamente centrato il senso del mio intervento: attenzione a confondere la severità del dolore con la severità della patologia che la sottende. Personalmente ho provato qualche anno fa il dolore di una pulpite……vi assicuro che se fossi stato in coda in uno dei nostri PS, con l’affollamento attuale, avrei dato di matto

  5. lavoro in un ps della provincia di bologna.
    purtroppo vivo da vicino il problema dell’esposto emanato dall’ordine dei medici.
    quello che molti medici non riescono a capire è che l’infermiere non fa diagnosi al triage, bensì IDENTIFICA UN PROBLEMA, che è molto diverso dal punto di vista medico – legale.

    altra problematica legata a questo evento è che l’esposto all’ordine dei medici è partito si sa dirigenti di alcuni ps ma, ahimè, anche da qualche infermiere che non vede di buon occhio l’anticipazione del dolore al triage.

    per quanto mi riguarda, utilizzo molto la procedura fornita dalla azienda dove lavoro (che consente la somministrazione dal paracetomolo al ketoprofene, al diclofenac fino alla morfina per le ustioni…) perché mi consente di “temporizzare” dei pazienti nei confronti di altri.

    • Grazie Arthur del tuo commento. Condivido il tuo stato d’animo, e sono un po’ stufo di dover sentire che l’infermiere non possa far diagnosi. Per carità, capisco la differenza, e la diagnosi in senso stretto è un atto medico: se per diagnosi intendiamo tirare le somme di un lungo processo mentale di pensiero, attribuzione di sintomi e segni in un sistema logico, e di interpretazione di esami richiesti ad hoc, è sicuramente un atto medico. Ma l’infermiere di triage, a suo modo, compie un percorso diagnostico, identificando un problema in un tempo così limitato che sfido qualsiasi medico a fare altrettanto. Mi è capitato, e più di una volta, di ricevere una imbeccata diagnostica dall’infermiere di triage o dall’infermiere di sala – magari a qualcosa a cui non avevo ancora pensato – perché l’esperienza è del team. Il bello della medicina d’emergenza, l’ho forse già detto, è proprio il lavoro in team di tutte le figure professionali: ognuna avrà le proprie competenze, responsabilità e i propri compiti: ma quattro occhi, vedono sempre meglio di due. La questione dell’esposto, come accenni, è spinosa, delicata, ma ad ogni modo triste, perché chi ci rimette è proprio il paziente. Io ho stilato un protocollo per il trattamento della colica renale, che prevede l’incannulamento di una vena direttamente al triage (in caso di sovraffollamento) con somministrazione di FANS e spasmolitici, se non sono presenti allergie o controindicazioni (e il medico viene informato, per ovviare al problema della “prescrizione” infermieristica). Mi fa piacere sentire che il vostro protocollo preveda anche la somministrazione di oppiacei in caso di dolore severo: perché abbiamo così paura degli effetti da oppiacei (che sono rari, se i farmaci sono usati a proposito, nel paziente giusto, alla dose corretta e da personale addestrato), ma non siamo quasi mai preoccupati dall’oligoanalgesia, che invece ha effetti ben più rilevanti, sia dal punto di vista sistemico che da quelli psicologici

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