“Essere o non essere questo è il problema…Morire, dormire… nient’altro…Morire, dormire. Dormire, forse sognare.” [W. Shakespeare]
CASO 1
“Uomo, 50 anni, arriva in area rossa diaforetico, ipoteso, con intenso dolore retrosternale insorto circa 35 minuti prima.
Anamnesi negativa per fattori di rischio. Non famigliarità, nessun segno o sintomo a parte dispepsia insorta 1 ora prima del dolore.
Infarto miocardico, morirà in sala di emodinamica durante il tentativo di rivascolarizzazione.”
CASO 2
“Uomo, 66 anni, carcinoma del polmone in stadio avanzato in trattamento di prima linea con chemioterapia.
Giunge in PS per neutropenia febbrile, disidratazione ed iporessia.
Viene trattato con terapia antibiotica ed idratazione e tenuto in osservazione per 48 ore, dimesso al domicilio per il proseguimento delle cure.”
CASO 3
“Donna, 79 anni, entrata ed uscita dal PS e numerosi ricoveri in medicina e terapia intensiva negli ultimi mesi a causa di scompenso cardiaco.
Viene visitata, pre-edema polmonare, trattata con diuretico ev ed ossigeno in nasocanula con rapido miglioramento soggettivo e predisposto ricovero ospedaliero.”
CASO 4
“Donna, 99 anni, codice giallo un sabato pomeriggio accompagnata dalla figlia (di 77 anni) inviata dalla guardia medica di zona per anoressia e disidratazione.
La figlia spiega di aver chiamato il medico perché la mamma, affetta da demenza senile, non si alimentava più da 36 ore.
Era consapevole che si stava spegnendo, ma preoccupata di vederla morire disidratata, aveva pensato di chiamare il medico, con successivo viaggio in ambulanza verso il PS.
Dopo aver discusso con la figlia le diverse opzioni, se riportarla a casa con una lenta infusione di fluidi o trattenerla in osservazione su una barella in PS, di comune accordo è stato posto un accesso venoso, avviata una idratazione lenta e rinviata la paziente a casa alle cure davvero premurose della figlia”
Pazienti che incontriamo ogni giorno
Questi sono 4 pazienti che mi sono rimasti in mente della mia rotazione in PS alcuni mesi fa.
Quante volte vi sarà capitato nelle vostre sale visita, nei vostri PS o nelle corsie dei vostri reparti, di incontrare pazienti come questi, alcuni dei quali verso la fine (in the end) della loro vita?
Ok, la morte è l’ultima fermata del viaggio, per tutti noi.
Ci arriviamo tutti, chi prima chi dopo.
Alcune volte i pazienti ci stupiscono e si riprendono grazie (ed a volte nonostante…) le nostre cure, mentre altre volte invece la morte sopraggiunge senza che noi l’avessimo presa in considerazione come ipotesi.
How to diagnose dying
Una domanda che a volte mi pongo spesso è …” potevo prevedere come sarebbe andata a finire? .. Ho fatto davvero tutto quello che era in mio potere per rendere gli ultimi attimi del mio paziente dignitosi?”
A tale proposito un giorno casualmente mi sono imbattuta su internet in un video relativo ad un intervento di Ashley Shreves (M.D. del Mont Sinai di New York) allo SMACC svoltosi a Chicago nel 2015, davvero interessante.
Come tutte le cose interessanti che mi portano a riflettere, trovo che sia bello poterle condividere con altri e magari avere al termine commenti e spunti di riflessione comune.
Cosa significa infatti per noi “morire”?
Ok, lasciamo perdere il significato stretto stretto del termine.
Il concetto di morte è qualcosa di decisamente più soggettivo, più personale, ed è anche strettamente legato alla nostra esperienza, ai pazienti che abbiamo visto e trattato nella nostra più o meno lunga carriera professionale.
Quindi perché è così importante identificare quelle persone che sono in procinto di morire?
Perché le priorità cambiano
Si opta non tanto per l’allungamento della durata della vita, quanto per la qualità della vita stessa
Perché vanno bilanciati meglio benefici e tossicità dei trattamenti
A mano a mano che i trattamenti vengono proposti, la loro efficacia tende a diminuire e il peso delle tossicità tende invece a divenire più evidente, nel contesto di un corpo fragile e malato. (particolarmente evidente nei malati di tumore o in alcune patologie croniche e degenerative)
Pattern e traiettorie
Possiamo quindi in qualche modo cercare di “identificare” dei pattern, delle traiettorie che “predicano” l’andamento clinico dei nostri pazienti e ci permettano quindi di titolare meglio le nostre cure?
Che ci permettano di essere più o meno “aggressivi” nelle nostre scelte terapeutiche? Che ci facciano optare più per qualità e non quantità di vita?
Questa è di sicuro una delle domande più difficili a cui ci troviamo a dover rispondere, ma che alla fine si dimostra essere in alcuni casi quella che ci permette davvero di non “non nuocere”, di fare davvero il “bene” per i nostri pazienti.
Lo studio
Alcuni articoli sono apparsi in letteratura a riguardo, ma uno molto interessante è apparso su JAMA nel 2003, Lunney e colleghi hanno identificato e descritto “pattern of functional decline at the end of life”.
Questo studio analizza il declino funzionale inteso come ADL (activity of dialy living), come “dipendenza” da altri nelle normali attività di vita quotidiana, tempo speso a letto, capacità di vestirsi, lavarsi, prendersi cura di se stessi insomma, nell’anno che ha preceduto la morte di più di 4000 pz con età superiore di 65 anni.
Non mi dilungo sullo studio, ma quello che emerge alla fine sono 4 diverse “ideali” traiettorie di declino.
Riconsiderando quindi i pazienti precedentemente descritti alla luce di questi “pattern”.
CASO 1 morte improvvisa
Sono i pazienti che arrivano con condizioni acute non prevedibili, infarti, embolie polmonari, post trauma, situazioni acute in pazienti apparentemente sani. In questi pazienti il percorso è una discesa libera.
Non vengono considerati “persi” fino a quando non sono state attuate tutte le possibili manovre rianimatorie.
CASO 2 malattia terminale
Il setting che più viene rappresentato da questo grafico è quello dei pazienti affetti da cancro.
Il loro percorso è tortuoso. Essi lottano ed affrontano numerose linee e tipologie di trattamenti aggressivi, e spesso conservano o perdono solo momentaneamente la loro “indipendenza” nelle attività della vita quotidiana.
Proseguono la loro vita normalmente fino al momento X. Da quel momento X ,quando insomma le cure a disposizione non sono più efficaci, il paziente diventa sempre più “dipendente” dalle persone che lo circondano, passa la maggior parte del suo tempo a letto, non si alimenta e non è più in grado di badare a sè stesso.
Da questo punto X il declino avviene in maniera molto rapida, e irreversibile nel giro di pochi mesi.
Ma è da ricordare come i progressi delle terapie negli ultimi tempi hanno portato alcune tipologie di tumore ad essere tenute sotto controllo per anni.
Per cui non sempre il termine “cancro metastatico/ stadio avanzato” deve far pensare a morte imminente.
Il paziente deve essere valutato ed esaminato al fine di cogliere in quale momento della sua curva, del suo percorso, se è in pronto o ricoverato per una complicanza passeggera ed ha possibilità di ripresa, o se si trova nella parte più ripida della curva.
in questi casi le necessità e gli approcci clinici e terapeutici cambiano, devono essere più’ incentrate su atteggiamenti di tipo palliativo, meno aggressivo.
Il discorso relativo alle scelte terapeutiche a disposizione andrebbe approcciato e condiviso con il paziente ed i famigliari a seconda di quale “step della curva” il paziente sta percorrendo.
CASO 3: chronic organ failure, possiamo considerare tutti qui pazienti che presentano malattie a decorso cronico, quali insufficienza cardiaca, renale, BPCO..
Questi sono i pazienti che entrano ed escono dai PS e dai reparti di medicina, che di solito hanno “crisi” che rispondono rapidamente ai trattamenti appropriati e si riprendono, a volte anche in maniera miracolosa.
Il declino funzionale vero e proprio lo si intravede quando, per esempio, vi è necessità di ricoveri sempre più frequenti, oppure le condizioni cliniche alla dimissione risultano comunque peggiorate rispetto al momento pre-crisi, con maggiore “dipendenza” da farmaci, necessità di dosi maggiori o aggiunta di nuove terapie, ADI, e assistenza di famigliari o ricoveri in istituti per riabilitazione.
Questa popolazione è quella più complessa da interpretare, in quanto in poche ore di osservazione è difficile cogliere sfumature così fini, o avere il tempo di indagare a fondo passato e presente.
Da qui emerge l’importanza del senso clinico e l’esperienza, più una buona “interrogazione” di paziente e parenti con domande mirate è fondamentali.
Capire cosa è stato prospettato dai clinici nel ricovero precedente, dal medico curante e l’idea e l’interpretazione che paziente e famigliari hanno della situazione in cui si trovano, cosa si aspettano, e’ davvero importante al fine di proporre le migliori cure possibili.
CASO 4 “paziente fragile”
I pazienti “fragili, sono coloro che hanno malattie croniche (demenza senile, esiti di stroke o malattie lente e subdole come il Parkinson,) altamente dipendenti dalle cure di altri.
Spesso sono in quelle condizioni da mesi o anni, con un declino lento, a volte quasi impercettibile per coloro che se ne prendono cura tutti i giorni.
Questi sono i pazienti che accedono al servizio di emergenza perché qualcosa ha perturbato il loro stato, come una polmonite ab ingestis, una infezione delle vie urinarie, anche solo un virus respiratorio o semplicemente per disidratazione ed anoressia.
In questi pazienti purtroppo il discorso è capovolto, per loro si può cercare di guadagnare tempo con cure aggressive, ma difficilmente si riuscirà a migliorare la loro qualità di vita, che è profondamente legata alla loro condizione cronica primaria.
Questi sono i pazienti in cui il discorso relativo alla prognosi ed alla scarsa “efficacia” delle cure sulle condizioni generali va affrontato, in maniera tale da capire quale tipologia di intervento la famiglia è disposta ad accettare, cercando di adottare una condotta terapeutica delicata e meno invasiva tra le possibilità a disposizione.
What should medicine do when it can’t save you?
Sempre a tale proposito vale la pena di leggere un articolo apparso su “The New Yorker” di Atul Gawande, chirurgo e scrittore.
Nel suo pezzo intitolato “What should medicine do when it can’t save you?” egli si trova a riflettere sulla morte e sulla comunicazione della letalità della malattia.
Egli afferma che sempre più spesso il medico ha perso il contatto con il vero significato del temine morte.
“Dal momento che le cure mediche sempre più all’avanguardia hanno portato a “risolvere” alcuni fondamentali problemi, come respirare (lo fa il venitilatore) o alimentarsi (ci pensano flebo o sondini), è sempre più difficile comprendere il “timing” del fine vita.
Una frase molto acuta dell’autore dice: come tu puoi decidere di esprimere i tuoi pensieri e le tue preoccupazioni riguardo alla morte, quando la medicina stessa ha reso quasi impossibile comprendere chi sono davvero le persone che sono vicine al momento della morte?
In un passaggio dell’articolo egli sottolinea come sempre più spesso sia il medico che lascia nelle mani del paziente e della sua famiglia la decisione, quella di continuare le cure o sospenderle.
La scelta di passare dalla cura attiva ad una di accompagnamento, rivoltando quindi sul paziente ed i suoi cari non solo il peso dell’avvicinamento della fine, ma anche la responsabilità di scegliere come viverla.
Tutto questo senza dedicare abbastanza tempo alla comunicazione.
Egli dice “Ma i pazienti hanno BISOGNO di medici ed infermieri che abbiano il coraggio di “prendere tempo” e di affrontare quella emotivamente “scomoda” ma assolutamente fondamentale discussione su come e cosa il paziente desidera nel momento in cui “il momento “si avvicinerà, chi vorrà con sé e come e dove vorrà passarlo…
Il medico deve riprendere in mano la sua professione, il suo giudizio clinico e le sue responsabilità al fine di permettere al paziente di ricevere il meglio delle cure possibili, anche se questo corrisponde alla interruzione stessa delle cure. “
TAKE HOME MESSAGE
Queste “traiettorie” NON sono oro colato, NON sono scienze esatte, ma averle in mente ci può aiutare ad identificate un po’ meglio la situazione che ci sta di fronte.
A volte esse possono sovrapporsi, ma quello che è importante ricordare, nelle condizioni di “termine vita” e’ che la qualità’ di vita conta piu’ della quantita’.
La valutazione dello stato “funzionale” del nostro paziente, inteso come capacita’ ed indipendenza nelle attivita’ di vita quotidiane, e del suo eventuale declino ci può aiutare ad avere approcci più personali, più plasmati su paziente e famiglia, non solo seguendo algoritmi diagnostico-terapeutici “perché così dice la linea guida”, ma rendendo il tutto piu’ personalizzato.
Quando difficilmente siamo in grado di quantificare in giorni, settimane o mesi la “quantità” di vita che rimane ai nostri pazienti.
Quello che si può cercare di fare è discutere e descrivere la probabile “qualità di vita” del paziente che stiamo per trattare ai famigliari ed al paziente stesso, in maniera tale che siano consci di quello che è e può avvenire da quel momento in avanti, rendendoli quindi più responsabili e meno spaventati, di fronte alla scelta che si trovano ad affrontare.
comunicare direttamente, chiaramente e sinceramente con i pazienti e le loro famiglie, anche quando ci troviamo in condizioni in cui il discorso “doveva essere affrontato prima”, ma non è stato fatto, e la “patata bollente” capita tra le nostre mani, e, quando è possibile, coollaborando con le diverse figure mediche coinvolte al fine di creare una “rete di protezione” intorno al paziente e la sua famiglia.
Referenze
>> SMACC Chicago 2015 “how to diagnose dying” Ashley Shreves https://twitter.com/smaccteam/status/725493545927319552
>>Lunney JR, Lynn J et al. Patterns of Functional Decline at the End of Life JAMA 2003, 289 (18) p.2387 link
>>Atul Gawande “What should medicine do when it can’t save you?” The New Yorker link
Grazie Susanna, un post davvero importante e toccante. La comunicazione e la discussione della prognosi (v. le utilissime linee guida australiane in merito tradotte in italiano: http://www.fondazionemaruzza.org/wp/wp-content/uploads/…/LineeGuidaPrognosi.pdf )sarebbero fondamentali PRIMA di arrivare in un setting di PS… questo richiede impegno e fatica ma dà i frutti della definizione di un percorso che permette alla persona e ai familiari di scegliere e vivere una dimensione di fine vita in modo più consapevole e sereno. Tutto questo a patto di voler davvero costruire questo percorso senza alibi, timori o freni: cioè come dici tu riprendendo in mano il nostro ruolo di medici che curano anche quando non guariscono. Grazie!
Grazie mille Marco del tuo commento e per il link , davvero molto interessante!
Super post… Mai quanto nel fine vita dobbiamo prenderci cura, prenderci carico del paziente
Grazie mille Mauro, e’ quello che cerco di fare ogni volta che mi e’ possibile..non sempre cosi semplice pero’..
Grazie
Complimenti :è un tema delicato questo della gestione del fine vita e tu sei riuscita a trattarlo in maniera scientifica. Lavoro in un reparto di medicina interna di un piccolo ospedale e praticamente mi ritrovo le 4 tipologie di pazienti da te brillantemente descritte.
Ciao Agostino, grazie mille del tuo feedback, davvero gradito.
Da palliativista non posso che ritrovarmi in ogni riga che scrivi! Grazie!
grazie davvero!un abbraccio