In passato abbiamo già parlato dell’impiego diagnostico e prognostico dell’acido lattico nel paziente con shock settico. Da allora si sono accumulate ulteriori conferme della sua utilità, tra cui l’inclusione nei criteri per la diagnosi di shock settico recentemente pubblicati.
Dato dunque per acquisito che più elevate concentrazioni di lattato si correlano ad una prognosi peggiore, potremmo ora chiederci se sia possibile impiegare le loro modificazioni dinamiche a fini predittivi e per valutare la risposta alla terapia. In altri termini, il riscontro di una riduzione della lattatemia dopo l’avvio del trattamento si correla ad una prognosi migliore? Può essere considerata un indicatore di una adeguata risposta alla terapia?
Prima di iniziare, una piccola precisazione. Esiste una certa confusione in letteratura riguardo ai termini di “riduzione della concentrazione del lattato” e “clearance del lattato”, laddove quest’ultimo dovrebbe riguardare solo i processi di metabolizzazione, sia in situazioni normali che di aumentata concentrazione. Il parametro di nostro interesse invece è il primo, il quale po’ essere frutto, come vedremo, sia di una riduzione di una produzione abnorme, sia di un incremento dell’eliminazione (Vincent 2015).
Basi fisiopatologiche delle modificazioni cinetiche dell’acido lattico
L’incremento del lattato nel paziente critico può essere legato ad uno squilibrio tra produzione ed eliminazione, con un incremento della prima e una riduzione della seconda. La prima può manifestarsi in virtù di diversi meccanismi, alcuni su base anaerobia (insufficiente fornitura di ossigeno tessutale, sia per problemi macro che microcircolatori), e altri, come l’aumento dell’attività della pompa Na+/k+ collegata ai recettori beta-adrenergici e la disfunzione mitocondriale sepsi-correlata, che si verificano in presenza di perfusione tissutale ancora conservata (per una trattazione più approfondita, si veda questo post).
Per quanto riguarda i processi di eliminazione dell’acido lattico, vi è maggiore incertezza. Alcuni Autori non hanno dimostrato alcun impatto della sepsi sulla clearance del lattato (Revelly 2005, Michaeli 2012), laddove altri hanno dimostrato una riduzione (Levraut 1998, Tapia 2015). Se questa seconda ipotesi fosse confermata, non sarebbe responsabile il fegato (Tapia 2015, 1), dove ha luogo il 60% del metabolismo del lattato in condizioni normali, ma piuttosto una persistente inibizione dell’attività della piruvato-deidrogenasi.
Partendo da queste premesse, la riduzione della concentrazione dell’acido lattico potrebbe rispecchiare sia una ridotta produzione legata ad un miglioramento della fornitura dell’ossigeno tissutale, con riduzione della glicolisi anaerobia, e della stimolazione adrenergica con una riduzione dell’attività aerobica della pompa Na+/k+ ATPasi dipendente. Contemporaneamente, la migliore perfusione tissutale stimolerebbe la metabolizzazione del lattato negli organi preposti. Tutti questi meccanismi sarebbero comunque spia di un miglioramento del profilo emodinamico e metabolico del paziente.
In realtà non è tutto così semplice e qualcosa ancora ci sfugge: per esempio, contrariamente da quanto si potrebbe ipotizzare, la riduzione del lattato non si correla con un miglioramento del microcircolo (Hernandez 2012, Puskarich 2016). Un’ulteriore dimostrazione che probabilmente la riduzione dell’acido lattico rifletta e dipenda da meccanismi ancora più vasti è rappresentata dalla correlazione di questo parametro con molteplici indici di flogosi e della coagulazione nel paziente settico (Nguyen 2010).
Le revisioni sistematiche
Nonostante i meccanismi fisiopatologici non siano stati del tutto compresi, vi sono crescenti prove che una riduzione della concentrazione dell’acido lattico si correli con una migliore prognosi. Queste sono state raccolte e sintetizzate in una revisione sistematica del 2014 che si basa sui risultati di 15 lavori (sia trial clinici che studi osservazionali) per un totale di 2647 pazienti (2).
Secondo gli Autori, una qualsiasi riduzione dell’acido lattico si correla a un rischio relativo di mortalità pari a 0,38 (I.C. 95% 0,29-0,50); in altri termini, nei pazienti nei quali si registra una riduzione della lattatemia la mortalità si riduce circa del 60%. Sebbene questi risultati appaiano incoraggianti, l’ampia eterogeneità rilevata impedisce di trarre delle conclusioni definitive. Nel caso in cui vengano presi in considerazione unicamente gli studi effettuati in Pronto Soccorso (in cui sono stati arruolati solo pazienti settici), l’eterogeneità addirittura scompare; in questa caso il rischio relativo segnalato è pari a 0,41 (I.C. 0,31 – 0,55).
Le conclusioni di questo lavoro non possono considerarsi definitive. Innanzitutto gli studi inclusi presentano dimensioni mediamente ridotte (circa 175 pazienti). Questi risultati potrebbero non essere direttamente applicabili in parte a causa dall’età media dei pazienti che, per i soggetti arruolati negli studi in Pronto Soccorso, è pari a circa 60-65 anni, più bassa rispetto a quella della maggior parte dei pazienti che vediamo abitualmente. Infatti, una recente rilevazione di Goto e collaboratori segnalava che negli stati uniti d’America il 49% dei pazienti ricoverati per sepsi aveva più di 70 anni (Goto 2016).
Per completezza, vi segnalo che sono state pubblicate altre due revisioni sistematiche. La prima, di Vincent e collaboratori, prende in considerazione tutti i possibili scenari clinici di impiego (anche terapia intensiva, paziente vittima di trauma o in post-arresto) e, pur senza procedere ad una meta-analisi per l’estrema eterogeneità dei dati, conclude che vi sono prove importanti a supporto dell’impiego del monitoraggio dell’acido lattico (1).
Il secondo lavoro, ad opera di Gu e colleghi, includeva solo trial clinici in cui veniva sperimentato l’impiego di protocolli di rianimazione basati sulla clearance del lattato in pazienti settici. Nella meta-analisi sono stati combinati i dati di 4 studi, 3 dei quali hanno luogo in Terapia Intensiva e 1 in Pronto soccorso, per un totale di 547 pazienti. L’impiego di una strategia terapeutica orientata alla riduzione del lattato si è dimostrata in grado ridurre la mortalità del 35% (Risk Ratio 0,65; I.C. 95% 0,49 – 0,85) (3).
Il trial di Jones e collaboratori
Dei quattro studi analizzati da Gu e colleghi, uno è di particolare interesse: si tratta di un trial randomizzato di non-inferiorità in cui, in pazienti di P.S. con shock settico, è stata confrontata una strategia di rianimazione basata sulla riduzione dell’acido lattico rispetto con una orientata all’aumento della saturazione venosa centrale di ossigeno (ScvO2). Quest’ultimo è il parametro impiegato da Rivers e colleghi nel loro famoso trial del 2001 (per un approfondimento sulla scvO2 si veda questo lavoro). Una sintesi dello studio è riassunta nella figura seguente.
Figura 1. Sinossi del trial di Jones e collaboratori (4). Il primo controllo del lattato veniva eseguito ad almeno 2 ore dall’avvio del trattamento, quelli successivi ad almeno 1 ora. Entrambe i gruppi venivano sottoposti al posizionamento del CVC, ma solo nel caso del gruppo ScvO2-oriented veniva accesa l’apparecchiatura per il monitoraggio. SIRS: Systemic Inflammatory Response Syndrome, PAS: pressione arteriosa sistolica, CVC: catetere venoso centrale, PVC: pressione venosa centrale, PAM: pressione arteriosa media, Hct: ematocrito.
La valutazione dell’outcome avveniva a 6 ore. La mortalità intra-ospedaliera nei due gruppi era sovrapponibile (17% nel gruppo lactate-based vs. 23% nel gruppo ScvO2-based, riduzione assoluta di rischio 6% (I.C. 95% -3 – 15)); dato che l’intervallo di confidenza comprende anche il valore 0%, la differenza di mortalità non può essere ritenuta statisticamente significativa. Anche il consumo di risorse e la durata della permanenza in Ospedale era simile. In altri termini, il dosaggio seriato del lattato si è dimostrato non inferiore, per guidare la rianimazione di pazienti con shock settico, ad una parametro più complesso da ottenere quale la ScvO2, che riechiede il posizionamento di un catatere venoso centrale.
Dal punto di vista operativo, il problema principale di questo studio riguarda il fatto che solo il 10% dei pazienti hanno ricevuto trasfusioni e dobutamina, ovvero i trattamenti la cui somministrazione si basava sulla valutazione della riduzione del lattato o sul target della ScvO2. Dunque l’impatto del monitoraggio dell’acio lattico potrebbe essere modesto se viene avviato un adeguato trattamento con ossigeno, liquidi e vasopressori fin da subito.
Considerazioni finali
- In generale, la riduzione della concentrazione di acido lattico sembrerebbe essere un valido indicatore di una prognosi migliore dopo l’avvio del trattamento rispetto a concentrazioni stabili o addirittura in aumento.
- L’utilità maggiore dei prelievi seriati dell’acido lattico è evidente nelle fasi iniziali della rianimazione, diciamo entro le prime 6 ore. Questo intervallo di tempo, oltre ad essere quello utilizzato da Jones e colleghi nel loro trial (4), rappresenta anche il periodo in cui vi è la risposta più rapida e significativa della lattatemia ad un’adeguata ottimizzazione emodinamica (Hernandez 2014).
- A fronte di un miglioramento dei parametri vitali e dei segni di perfusione periferica, il riscontro di concentrazioni persistentemente elevate di acido lattico, dovrebbe spingere ad una rivalutazione del paziente e della strategia terapeutica (Henning 2016). In particolare, si dovrebbe procedere ad una più ricerca aggressiva e al trattamento dei focolai infettivi, la cui persistenza potrebbe stimolare la produzione aerobia di acido lattico attraverso meccanismi che abbiamo già citato quali la stimolazione della pompa Na+/K+ ATPasi dipendente e la disfunzione mitocondriale indotta dalla sepsi. Dobbiamo per altro tener conto che, al di là delle percentuali di riduzione, concentrazioni di acido lattico persistentemente elevate a 6 ore sono correlate ad una maggiore mortalità (Lokhandwala 2017, Lee 2016).
- Sebbene l’impatto prognostico positivo sembrerebbe verificarsi per riduzioni pari ad almeno il 10% a 6 ore, le ultime linee guida della Surviving Sepsis Campaign suggeriscono come obiettivo la normalizzazione della concentrazione del lattato in pazienti con iperlattatemia (grado di evidenza (2C)). Ciò però non dovrebbe spingerci però a esagerare nel tentativo di migliorare i parametri emodinamici troppo rapidamente, correndo il rischio soprattutto di somministrare troppi liquidi.
- Per quanto concerne gli intervalli di tempo tra un controllo e il successivo, questi potrebbero attestarsi tra 1 e 2 ore, in base anche all’andamento clinico.
- Diversamente da quanto succede per la stratificazione prognostica, l’impiego delle variazioni della concentrazioni del lattato come target della strategia di rianimazione non poggia su prove di efficaca altrettanto solide. Come abbiamo visto, l’impiego delle variazioni della lattatemia sono risultate non inferiori alla monitorizzazione della ScvO2, per altro verso più complessa. Questa osservazione, se interpretata insieme ai risultati dei recenti trial PROMISE, ARISE e PROCESS, che hanno segnalato l’irrilevanza del monitoraggio ScvO2 per la rianimazione nel paziente con sepsi grave e shock settico, potrebbe fare pensare che anche la monitorizzazione della lattatemia possa avere uno scarso impatto in questa popolazione (Henning 2016). Ciò sembrerebbe confermato dal lavoro di Jones e colleghi (4), secondo cui l’utilità però potrebbe essere limitata alla decisione di trasfondere e somministrare dobutamina, laddove si proceda ad un adeguato carico volemico e si somministrino antibiotici, ossigeno e vasopressori.
- A fronte di alcuni potenziali vantaggi, quale la possibilità di usufruire in Pronto Soccorso di un indice non invasivo che riflette l’emodinamica del paziente, non dobbiamo scordarci però anche potenziali limiti, quali le interferenze determinate dalla somministrazione del ringer lattato, dalla concomitante presenza di cirrosi epatica e da un eventuale contemporaneo trattamento con metformina.
Biblografia
- Vincent J-L, Quintairos e Silva A, Couto L, Jr, Taccone FS. The value of blood lactate Kinetics in critically ill patients: a systematic review. Crit Care 2016; 20:257. Link
- Zhang Z, Xu X. Lactate clearance is a useful biomarker for the prediction of all-cause mortality in critically ill patients: a systematic review and meta-analysis. Crit Care Med 2014; 42:2118-2125. Link
- Gu W-J, Zhan Z, Bakker J. Early lactate clearance-guided therapy in patients with sepsis: a meta-analysis with trial sequential analysis of randomized controlled trials. Intensive Care Med 2016; 41:862-1863. Link
- Jones AE, Shapiro NI, Trzeciak, S, et l. Lactate clearance vs central venous oxygen saturation as goals of early sepsis therapy. A randomized controlled trial. JAMA 2010; 303:739-746. Link
Due considerazioni sullo studio di Jones:
– mi convince poco l’avvio di DA, NA o dobutamina senza una valutazione della gittata (non invasiva con ecocardiografia o invasiva, con sistemi tipo Picco)…mi viene difficile capire il criterio con cui hanno deciso quale amina avviare.
– hanno utilizzato la PVC come indice di riempimento volemico (tra l’altro sappiamo che la PVC correla male con la volemia): se mettiamo il CVC per avere la PVC allora tanto vale utilizzare la SvC…
detto questo mi sembra difficile anche dal punto di vista pratico gestire un paziente con un vero shock settico senza un accesso venoso centrale (soprattutto per la somministrazione di farmaci e liquidi).
Detto questo, io trovo il lattato un ottimo indice, immediatamente disponibile e per questo molto utile. Un lattato che non scende con un adeguato riempimento volemico e l’avvio di amine è, nella mia piccola esperienza, un indice prognostico fortemente negativo.
Penso anche però il medico d’urgenza non debba aver paura di presidi invasivi, tipo il CVC, ovviamente quando sono necessari.
Grazie per il commento.
Per quanto riguarda la scelta delle amine, la noradrenalina rappresenta quella indicata più frequente come di prima scelta (si vedano per esempio le linee guida della Surviving Sepsis Campaign). Infatti, il meccanismo principale dell’ipotensione dello shock settico è la vasodilatazione periferica, che potrebbe essere controbilanciato dall’effetto vasocostrittore della noradrenalina mediato dall’azione sui recettori alfa-adrenergici. Il suo impiego si è imposto su quello della dopamina a partire dal classico lavoro di Sakr e colleghi (Crit Care Med 2006; 34:589–597) secondo cui l’impiego della dopamina potrebbe aumentare la mortalità nei pazienti con shock. Questo dato non è stato confermato in studi successivi (si veda NEJM 2010; 362(9):779-89) ma sembrerebbe comunque che l’uso della dopamina si correli ad un aumentato rischio di eventi avversi (quali tachiaritmie) rispetto alla noradrenalina. C’è anche una revisione Cochrane sull’argomento: Cochrane Database Syst Rev. 2016 Feb 15;2:CD003709.
Infine, la dobutamina viene utilizzata come ultima linea nel protocollo nel sospetto che lo shock, non risolto da liquidi e vasopressori, possa essere legato a una disfunzione miocardiaca indotta da sepsi. La dobutamina, infatti, produce un aumento della contrattilità miocardica se somministrata a dosi cosiddette intermedie (3-10 mcg/kg/min).
Non sono a conoscenza di evidenze che la determinazione della gittata cardiaca possa avere un impatto sulla scelta dell’amina iniziale.
Sono d’accordo con te per quanto riguarda la PVC; io infatti sono più interessato all’impiego della misurazione della diametro della vena cava inferiore e dell’indice di collabimento i quali, sebbene anch’essi gravati da significative limitazioni teoriche e pratiche, sono più semplici da ottenere.
Complessivamente, penso che dovendo avviare la rianimazione di questi pazienti spesso in condizioni difficili con una quantità tempo limitata, dovremmo focalizzarci su pochi presidi di comprovata efficacia; in questo senso, per esempio, il CVC che tu citi è stato impiegato nel 61,9% dei pazienti nello studio ARISE, nel 50,9% nello studio PROMISE e nel 57% nello studio PROCESS senza che ciò abbia avuto un impatto sulla sopravvivenza: non mi sembra per tanto essenziale nelle prime fasi della gestione del paziente, fatta salva la presenza di un patrimonio venoso soddisfacente. Per quanto riguarda la ScvO2, interpreta i dati con cautela perché un aumento del valore potrebbe non essere legato al miglioramento dell’Oxygen delivery ma piuttosto ad un’incapacità dei mitocondri di utilizzare l’ossigeno.
Grazie della risposta.
Gestire la somministrazione delle amine in vena periferica credo che sia consigliabile solo nella gestione dei primi minuti, poi bisogna passare ad un accesso venoso centrale.
Chiaro il discorso sulla SvC.
Sulla gestione delle amine/gittata io credo che la disfunzione miocardica (anche relativa) in corso di sepsi sia una di quelle cose che, se le andiamo a cercare, le troviamo molto più spesso di quel che potremmo pensare: chi, nelle ICU, la va attivamente a cercare, quando la trova gestisce poi lo shock settico con dosaggi intermedi di NA e dobuta, invece che con la sola NA ad elevato dosaggio. Mi rendo però conto che questo non è EBM ma ‘scuola’.
Grazie dell’articolo e della discussione, molto interessanti entrambi.
Caro Paolo,
ultimamente mi sono molto interessato alla produzione di lattato ed all’acidosi metabolica lattica. Devo dire che dopo aver approfondito l’argomento mi sono caduti parecchi miti metabolici e clinici :
1. Per quanto riguarda la produzione di lattato le ultime teorie biochimiche lo legano non all’ipossia o alla discrepanza ma all’attivazione adrenergica tipica degli stati di stress anche patologico. Questo spiegherebbe l’aumento dei lattati anche in stati di normale ossigenzaione cellulare proprio nella sepsi. (ref: Abnormal Cellular Metabolism in Sepsis: A New Interpretation JAMA. 1992;267(11):1518-1519.)
2. Sembra inoltre che l’aumento dei lattati non sia la causa dell’acidosi e che anzi la ritardi (ref: Biochemistry of exercise-induced metabolic acidosis. American Journal of Physiology Regulatory, Integrative, and Comparative Physiology. 1 September 2004 Vol. 287 no. 3, R502-R516)
American Journal of Physiology Regulatory, Integrative, and Comparative Physiology
Ho scritto un post sull’argomento:
https://medest118.com/2016/10/05/humans-are-not-yeast-almost-everything-we-believe-about-lactate-is-a-myth/
Quanto detto non inficia la possibilità di utilizzare i lattati come indice di criticità e la loro clearance per monitorare lo stato del paziente, ma li pone sotto una luce biochimica e clinica completamente diversa.
Mi interessa molto il tuo parere e quello dei lettori EMPILLS a proposito.
Grazie
Mario Rugna
Ciao Mario, grazie per il commento.
Per quanto riguarda il punto 1., ritengo che i meccanismi di generazione del lattato di origine aerobia e anerobia concorrano entrambe a determinare l’incremento della concentrazione del lattato; molto probabilmente i primi assumono ancora più importanza nello shock settico rispetto agli altri tipi di shock.
Sono d’accordo anche sul secondo punto: un incremento dell’acido lattico deve essere visto come un dato preoccupante, qualsiasi sia il meccanismo che l’abbia determinato (l’ipossia tissutale, la stimolazione adrenergica, o l’endotossinemia provocata da agenti patogeni). il fatto che l’evoluzione abbia favorito degli organismi che sono stati in grado di utilizzare il lattato per produrre energia in condizione di stress metabolico non riduce a mio avviso il peso prognostico del marcatore.
Infine, non vi è chiarezza sul peso prognostico della lattatemia associata o meno all’acidosi. Io resto ancorato alle evidenze che anche modesti incrementi devono essere presi in considerazioni in quanto correlati a prognosi peggiore (si veda per esempio Journal of Critical Care 29 (2014) 334–339).
Grazie Mario Rugna per il Suo commento.
Per quel che riguarda il punto 2 devo ammettere di dover studiare…
Per quel che riguarda il punto 1 io ho inteso ultimamente (dopo aver studiato il Marino ICU book) i lattati come legati alla disossia/disfunzione mitocondriale correlata alla sepsi, non come indice di ipossia/ipossiemia. Questo corrisponde a quello che vedo nella mia pratica clinica, dove il paziente emodinamicamente stabile ma ipossico difficilmente fa lattati.
Grazie delle references, studierò con calma.
Riformulo: il paziente ipossico ma emodinamicamente stabile e non in distress respiratorio, difficilmente fa lattati.
Cercare una correlazione tra ipossia/ipossiemia e acido lattico non ha molto senso. E’ chiaro che nel paziente emodinamicamente stabile, non in distress respiratorio il lattato non ha molto da dire.
Quando si parla di meccanismi anerobiotici di formazione del lattato, si fa’ riferimento alla “fornitura tissutale” di ossigeno, ovvero a quanto ossigeno viene reso disponibile a livello cellulare. Ciò dipende anche dalla pressione arteriosa, dallo stato del microcircolo, dalla concentrazione dell’emoglobina e non sollo dalla presisone parziale di ossigeno. L’ipossia isolata, cioè non associata a ipotensione, ipovolemia, etc., può essere compensata, entro certi limiti, da un incremento dell’estrazione tissutale di ossigeno (normalmente pari al 25%) senza ripercussioni sulla disponibilità di ossigeno.
Caro Paolo,
complimenti davvero. Credo che il post sia nato dalla “metabolizzazione” di alcuni spunti venuti fuori a Barletta in quel bellissimo evento organizzato da Peppe Di Paola. Mannaggia, perchè Fernando Schiraldi non ama i social tecnico-scientifici?! Mi piacerebbe che rispondesse a Mario Rugna. Mi piacerebbe che parlasse della differenza dei lattati e del deficit di basi e della loro diversa interpretazione ed utilità nel trauma. mi piacerebbe che parlasse del “costo” metabolico delle amine etc. Mò glielo dico e vediamo se ci riiusciamo. Grazie dello spunto e dell’analisi dello studio.
Sarebbe bello anche per me confrontarmi ed imparare. A proposito ti segnalo un ottimo post riassuntivo su lattati e spesi.
Lactate in Sepsis: Pearls & Pitfalls http://www.emdocs.net/8362-2/
Orientato essenziale e chiaro.
Grazie Mario per l’incoraggiamento. Effettivamente l’idea di scrivere il post è nata a Barletta, dove per l’ennesima volta mi sono accorto di quanto sia vastol’argomento sepsi/shock settico. Ciao
Mi trovo d’accordo tutte le critiche mosse da Chiara, nella fattispecie:
– la PVC come guida al riempimento volemico è stato dimostrato essere sbagliata
– l’uso indistinto di Dopamina/Noradrenalina + Dobutamina solo sulla base di PAM + SvO2 e lattati lo trovo quantomeno forzato.
A quando l’introduzione dell’Ecocardio + Vena Cava per capire se il mio paziente è ” vuoto” o ha un problema di pompa?
Per il resto complimenti per il post e concordo che potenzialmente i lattati saranno sempre più presi in considerazione.
PS: sarei più che interessato al confronto lattati vs deficit di basi!
Gentile Ivan,
Grazie per il commento.
Il lavoro di Jones e colleghi si proponeva unicamente di sostituire la ScvO2, utilizzata nello studio di Rivers e colleghi (EGDT), con i prelievi seriali del lattato, non di studiare sistemi più complessi di monitoraggio, difficilmente attuabili in Pronto Soccorso.
Sono d’accordo, come ho già scritto, che la PVC non serva. Concordo con te sull’utilità di valutazioni ecografiche della vena cava inferiore. Ne abbiamo parlato più volte su Empills.
Caro Mario, prova a postarla tu perche” io continuo a essere un idiota informatico. Un abbraccio.F.
Se puo’ interessare, ecco la mia sintesi:
1. Il lattato e’ prodotto & metabolizzato momento per momento ‘fisiologicamente’ come prodotto del metabolismo intermedio.Dunque non assume di per se” significato patologico. Tra le sue funzioni ‘dimostrate’ vi sono
a. shuttle intercellulare di unita’ carboniose a valenza energetica
b.”signalling” intertessutale di squilibrio tra O2 Demand vs DO2, generalmente associato a basso pH intracellulare [ c.d. funzione di “Lactormone”], molto precoce nelle condizioni di disomogeneita” della perfusione ossigenata [v. Krogh].
Inoltre possieede sicuramente valore prognostico. Al momento e’ l unico marker utilizzabile in grado di fotografare lo stato ‘redox’ tissutale quando tende a salire nelle valutazioni seriate[quando il rapporto Lact/Pyr e” maggiore di 10], [v.anche i lavori di Levraut sulla clearance del lattato esogeno].In realta” LG Forni ha dimostrato da tempo che tutti gli intermedi di Krebs, investigati alla spettrofotometria, sono alterati neglistati di malesere metabolico tessutale.
Nella sepsi generalmente una iperlattatemia a pH vicino al normale e’ comune nelle prime fasi “ipermetaboliche” e non ha prognosi negativa [ rapporto Lact/Pyr conservato]
.Nella sepsi, e in tutte le forme di inadequatezza della perfusione, lattato alto e pH basso rappresentano il ricorso a metabolismo prevalentemente anaerobico con incapacita” di fegato e rene di metabolizzare un eccesso di lattato prodotto, determinando una acidosi metabolica ad AG alto. La persistenza di acidosi lattica, anche su intervalli di 2-6 ore, ha gia” prognosi infausta.
f. il BE e” un marcatore grossolano di squilibrio O2 Demand vs DO2, non misurato ma calcolato su valori a loro volta calcolati, e quindi di per se” esposto al rischio di moltiplicazione dell”errore matematico.Inoltre , non tenendo conto dei meccanismi di compenso e dell”AG, fotografa la gravita’ della Acidosi Metabolica, ma nulla dice rispetto alla diagnosi eziologica. Viene ormai usato solo nella valutazione del trauma perche” prognostico sulla gravita” per una prima grossolana stadiazione [v. anche Schiraldi Guiotto sull”EJEM 2014].
g.Rispetto ad una valutazione piu” esaustiva dell”impatto delle terapie d”urgenza sul metabolismo del malato critico, la tendenza attuale e” quella di effettuare valutazioni seriate [ ogni 30-60 min.] di
a.clinica
b ECO
c EGA arterioso con lattatemia
d ScVO2
e Delta va di PCO2 [ v. anche Pinsky “mind the gap” 2015].
La prossima volta, ammesso che possa interessare a qualcuno, mi piacerebbe dare un contributo su “volemia, pressioni e flussi”, perche” credo che i tentativi di oversemplificare possano produrre pericolose certezze, che nella fisiopatologia applicata sono rappresentatae secondo un intergioco discretamente piu” complesso.
Buon lavoro, per voi che lo avete ancora.
Questo è il mio e di tanti altri MAESTRO!!!
Fernando, sempre onorati di averti come commentatore e ancor meglio come autore su empills.
Aspettiamo con ansia il tuo contributo su volemia pressioni e flussi.
Un caro saluto
Mario, ringrazia il Prof. Per il suo intervento, come al solito ben mirato alla discussione. Al di là dei concetti fisiopatologici che legano sepsi e metabolismo del lattato, non ancora del tutto chiariti in letteratura, quella che mi sento di condividere pienamente è l’idea di una valutazione “olistica” che tiene conto della clinica (marezzatura cutanea, stato di coscienza, frequenza respiratoria tra gli altri parametri), ecografia e parametri metabolici. Questo è per me il messaggio principale che dovremmo sempre tenere a mente.
motting docet!