Quella mattina varca la porta dell’ambulatorio Luigi con un pacchetto in mano, sorride e mi dice “oggi ho qualcosa io per te, conoscendo la tua curiosità a riguardo, penso che possa essere un buon strumento per potersi mettere dall’altra parte”.
Infatti sono una persona, e chi mi conosce un po’ lo sa, discretamente curiosa ed interessata alla psicologia del comportamento umano, alla comunicazione e come questi aspetti si intersechino con il lavoro che faccio.
Mi porge un libro “La comunicazione diseguale”, un micromanuale che racconta l’esperienza di una donna, Lucia Fontanella, (prof universitaria di materie filologiche e linguistiche) con la malattia, la chirurgia, la rianimazione, il ricovero , ma tutto incentrato in particolare sul lato comunicazione.
Questo pezzo non vuole essere una recensione letteraria
Non è davvero l’obiettivo, quanto raggruppare un insieme di pensieri che , piano piano, si sono in me formati leggendolo, che mi hanno ispirato, e che possono magari interessare qualcun altro.
Praticamente sono un insieme d’immagini, ricordo, emozioni e reazioni di chi è stato dall’altra parte e che , anche se non condiviso appieno nella sua interezza, mi ha aiutato a capire cosa può celarsi dall’altra parte.
Aprendo la prima pagina del libro mi colpisce una frase (ci sono molte sottolineature nei miei libri, sacrilegio per molti di voi immagino..).
“ Sono medici ed infermieri che non solo ti curano e ti salvano, ma che si chiedono anche se lo hanno fatto nel modo migliore possibile. E per avere una riposta servono davvero anche I racconti dei loro pazienti ed un po’ di analisi dei fatti.”
Io aggiungerei, come prima cosa serve arrivare a chiederselo.
Spesso siamo così impegnati e preoccupati ad aggiornarci sulle ultime novità mediche, studi, farmaci ed innovazioni (che sono sempre più di quelle che il mio cervello riesce a recepire e contenere), che per tutto il resto non rimane abbastanza tempo o energia.

Per cui ora, vado controcorrente e mi fermo a ragionare su altri, forse meno nobili contenuti medici, ma nel profondo del mio stomaco, decisamente importanti se non fondamentali.
Nel libro una domanda provocatoria mi è rimasta impressa.
“Preferisci un medico competente o uno gentile?” .
Perché, mi chiedo io, deve esserci una dicotomia ? Perché una cosa deve per forza, escludere potenzialmente l’altra?
Durante la mia lettura , calandola nella realtà del mio modo di lavorare, mi sono trovata a ragionare sul fatto che, a volte, ci sono delle cose davvero fini che potrei fare e che varrebbero molto, ma o per la fretta ed il carico di lavoro, per la stanchezza di certe giornate o per semplice mancanza di attenzione, anche io mi ritrovo a dimenticare.
Sono davvero piccole attenzioni comunicative , ma potenzialmente enormi nel contesto e nel guazzabuglio di vite che ci troviamo a sfiorare e toccare ogni giorno ed ad ogni turno.
Il primo dubbio mi è sorto riflettendo sul titolo stesso.
Cosa si intende per comunicazione diseguale?

“La diseguaglianza comunicativa la si ritrova non solo in ospedale, ma anche nelle scuole , nei tribunali o nelle caserme militari. La diseguaglianza parte dal concetto che in questi ambienti , le persone coinvolte nelle comunicazioni, non sono ALLA PARI, non hanno lo stesso POTERE. […]nella comunicazione diseguale si riscontra in particolare uno sbilanciamento del possesso di spazio, tempo e di lingua. Ci sono specifici spazi per comunicare , specifici tempi o orari.”
Ma soprattutto ci sono alcune componenti importanti dell’arte comunicativa a cui non prestavo grande attenzione prima che me le facesse notare il testo.
La lingua
Immagino che molti di voi, se non tutti, vi siate trovati all’estero in paesi dove non avevate conoscenza della lingua locale e non riuscivate a comunicare quello che volevate o che vi serviva.
Vi siete magari trovati nel piatto un cibo che non era quello immaginato perché’ avete “misletto” qualcosa nel menu’, o pensato di aver compreso una indicazione stradale e vi siate trovati in tutt’altro posto…
Beh, spesso è quello che accade con I pazienti con I quali pensiamo di aver parlato in maniera chiara, ma che alla fine si ritrovano in tutt’altro posto con la loro mente rispetto a quello che era il nostro messaggio, che nel loro piatto non riconoscono il programma di cura che gli si era prospettato sul menu’.

Un intero capitoletto inizia con il titolo”che lingua parlano gli italiani?”
Bella domanda. La lingua utilizzata si divide un piu’ “giusta” e piu’ “adatta”.
Esistono situazioni in cui il nostro modo di parlare non deve essere grammaticalmente corretto o utilizzare tutti quei “nomi e termini” che tanto abbiamo studiato, ma deve essere adatta. Adatta ed adattata a chi ci sta davanti.
“La diversità è creata dal posto in cui siamo nati e cresciuti, dalla nostra eta’, dalla famiglia in cui siamo cresciuti, dagli studi che abbiamo fatto, dal nostro lavoro, dal nostro sesso. Tutto questo fa si che ognuno parli una SUA lingua italiana.”
Per cui farsi capire in ospedale è cosa fondamentale.
Spesso infatti usiamo parole che a noi sembrano semplici, ma che se fai un bel sondaggino in giro, ben pochi conoscono, o se le conoscono magari non le comprendono appieno.
Le “patologie”, “terapie”, “stabilizzazioni”, “acuzie”, “i parametri vitali”, “le diagnosi”, “le prognosi”….e tutte quelle parti del corpo che abbiamo studiato ad anatomia (con grandissima fatica) e tutti quei nomi strani di interventi, farmaci o esami, spesso li scioriniamo con naturalezza, come se avessimo davanti un collega…ma cosa succederebbe se ci trovassimo in altri campi???saremmo noi cosi sul pezzo?
Mi sono trovata da poco a cercare casa e vi assicuro che dall’alloggio con “esposizione” piuttosto che tutti quei tecnicismi per le “caparre o l’atto notarile” , se non avessi avuto chi mi ha supportato nella ricerca, difficilmente mi sarei salvata e avrei trovato la soluzione giusta in quella Babele comunicativa. E tutto questo per cercare casa, pensatemi ad occhi sbarrati davanti ad un problema di “trasmissione”(TV??) o di “candele”(vaniglia o cocco?) o di “alberi” (ma che centrano gli alberi adesso??) davanti allo sguardo sconsolato del mio meccanico…
Allora perché pretendiamo chiarezza dagli altri?
Perchè se poi noi stessi non ci rendiamo conto di quanto poco chiari a volte siamo con le nostre frasi, specialmente in situazioni complesse, quando non abbiamo solo la macchina (che non è comunque poco) , ma abbiamo la salute o a volte la vita di una persona tra le nostre mani?
Non lamentiamoci se pochi minuti dopo, qualcuno ribussa al nostro ambulatorio per nuove spiegazioni, o il giorno dopo il parente ritorna alla carica su questioni che abbiamo affrontato il giorno prima, perché loro possono non aver capito, ma questo è anche perché noi non siamo stati abbastanza chiari, o non abbiamo controllato che il messaggio fosse stato recepito realmente su più livelli. (ok, a fronte di rare volte in cui proprio non c’è speranza con il paziente o il parente a qualsiasi (dico qualsiasi) livello comunicativo, e li’ si gioca di pazienza e fantasia!).
Tempo
Ci sono momenti fondamentali per la buona riuscita della alleanza medico/infermiere-paziente, primo tra tutti il primo incontro.
“La predisposizione è il risultato delle esperienze ed aspettative di entrambi gli interlocutori”.
Un paziente o famigliare aggressivo o pretenzioso può portare l’operatore sanitario ad irrigidirsi e attuare atteggiamenti di difesa che agli occhi dell’altro diventano “maleducazione o freddezza”. Un medico frettoloso, disinteressato o continuamente distratto può far trapelare noncuranza o indifferenza nella mente del paziente, che è li con un problema per il quale chiede aiuto e , quando possibile, una soluzione.
Modo
Esistono numerose modalità di comunicazione , le metafore ad esempio, o altri “trucchi” che si utilizzano spesso nell’atteggiamento della comunicazione diseguale, due delle quali vi voglio presentare, perché, purtroppo, le ritrovo nel mio stesso modo di operare (purtroppo si, ma l’averlo compreso spero mi aiutera’ a modificare la strada..spero..).
La minaccia
La minaccia intesa come un tono da Superiore (l’operatore) che in quel momento è a casa sua, nel suo spazio, e nel suo ambiente, indirizzato nei confronti di un Inferiore (il paziente o il parente) che nell’ospedale è ospite. Ammetto che a ripensarci non è tanto la minaccia nel senso del termine che normalmente utilizziamo, ma una variante comunicativa decisamente più velata e nascosta che può essere intesa come tale.
“se non fa….le succede questo….” , “l’avevo avvertita di ascoltare le mie indicazioni…” , “ se non prende questi farmaci di sicuro le succede questo…..”. E se nessuno di voi ha mai usato queste “ minacciose” raccomandazioni alzi la mano, perché io ce l’ho in alto dalla prima parola.
Spesso diamo ordini , ma non li giustifichiamo, diamo indicazioni perentorie, ma non accompagnate da motivazioni, oppure ci aggrappiamo a spiegazioni da “Harrison Book”, ma questo non aiuta, anzi spaventa o provoca. Sinceramente, cuore in mano, davvero voi fareste proprio tutto, e dico tutto, quello che noi chiediamo ai nostri pazienti di fare, assumere o essere sottoposti, se non aveste ben chiaro il perché è importante che lo facciano???…Sicuri???
Beh, spesso non è cosi chiaro per loro il perché lo devono fare, e noi non abbiamo ben compreso che LORO non lo fanno perché sono “bambini indisciplinati o ribelli”, ma perché NOI non abbiamo ricontrollato il loro grado di comprensione e spiegato appieno le ragioni delle nostre raccomandazioni e preoccupazioni.

L’infantilizzazione comunicativa
“tranquilla, è solo una punturina, suvvia” , “ si inizia con un taglietto” (del quale il numero di cm non è ben spiegato a volte…) “non si preoccupi, ancora un attimo ed ho finito” (..io lo dico spesso, mentre procedo nella biopsia ossea che di attimi decisamente poco piacevoli ne prende diverse centinaia, ahimè…)
E’ un’altra cosa a cui non avevo mai pensato nel linguaggio che uso nella mia giornata lavorativa, ma tutti i diminutivi e vezzeggiativi servono ad indorare una pillola decisamente di un altro colore, e questa modalità comunicativa può essere recepita a volte come una semplificazione, minimizzazione o menzogna, che può minare il rapporto medico/infermiere/operatore sanitario-paziente.
La domanda che nel libro riecheggia dopo che l’autrice è stata tenuta ben più di due ore in CPAP, è “ma mentiva sapendo di mentire , la donna del casco? Certo non riteneva fosse una questione seria , essere precisi sul numero di ore in cui avrei dovuto tenere il casco”.
E cosi mi ritrovo a chiedermi se i miei “attimini” di dolore in corso di una procedura invasiva come la biopsia, non debbano essere sostituiti da qualcosa di più concreto, che prepari meglio il paziente a quello che lo aspetta, al fine di non risultare menzognera.
A volte usiamo questi termini per “difesa”. Ci difendiamo dal fatto che è odioso fare del male fisico, dare fastidio, mettere il paziente in una condizione sgradevole che molte delle nostre procedure necessitano. Ma è anche importante sapere che dall’altra parte il messaggio può uscire falsato o mal interpretato, per cui è importante provare a esercitarsi a non “infantilizzare” termini e procedure, soprattutto quando davanti a noi abbiamo persone capaci di comprendere , se ben preparati ed informati. C
Comunicazione non verbale
Come sappiamo tutti, la comunicazione è attiva su diversi livelli.
Due frasi mi hanno colpito relativamente al linguaggio non verbale.
La prima riguarda la reale sensazione che quello che viene detto verbalmente ed argomentato sia accompagnato da un atteggiamento, uno sguardo ed una espressione congrui. Se questo manca è possibile che a distanza di poco, la stessa domanda che e’ stata posta, e che vi sembra di aver ben argomentato, ritorna nella mente del paziente/parente perché qualcosa STONA. Già, perché la mente umana intercetta anche questi atteggiamenti e, se non espressi correttamente, possono risultare in un fallimento della comunicazione ed in una nuova richiesta di conferme.

La seconda riguarda lo sguardo.
Molto carino è il termine che usa l’autrice/paziente parlando di sguardi. “se siete mai stati in un ospedale avrete notato quante strategie sanno usare i medici e gli infermieri per non incrociare lo sguardo dei pazienti. Hanno paura di essere “arpionati”..”
Il termine rende bene l’idea, della difficoltà che uno sguardo può causare , soprattutto se oberati di lavoro, se sotto stress, se di corsa, e soprattutto quando sappiamo che, a quella domanda che ci viene ripetutamente posta, noi non abbiamo una risposta dicotomica, (bene /male, si/no…) ma noi stessi viviamo la situazione clinica del nostro paziente minuto per minuto.
Un consiglio dato dal fronte di chi è stata paziente, è quello di ammettere questa incertezza, di confessare di non avere una risposta univoca, e di fare il possibile per poter dare informazioni più dettagliate successivamente. Questo affrontare ed essere arpionati dallo sguardo, costa a noi forse pochi minuti, ma di sicuro dona al parente/paziente la sicurezza che si è sul pezzo, che non li si ha abbandonati.
Score di fragilita’
Nell’essere infermieri/medici/operatori sanitari è fondamentale avere una sensibilità che ci conceda di comprendere il grado di “fragilità” fisica ed emotiva del paziente/parente che abbiamo davanti.
Non è possibile entrare nelle vite di tutti in maniera approfondita, sicuro, ma già il fatto di avere una patologia di una certa gravità, o di sentire dolore, o di essere solo senza famiglia, sono dei punti che dobbiamo considerare nel momento in cui comunichiamo con il nostro interlocutore. L’Emotività, la preoccupazione ed il carattere stesso (timido, riservato, aggressivo, ansioso) sono fattori importanti da considerare. Abbiamo detto che non tutti possono comprendere linguisticamente i nostri messaggi se non ben “adattati”, ed a questo dobbiamo aggiungere tutta quella componente emotiva che accompagna la malattia.
“in situazioni di particolare sofferenza emotiva e fisica e’ possibile perdere la capacita’ di cogliere l’intera gamma semantica di un oggetto comunicativo”.

Facendo attenzione ad ogni parte del testo mi sono resa conto che tutto è davvero un atto comunicativo, dal reale colloquio, allo sguardo, dal tono vocale, al grado di comprensione del mio interlocutore, alla sua emotività del momento, alla sua fragilità o solitudine, alla condivisione di tale comunicazione con i colleghi del team di trattamento (per essere in grado di dare un messaggio univoco al paziente e non raffazzonato da mille pareri diversi) …davvero una missione difficile all’interno del delirio in cui so che ognuno di noi lavora quotidianamente.
Ma sapere è potere.
Questo lo diceva qualcuno un po’ più famoso e intelligente di me, e rifacendoci a questo messaggio, davvero a volte una comunicazione ben fatta ci può far risparmiare tempo e fatica, e frustrazione e disagio e può fare un gran gran bene al paziente ed al suo team famigliare…
Tra le ultime pagine vi è un monito o un consiglio, che alla luce di tutte queste cose precedentemente lette, può risultare in una degna conclusione
“L’informazione in ospedale, va affrontata con la stessa precisione con cui si predispone una terapia. Deve essere progettata, programmata, proposta, verificata. L’informazione sorregge la degenza dei pazienti e dei loro parenti e ne determina la loro qualità’”.
Grazie Luigi per il tuo regalo, mi ha messo in crisi, ma mi fatto davvero un gran bene…

Per chi di voi avesse voglia di leggerlo, regalarlo, condividerlo…
°La comunicazione diseguale” di Lucia Fontanella
Salve mi chiamo Isabella e sono un’ infermiera. Un bellissimo post,in cui pensio ognuna di noi si sia riconosciuta in qualche parte del testo.
Grazie mille per il consiglio di lettura e soprattutto grazie per gli spunti di riflessione.
D’altra parte ormai da tempo si parla di umanizzazione delle cure,quindi vuol dire che qualcosa per strada ci siamo persi, visto che dovremmo curare e assistere persone.
Ricominciare a imparare a come comunicare può essere un buon punto di ripartenza. Anche perché nel letto in giorni potrebbe esserci un nostro caro o noi stessi. E come vorremmo che si comportassero i colleghi con noi?
Grazie di cuore Isabella…il tuo feedback e’ importante per me
La comunicazione credo sia fondamentale in ogni campo ma soprattutto in quelle situazioni di crisi umana come la malattia, in cui anche il potere di comprensione viene offuscato dalla emotivita’ della ansia o della disperazione o della paura di quei momenti… beh, ancora di piu’ dobbiamo “investiere” tempo nel comunicare correttamente, anche perche’ ho imparato che se non lo faccio bene subito, o almeno ci provo, il tempo lo “spreco” dopo a ripetere le cose che avrei dovuto dire prima.
come dici bene tu, mi faccio spesso la domanda, ma se ci fossi io o qualche conoscente o amico li che farei??come sarei?lucida o meno?
Grazie ancora a te e buon lavoro
Sono un’infermiera di PS e spesso mi ritrovo a dover fare da “traduttrice” tra medico e paziente. Non per cattiva volontà del medico, ma perchè qui i tempi sono cosi ristretti che spesso purtroppo non permettono una comunicazione chiara.
Aggiungo che nelle situazioni conflittuali, che nel DEA sono la norma, una comunicazione efficace ed onesta spesso “disinnesca” il pz arrabbiato o aggressivo.
Grazie Mari,
come dici bene tu spesso il tempo per comunicare in certi modi non e’ sempre tanto, ma spesso poi se non lo si fa con attenzione subito, il tempo ti tocca spenderlo a ripetere o chiarire i concetti precedentemente sorvolati…e’ sempre difficile, mai semplice dire certe cose, in certe circostanze, e da oncologa spesso mi capitano discorsi complessi e domande a cui non ho risposta (come credo tanti altri colleghi medici ed infermieri in altri campi…) ma mi impegno e mi impegnero’ al fine di continuare a migliorare , perche’ tutti ci meritiamo una spiegazione ed una comunicazione efficace e meno “diseguale..”
Grazie di cuore per il commento e il feedback
buon lavoro!