mercoledì 29 Novembre 2023

Ma siamo ancora in grado di farcela?

Da giovane, principiante ed inesperto medico sei interessato ad altro.

A sopravvivere all’inizio, prima tu e poi quelli che con voce trepidante ed incerta definisci “i tuoi pazienti”. Con un candido ma indispensabile senso di responsabilità, qualità sempre più rara.

Ad imparare a visitare, a fare una buona anamnesi. Apprendere la palpazione, la percussione, l’ispezione e la auscultazione.

Poi inizi ad appassionarti. E vieni travolto.

Comprendi che puoi fare di meglio rispetto alla semplice sopravvivenza. Puoi addirittura arrivare a formulare una diagnosi e già poter affermare con sicurezza: “signore lei ha la polmonite” ti fa sentire quasi un DIO. Non accorgendoti, o non volendo accorgerti, che stai solamente e semplicemente leggendo il referto della radiografia del torace, chiesta da un tuo collega e refertata da un altro.

Poi inizi a pretendere di più: più diagnosi, più difficili. Vuoi diventare un fine semeiotica e diagnosta, non uno qualsiasi, uno di quelli bravi, anzi il migliore. Cerchi negli occhi dei tuoi pazienti il Saturnismo e nel loro addome una possibile Porfiria. Insegui la diagnosi dell’anno, a costo di accomodare i sintomi del paziente in quella patologia ed in quel quadro clinico. In una sorta di craving mistico non vuoi essere un meDIO ma solo un DIO.

Poi cresci, superi la fase dell”innamoramento tossico, e comprendi che esiste qualcosa altro.

Di solito succede qualcosa o meglio ti capita. Il primo paziente che non rientra nel tuo perfetto inquadramento diagnostico terapeutico, la morte di un famigliare a cui avevi dedicato tutto il tuo sapere medico, il rimbrotto del famigliare di quel paziente a cui avevi dato tutto la tua conoscenza ma poco del tuo tempo. Il primo paziente che ti sorprende, in bene ed in male. La prima denuncia.

Capisci che non sei solo un tecnico. Capisci che dietro ad un cuore c’è una testa e che tutti gli organi condividono la stessa anima. Allora capisci che non è solo un prelievo, una ecografia, una flebo di antibiotico ma più importante sono una carezza, un sorriso regalato, una battuta con i tempi ed i modi giusti; è discrezione, e vicinanza, è empatia. E’ affinità umana al paziente che sta di fronte a te e non ti chiedo per forza una diagnosi, una cura o una etichetta ma molto spesso solamente aiuto e conforto.

Poi cresci ancora un pò o forse maturi ed inizi a guardarti intorno.

Allora se stai non solo per loro ma con loro, finalmente riesci a vederli. A notarli. In barella per 24 ore in condizioni ai limiti dell’umanità e della dignità. Senza comodino, senza privacy, su materassi senza spessore abbracciate da lenzuola spiegazzate e fredde. Persone che hanno fatto la guerra, che si sono innamorate, sposate, magari sono stati lasciate, sicuramente hanno pianto e riso, hanno vissuto avventure fantastiche ed amicizie intensissime, drammi roboanti e sensi di colpa vergognosi. Adesso stipati ad attendere un futuro che no sembra più poter appartenere a loro e di cui neanche tu sei a conoscenza.

Perchè cresci, diventi grande, maturi e provi ad allargare quello sguardo con cui li hai iniziati a prenderti cura. Capisci che è necessario comprendere non solo più la clinica medica ma anche l’organizzazione sanitaria: come funziona l’ospedale, dove assistere questo paziente, dove ricoverare quest’altro..

E li il cambiamento forse necessario, forse colpevole, forse ferale della attività lavorativa del medico: da clinico ad organizzatore.

E continui a crescere, che ti domandi quasi quando finirai di farlo, e ti conferiscono nuove responsabilità, che il più delle volte fa solo rima con difficoltà: organizzare i ricoveri.

Ed ogni mattina ti svegli presto, quasi con l’angoscia ed arrivi in turno prima per poter ORGANIZZARE meglio. Questa parolona con cui riempiamo la bocca e ci fa sembrare più alti e più grandi. Tu ed una pletora di pazienti da ricoverare. Una fiumana umana, un nugolo di corpi e mai di emozioni.

Destinare ad ogni persona un posto. Ogni giorno sembra una impresa. Pietire un posto letto. Scongiurare perchè se il paziente rimane giù domani se ne avrà uno in più alla lista scarlatta dei ricoveranti.

in fondo praticamente Elemosinare.

E loro diventati un numero.

“Quanti ricoveri hanno fatto le medicine?” “Possibile che la neuro ne prenda solo due?” “Ma la cardiologia non dimette mai nessuno?” “In nefrologia qualcuno lavora?”

E loro sempre sulle stesse barelle ad attendere il destino che riguarda loro ma che non possono più scegliere.

E tu inizii a pensare che ogni giorno possa essere l’ultimo prima del fallimento del sistema azienda ospedale.

Ed ogni giorno non sai come ma arrivi alla fine, più stanco, meno gratificato, pensando che l’oggi è stata un’eccezione e domani non si sarà così fortunati.

Poi domani con l’arte dell’arrangio riesci ugualmente a fare fronte alle enormi carenze organizzative strutturali di un sistema che ti appare però sempre più prossimo alla saturazione e sempre più pronto per l’implosione e la deflagrazione su sè stesso.

Ed allora pensi. Entri e li guardi. Stai con loro e li. Esci dal turno e li guardi. Torni il mattino dopo e li guardi.

E capisci che abbiamo bisogno di metodiche alternative di cure. Di luoghi e di gestioni complementari. Umane. E personalizzate. Abbiamo sempre parlato di intensità di cure: ma esiste anche criteri per una estensione di cure?

Ipotizziamo due pazienti con stessa condizione clinica ma fragilità diversa: perchè il giovane (con una maggiore riserva funzionale certo ma anche un maggio numero di anni di vita da tutelare) spesso non si concede una assistenza ospedaliera che invece il paziente fragile non può evitare per l’assenza di una assistenza adeguata domiciliare? Forse non stiamo difendendo abbastanza i diritti di salute e di cure adeguate sia dei giovani che dei fragili?

Dove sono le cure per i pazienti fragili? Quale è il nostro concetto di salute?

Bisogna svuotare l’ospedale di pazienti e riempire le case di ospedali.

Bisogna portare l’ospedale a casa dei pazienti. Bisogna lasciare a casa i pazienti e portare a loro la salute, Ricordandoci la sua definizione: che è più complessa, ampia e più potente di una semplice prescrizione di terapia endovenosa e l’assegnazione di una barella di ricovero.

Solo così potremmo diventare una società che da il giusto riconoscimento e l’esatto peso ad una sanità che sta diventando giorno dopo giorno non più una missione ma un profitto. Perchè questa non è il progetto di salute a cui voglio partecipare.

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Davide Tizzani
Davide Tizzani
Specialista in Medicina Interna, ma specializzando ancora nell'anima. Esperto di Niente. Interessato a Tutto. Appassionato delle tre E: ecg, ega, ecografia. @DavideTizzani |

4 Commenti

  1. L’Ospedalizzazione a Domicilio della Geriatria delle Molinette da oltre 30 anni porta l’ospedale a casa dei pazienti. Purtroppo, nonostante numerosi trial clinici condotti abbiano evidenziato i vantaggi, clinici, economici, l’alta gradibilità del servizio da parte dei pazienti e dei loro familiari, nonostante tutta l’attività di promozione fatta a livello delle sedi istituzionali, questo modello organizzativo non è stato replicato e continua ad esistere solo alle Molinette.

  2. Ciao Davide, Grazie! Come sempre significativo.
    Lavoro in un’assistenza domiciliare. Leggo spesso i vostri post. Le tematiche affrontate ci sono più vicine di quello che potreste pensare e i medici di PS spesso rimangono i nostri interlocutori preferenziali. Siamo molto ricettivi rispetto tutto quello che potrebbe far davvero diventare “la casa come luogo di cura”, anzi ringrazio ancora Giuseppe per i consigli riguardo la strumentazione. Mi piacerebbe davvero organizzare un confronto con voi. Avvisate se pensate a qualcosa in merito!
    Ancora grazie

    • Penso sarebbe bello riuscirebbe a collaborare e confrontarci. Molto spesso la mancata possibile soluzione ad un problema è non aver chiesto al tuo vicino che la soluzione la ha già.

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