Quanto tempo abbiamo speso a capire quando fosse iniziato un episodio parossistico di fibrillazione atriale non valvolare (FANV)? Questo perché una delle “leggi fondamentali” della Medicina d’Urgenza recita che, se la durata dell’episodio di aritmia è inferiore alle 48 ore, è possibile cardiovertire il paziente senza la necessità di un periodo di anti-coagulazione precedente, dato il basso rischio di formazione di un trombo atriale e della sua successiva embolizzazione distale. Ciò permette dunque di gestire il paziente completamente in Pronto Soccorso.
Recentemente, però, una “scientific letter” apparsa su JAMA (1), che propone un’analisi secondaria dei dati del FinCV Study, sembrerebbe suggerire che sia giunta l’ora di rivedere questo assioma.
Il FinCV Study
Pubblicato nel 2013 (2), è uno studio retrospettivo di pazienti con accesso urgente in ospedale per fibrillazione atriale parossistica insorta da meno di 48 ore che si pone l’obiettivo di valutare l’incidenza e i fattori di rischio di complicanze trombo-emboliche dopo una cardioversione efficace. Venivano presi in considerazione solo i pazienti non sottoposti a terapia anti-coagulante o eparinica in sede peri o post-procedurale.
Sono stati incluse 5116 procedure di cardioversione operate su 2481 pazienti. L’outcome primario è la diagnosi di un evento trombo-embolico acuto (stroke o altro embolismo sistemico) entro 30 giorni dalla procedura.
Nel complesso si sono verificati 38 eventi trombo-embolici acuti (0,7% delle totale delle procedure), di cui 31 stroke. L’intervallo medio tra la procedura e l’evento trombo-embolico era di 4 giorni; si sono verificati 11 decessi (0,21% delle procedure). Fattori di rischio per complicanze trombo-emboliche sono risultati l’età (cut-off ottimale 60 anni), la presenza di comorbidità quali scompenso cardiaco e di diabete, e il sesso femminile.
Stranamente, in questa prima pubblicazione gli Autori non davano grande importanza alla possibile correlazione tra durata dei sintomi di aritmia e incidenza di eventi trombo-embolici, cosa che invece hanno fatto nella lettera cui accenavamo (1).
La medesima popolazione di pazienti del Fin CV Study è stata suddivisa in 3 gruppi: soggetti con durata dei sintomi inferiore a 12 ore, tra 12 e 24 ore e tra 24 e 48 ore. I risultati sono riassunti nella tabella seguente.
Secondo alcuni, in considerazione della più alta incidenza di eventi nei pazienti con sintomi insorti da più di 12 ore, questo studio dovrebbe portare a rivedere l’intervallo di sicurezza entro il quale eseguire la cardioversione in urgenza. E’ proprio vero? O esistono altre interpretazioni?
L’anti-coagulazione peri-procedurale
In primo luogo, dato che sono stati arruolati solo pazienti non sottoposti ad anti-coagulazione peri-procedurale, ciò che lo studio sembrerebbe effettivamente dimostrare è che in alcuni casi i trombi atriali si formerebbero già entro le prime 48 ore dall’insorgenza della fibrillazione atriale. Questa possibilità è già stata segnalata da altri: Kleemann e colleghi (3), nel 2009, segnalavano che un trombo era visualizzabile nel 4% dei pazienti con FANV di durata inferiore a 48 ore sottoposti a ecocardiografia trans-esofagea prima della cardioversione. Per altro, il ripristino del ritmo sinusale non garantisce l’immediata ripresa della regolare contrattilità del miocardio atriale in tutti i pazienti (4): ciò si traduce, dal punto di vista clinico, nella possibilità che gli venti tromboembolici si verifichino fino ad alcuni giorni di distanza dalla procedura (5).
Ipoteticamente, la somministrazione di anti-coagulanti potrebbe prevenire la formazione di nuovi trombi, prevendo il verificarsi di nuovi eventi trombo-embolici. Per questo motivo, le linee guida più recenti ne promuovono l’impiego nella FANV sulla base della stratificazione del rischio trombo-embolico effettuata già al momento della cardioversione, per mezzo del CHA2DS2-Vasc score. Per i pazienti ad alto rischio (≥ 1 punti per le linee guida ESC (6), ≥ 2 punti per quelle AHA(7)), si raccomanda la somministrazione di anti-coagulanti in sede peri-procedurale con successivo avvio di trattamento a lungo termine.
Nonostante queste raccomandazioni, al momento l’impiego dell’anti-coagulazione peri-procedurale è attuato in una percentuale variabile di pazienti che oscilla tra il 13% in Canada al 49% in Gran Bretagna (8), sebbene probabilmente la proporzione di pazienti potenzialmente eleggibili sia più alta, pari a circa il 50% nel FinCV Study.
Outcome a 30 giorni: quale significato?
Un secondo aspetto dubbio di questo studio è la durata del follow up, pari a 30 giorni. Tale decisione potrebbe aver determinato una sovrastima degli eventi embolici: infatti, dato che la maggior parte degli eventi si verifica entro i primi 10 giorni (il 98% secondo (5)), parte degli eventi che hanno avuto luogo dopo potrebbero essere dovuti a successive recidive di aritmia insorte nei giorni seguenti.
Conclusione
In sintesi, i risultati di questo lavoro sembrerebbero costituire un’evidenza a sostegno dell’anti-coagulazione periprocedurale piuttosto che ragione per rivedere il classico limite delle 48 ore. Per questo, mi sento di dire che spenderemo ancora un bel po’ di tempo a capire quando il cuore ha iniziato a “battere strano”…
Bibliografia
1. Nuotio I, Hartikainen JEK, Gronberg T, Biancari F, Airaksinen KEJ. Time to cardioversion for acute atrial fibrillation and thromboembolic complications. JAMA 2014; 312: 647-649. Link
2. Airaksinen KEJ, Gronberg T, Nuotio I, Nikkinen M, Ylitalo A, Biancari F, Hartikainen JEK. Thromboembolic complications after cardioversion of acute atrial fibrillation. The FinCV (Finnish Cardio Version) Study. J Am Coll Cardiol 2013; 62: 1187-1192. Link
3. Kleemann T, Becker T, Strauss M, Schneider S, Seidl K. Prevalence of left atrial thrombus and dense spontaneous echo contrast in patients with short-term atrial fibrillation < 48 hours undergoing cardioversion: value of transesophageal echocardiography to guide cardioversion. J Am Soc Echocardiography 2009; 22: 1403-1408. Link
4. Grimm RA, Stewart WJ, Maloney JD, Cohen GI, Pearce GL, Salcedo EE, Klein AL. Impact of electrical cardioversion for atrial fibrillation on leftatrial appendage function and spontaneous echo contrast: characterizationby simultaneous transesophageal echocardiography. J Am Coll Cardiol 1993; 22: 1359-1366. Link
5. Berger M, Schweitzer P. Timing of thromboembolic events after electrical cardioversion of atrial fibrillation or flutter: a retrospective analysis. Am J Cardiol 1998; 82: 1545-1547. Link
6. Camm EJ, Kirchhof P, Lip GYH et al. for the Task Force for the management of atrial fibrillation of the European Society of Cardiology. Guidelines for the management of atrial fibrillation. Europace 2010; 12: 1360-1420. Link
7. January CT, Wann LS, Alpert JS et al. 2014 AHA/ACC/HRS Guidelines for the management of patients with atrial fibrillation: a report of the American College of Cardiology/American Heart Association Task Force on Practice Guidelines and the Heart Rhythm Society. Circulation 2014; published online March 28. Link
8. Rogenstein C, Kelly A-M, Mason S, Schneider S, Lang E, Clement CM, Stiell IG. An Internationl view of how recent-onset atrial fibrillation is treated in the Emergency Department. Acad emerg Med 2012; 19: 1255-1260. Link
Paolo, post veramente interessante su un argomento molto dibattuto, almeno nella mia esperienza. Mi riferisco non tanto alla tempistica delle 48 ore, che al momento rimane il cut-off da seguire, quanto alla anticoagulazione peri-procedurale.
Anche dopo la tua disamina alcuni dubbi mi rimangono.
Rileggendo le linee guida più recenti si nota che l’anticoagulazione con eparina ev o a basso peso viene indicata qualora si proceda a una cardioversione elettrica o farmacologica in pazienti con una fibrillazione atriale o un flutter insorto da meno di 48 ore in presenza di un elevato profilo di rischio cardioembolico.
A questo riguardo è bene precisare che, sebbene l’indicazione sia di tipo IA il livello di evidenza è C, non essendoci al momento studi randomizzati che supportino questo tipo di azione profilattica.
Ancora più difficile è sapere cosa fare dopo. E’ necessario proseguire l’anticoagulazione embricando EBPM e warfarin sino al raggiungimento dell’INR terapeutico o è sufficiente somministrare solo quest’ultimo? Non mi pare che le linee guida diano informazioni chiare al riguardo. Forse non inutile ricordare che a differenza del warfarin l’associazione EBPM nuovi anticoagulanti andrebbe sempre evitata in quanto incrementa di molto il rischio emorragico.
Ciao Carlo.
concordo con te che effettivamente le evidenze sulla materia sono scarse, sia nella letteratura cardiologica che in quella dell’emergenza-urgenza.
In quest’ultimo ambito segnalerei due lavori:
– Stiell 2010: 660 pazienti, non anti-coagulazione peri-procedurale,nessuno stroke a 7 giorni dalla cardioversione in PS. Non è chiaro il profilo di rischio embolico dei pazienti; il 30% dei quali, per altro, erano già in TAO. http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/20522282
– Schuermeyer 2010: 400 pazienti, anti-coagulazione peri-procedurale nel 6% dei casi circa, nessuno stroke a 30 giorni. Pazienti con basso rischio embolico (solo il 2% aveva CHADS2 >1), giovani. http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/20370780
Esistono altri studi sull’argomento, ma non segnalano se e a quanti pazienti sia stata somministrata anti-coagulazione periprocedurale.
Il dubbio è che, data l’entità del rischio di stroke, entrambe il lavori non abbiano una potenza sufficiente per rilevare l’evento stroke.
E’ possibile che dovremo accontentarci: un trial randomizzato è poco appetibile in questo ambito sia perchè si parla di rischi di partenza bassi (0,7-1%), cosa che imporrebbe l’arruolamento di un elevato numero di pazienti, sia perchè l’esistenza di evidenze a supporto dell’anti-coagulazione a lungo termine per i pazienti ad alto rischio di stroke potrebbe far nascere dubbi di natura etica.
Per quanto riguarda l’eventuale embricazione tra eparina e COUMADIN, non so di dati certi. Certo è che, se si opta per quest’ultimo farmaco, la mancata embricazione rischia di lasciare “scoperto” il paziente nei primi giorni, nei quali si verifica circa il 98% degli eventi embolici (anche in virtù dello “stordimento” atriale).
In periferia dove lavoro io senza cardiologo nel pomeriggio, notte e festivi, spesso devo decidere una cardioversione farmacologica. Fatta l’anamnesi più attenta possibile, dopo aver atteso un pò di ore perchè spesso rientrano spontaneamente, faccio la cardioversione farmacologica, e devo dire quasi sempre con anticoagulazione periprocedurale, forse anche quando lo score non me lo imporrebbe…
Come tutte le decisioni in Medicina, anche quella dell’anti-coagulazione procedurale dovrebbe essere presa alla luce del rapporto rischi/benefici. Essenzialmente il problema si pone per i pazienti con CHA2DS2-Vasc di 0 o 1, a basso rischio di complicanze trombo-emboliche; è difficile consigliarti, in assenza di chiare evidenze. Molto probabilmente, l’approccio più corretto è quello di operare una stratificazione del rischio emorragico, individuando potenziali dati anamnestici (pregressi episodi emorragici, terapie concomitanti, etc.) e obiettivi che pongono il paziente a maggior rischio di sanguinamento e riservando l’eparina solo a coloro in cui questi risultino assenti.