Gianni
Gianni ha 84 anni, il corpo segnato da una malattia devastante chiamata Parkinson ed la mente colpita da una patologia altrettanto deturpante chiamata Demenza.
Francesca, l’infermiera che lavora con me oggi, mi chiede di concedergli l’attenzione, la premura e le cure anticipate che la vita nell’ultimo periodo gli aveva negato.
Lo conosco così. In anticipo rispetto all’ordine ed alla lista d’attesa del Pronto. In ritardo rispetto alla sua traiettoria di vita e di malattia che lo ha condotto davanti a me.

45 chili di sole speranze disilluse, senza più massa muscolare, braccia e gambe rigide anchilosate in una posa scomoda per visitarlo, per vivere e per morire. Gianni è così: sguardo vuoto, corpo stremato, cute marezzata a raccontarmi e suggerirmi un percorso di cure già stabilite.

Uno sfigmamometro che non riesce a identificare un valore di pressione ed un ega con un severa acidosi metabolica non aggiungono nulla di più rispetto alla impressione ed alla certezza clinica iniziale.
Provo a farmi raccontare Gianni da qualcuno che conosca davvero l’uomo dietro al corpo. La figlia mi racconta una voglia di vivere ed un entusiasmo estremo, stroncati qualche anno o forse decennio prima dalla malattia neurologica che ha portato via il papà e ha fatto rimanere solo un corpo ingabbiato nelle mure della sua camera da letto o in quelle senza vita di una grigia camera di ospedale.

Negli ultimi 5 giorni Gianni non riusciva o non voleva più mangiare e bere. Difficile capirne davvero il motivo: la malattia che progrediva, la vita che lo abbandonava, la morte che sopraggiungeva o un ultimo atto di una volontà che forse ancora freme sotto la cenere di una malattia che ha incendiato tutto?
Sicuramente futile scoprirne il motivo, ovvie le conseguenze: Insufficienza Renale Acuta anurica. Un valore di 10 di creatinina certifica una risposta che non aveva bisogno probabilmente di essere oggettivata. Il tampone antigenico per la ricerca del SARS-CoV2 eseguito all’inizio della visita sentenzia che Gianni aspetterà la morte nella zona covid del mio dipartimento di emergenza. Solo, con la sola compagnia della morfina ad allungare il suo tempo di vita o di morte ma a lenire le sue sofferenza di un corpo, ormai piagato nel fisico e nella mente.

La figlia piange il fine vita di un corpo morto già qualche anno prima, la moglie anche. Piangono la solitudine soprattutto o forse meglio l’abbandono, perchè Gianni muore “spaiato”, nonostante l’amore di una famiglia presente e vicina. Si rimproverano quella chiamata del 112, sempre frutto di compassione ma che non sarà mai rimpianta abbastanza. Si chiedono il motivo della sua esecuzione. La ragione del trasporto. La spiegazione, inesistente, di anni di sofferenza per poi “chiuderla” cosi. Ed io mi chiedo il motivo per cui la medicina negli ultimi trenta anni ha fatto scoperte mirabili ed incredibili ma non riusciamo più a far morire le persone a casa piuttosto che su una barella di pronto soccorso. Perchè abbiamo ospedalizzato la vita e pure la morte. Perchè curiamo la vita ma mai la morte?

Bruno
Bruno di anni ne ha 88. E’ stato dimesso dal pronto soccorso un giovedì’ pomeriggio alle ore 16 per una tachicardia sopraventricolare che gli amici più intimi chiamano flutter atriale a rapida penetranza. O almeno così è scritto sui fogli del verbale che leggo alle ore 23.00 dello stesso giorno, quando Bruno torna sulla stessa barella che aveva liberato o di cui si era liberato sette ore prima. Forse nessuno aveva sfogliato quelle carte o spiegato a lui o ai familiari cosa significava quella aritmia e la possibilità che il suo cuore corresse ogni tanto più velocemente.

Penso non sia stato spiegato a Bruno, perchè la sua demenza, quasi parafisiologica a 88 anni, gli impedisce di cogliere argomenti diversi rispetto ai suoi ricordi giovanili della guerra ed alla sua famiglia, che riconosce ancora e con cui, con serenità e serietà, trascorre gli anni, o meglio i mesi o forse i giorni rimasti, come regali e non come dovuti.
Immagino che, indubbiamente, non sia stato spiegato al figlio o alla nipote, i mandanti ed esecutori della richiesta di aiuto al 112. Anche perchè di solito i dottori hanno questo pessimo vizio: non parlano con i pazienti e parlano ancora meno con i caregiver. Convinti che una frase scritta in grassetto nascosta su un verbale di pronto soccorso possa cambiare il mondo.

Quando chiedo a Bruno cosa prova, mi risponde candidamente: “niente”. Ed io, che inizialmente penso ad un atto di estrema apatia ed intensa anedonia, mi ricredo facilmente: in realtà è solo la reale assenza di qualsiasi tipo di disturbo soggettivo. Il cuore di Bruno segue un suo ritmo che non disturba né il suo corpo né la sua mente.
Ma io, pensando di fargli un favore, decido di sfruttare quelle ore notturne per regalare al suo cuore, benché non stia soffrendo, il tempo e la voglia di provare ad apprezzare la lentezza.

Bruno non mi da tuttavia abbastanza tempo o forse ne ho chiesto troppo. Alle ore 2.00 di notte, i cavi di un monitor che dovrebbero leggere il suo cuore si trasformano in catene e la controfigura del Bruno che avevo conosciuto mi accusa di averlo rapito. Che il suo vicino di lettiga lo spia. Mi chiede di voler cambiare stanza e mi avvisa dell’arrivo imminente di un’ambulanza guidata dal figlio per spostarlo in una camera più comoda. O che in alternativa preferisce morire.
Nonostante la lucidità della ultima affermazione, Bruno delira, e basta la saggezza di un figlio o di un padre o di un fratello per capirlo e non certo la conoscenza approfondita del DSM-V, che lo etichetta uguale ma in latino: Delirium. Beffardo e sardonico, apprezzo l’amara e sarcastica verità: Bruno arrivato in ospedale in pieno benessere si è ammalato di ospedale.

Siamo convinti, noi ed i nostri pazienti, che l’ospedale cura. Si forse nelle le prime tre ore, Poi più o meno lentamente ammala.

E nel caso di Bruno, l’unica possibilità sono pensieri e percorsi alternativi. Pensare in modo laterale ma razionale: toglierlo dal posto che lo ha ed in cui si è ammalato.
Alle tre di notte ho la vergogna o forse la sfacciataggine o probabilmente l’ardore di telefonare alla nipote di Bruno. Alle quattro del mattino il figlio giunge in pronto soccorso, dopo una sveglia di soprassalto, probabilmente due o tre santi sacramentalmente disonorati ed un viaggio di circa un’ora per coprire i 50 chilometri che lo separavano dall’ospedale e dal padre.

Ricordo ancora l’arrivo in pronto: un figlio, un padre, un uomo che dopo qualche ora doveva iniziare l’ennesimo giorno di lavoro che dissimulava in maniera estremamente convincente un misto di ira, scetticismo ed incredulità.
Ricordo il colloquio, uno dei più gratificanti della mia vita: onesto, piuttosto lungo, rude ma intenso. In poche parole vero. Tre quarti d’ora a spiegare che il papà era “impazzito”. Che farneticava per colpa dell’ospedale senza che i sanitari ne avessero. Per provare a guarirlo e farlo rinsavire era fondamentale “toglierlo” dall’ospedale. Senza tuttavia avere la certezza che “ritornasse normale“. In tutto questo tralasciando la questione dell’accesso in dea che, nonostante tutto e nonostante le intenzioni, non era stata minimamente risolta.

Un discorso che sfiorava il paradosso: uscire dall’ospedale per non morire. Forse. Ricordo la serietà del figlio. La disponibilità nell’ascoltare parole dense di un significato che anche io, effettivamente, avevo difficoltà oggettive a cogliere in piena notte. La fiducia nel lasciarmi raccontare. La richiesta di ulteriori spiegazioni, senza che avessi mai la sensazione che fossero obiezioni ma piuttosto delucidazioni. E poi la fiducia, verosimile anche in assenza di convinzione, di accompagnare a casa alle ore 5.00 un papà arrivato in ospedale con il cuore fuori ritmo ed uscito con un cervello fuori fase che gli raccontava la storia di un incredibile rapimento e chiedeva al figlio dove avesse parcheggiato l’ambulanza.

Due giorni dopo, per caso

Due gg dopo per caso incontro lo stesso figlio che il destino ha voluto abitante del mio stesso sperduto paesino nella provincia di Torino. Vestito da ciclista, autore di una incredibile frenata con successiva derapata nella piazza principale del centro, mi punta e si ferma dinanzi a me. Lo riconosco solo dopo che si toglie gli occhiali da sole da sportivo professionista. Temo il peggio: una scenata preludio di una denuncia. “Peccato”, penso, “mi piaceva ancora fare questo lavoro”.

In realtà sorride e mi abbraccia, che in tempo covid non so se consideralo un atto di amore o un atto terroristico. Mi racconta che il rapimento e riscatto del padre era andato a buon fine; il papà era a casa a raccontare storie di guerra ai nipoti che lo ascoltavano con sguardi ancora più affettuosi, senza che nessuno di loro avesse il coraggio di sentirgli il polso e calcolargli la frequenza del suo cuore.
Sorrido e tornando a casa penso a Gianni ed a Bruno e cosa mi hanno insegnato.

Penso tanto. Penso troppo. Penso che:
- la risposta ai bisogni di cure e di salute, soprattutto della componente più fragile della società, non può non essere una medicina territoriale che abbia l’obbligo di essere presente, coraggiosa, disponibile, responsabile; che sia e che sappia distinguere l’utile ed il futile;
- in ospedale si muore, normale in un luogo dove la vita sfida la morte. Ma la normalità non deve sfociare in abitudine e routine: la morte in ospedale è spesso morte da soli, in luoghi aridi, scomodi, senza musica, senza luce, senza calore, senza intimità, senza dignità, senza affetto, senza ricordi;
- in ospedale non deve morire chi può e deve morire a casa. Fra le aberrazioni della medicina degli ultimi 50 anni vi è la scomparsa della cultura della morte come evento ineluttabile da abbracciare ed aspettare nel proprio letto, nella propria casa, con la propria famiglia, con l’intimità, la luce, il calore, la dignità, i ricordi ed eventualmente per chi vuole con la musica;
- l’ospedale fa schifo e fa male. Davvero. Tutti i pazienti, in qualche modo e a loro modo, si ammalano di ospedale. Alcuni hanno la fortuna, la possibilità ed il diritto di guarire di questo male; bisogna avere il coraggio di sentirne anche il dovere;
- bisogna saper trovare il tempo e le parole per poter spiegare e far intendere il perchè l’ospedale non è un luogo di cura per tutti; avere la voglia di rendere comprensiibili il razionale di alcune scelte;
- la rete familiare è davvero la pietra miliare di una società che è cambiata senza aver gli strumenti assistenziali per permettercelo. Una società che rimane ancora patriarcale nonostante voglia essere fluid. Se Bruno non avesse avuto il coraggio di un figlio a difenderlo, sono sicuro che adesso si starebbe spegnendo in qualche anonima RSA, con il corpo ed il cervello corrotti da necessari farmaci antipsicotici ed intossicato dalla solitudine;
- l’anamnesi e la rete sociale per la cura di quella persona sono fondamentali al pari dell’anamnesi patologia prossima e remota. Indispensabili per conoscere quel paziente ma anche per impostare una corretta strategia di cura. Ed inizio a pensare che sia giusto che anche questi dati abbiano un peso nella scelta di quale setting e quale intensità di cure riservare a quella persona;
- bisogna avere il coraggio di scelte giuste ma non facili. Scelte che non sono, o sono per una minima quota, cliniche ma piuttosto umane e di buon senso. Che queste scelte non sono solo del medico ma soprattutto dei sanitari e dei familiari, condivisione base per un qualsiasi progetto umano e giusto. Che bisogna aver il coraggio di scelte azzardate ma sincere, corrette ma non scontate. Bisogna avere il carisma, la forza ma soprattutto la statura intellettuale, morale ed etica per applicare tale scelte e la voglia di trasmettere ed infondere quel coraggio. Coraggio che poi si chiama amore;
- esiste ancora una medicina che può essere fatta di buoni sentimenti, di disinteresse, di dedizione e di affetto verso non una paziente ma verso quella persona e la sua famiglia;
- perchè la medicina cosa è se non una forma, imperfetta, difettosa ed incompiuta, di amore puro e disinteressato?

Bibliografia
- Sbrojavacca Rodolfo. “Quando il rimedio è peggiore del male”. Presentazione orale al XI congresso Nazionale Simeu. Roma 24-26 Maggio 2018.
Bellissimo resoconto e splendida analisi. Concordo in pieno. Difficile spesso però riuscire a far capire ai parenti questa realtà. Difficile anche spesso avere il tempo e le energie sufficienti per farlo soprattutto di notte.
Concordo sul fatto che sia difficile. Però difficile non è impossibile
Grazie Davide, riesci sempre ad affrontare il problema ospedale territorio in modo molto provocante. Purtroppo se tu vedi tutti i limiti dell’ospedale io vedo tutti i limiti dell’assistenza territoriale ( in particolare io sono in assistenza domiciliare). Siamo sufficientemente preparati? Abbiamo gli strumenti adatti? Siamo disposti a rinunciare al confortante invio allo specialista dell’urgenza e non solo? Siamo capaci di parlare di morte? A parte studiare-studiare-studiare, attrezzarci di strumenti sempre più portable, e continuare a confrontarci con i parenti, al momento per noi non vedo altre soluzioni.
Io penso che lo studiare-studiare-studiare, attrezzarci di strumenti sempre più portable, e continuare a confrontarci con i parenti, siano le soluzioni migliori attuabili
Tema fondamentale che nel tempo diventerà sempre più impattante. La società italiana è demograficamente vecchia e sebbene la rete familiare sia ancora forte tende sempre più a vanificarsi. Rifiutiamo la sofferenza e soprattutto la morte. Specie nelle grandi città la morte in casa, anche di ultranovantenni, è un evento più unico che raro.
Purtroppo pur volendo non possiamo essere noi sanitari a invertire da soli la rotta..
Nella mia esperienza alcune volte son riuscito a convincere i familiari che l’ospedale non era il luogo migliore dove far peggiorare o morire in solitudine il proprio caro.. ma nella maggior parte dei casi sono rientrati in pronto soccorso poco tempo dopo. Un po’ per la mancanza di assistenza domiciliare, un po’ per la paura di vedere magari per la prima volta il respiro agonico.
Altro fattore in gioco è quello medico-legale: il tentativo di curare i grandi anziani a domicilio può scontrarsi poi con le richieste di risarcimento o denunce nel caso il decorso andasse male. Non sono rari casi di denunce per decessi di pazienti sopra i novantenni.. che magari avevano come unico desiderio quello di rimanere in famiglia e non morire in ospedale.
Dovremmo culturalmente demedicalizzare la morte.
Bellissima analisi. Nella mia esperienza di geriatra in PS appassionato di percorsi di cure la sfida può essere vinta (a volte) tramite un dialogo aperto e franco con i parenti per rendere più chiara possibile la situazione a loro, allo stesso tempo é necessario avere chiare le risorse presenti a domicilio e la forma mentis della rete familiare che dovrebbe riaccogliere il proprio caro. Purtroppo le risorse scarse date alla medicina territoriale rappresentano un limite non da poco. Da qualche anno nel nostro PS abbiamo attivato anche un ambulatorio di rivalutazione del paziente geriatrico post dimissione che cerca di facilitare la creazione di un percorso per questa tipologia di pazienti e non abbandonare la rete familiare.
Grazie Davide, bellissima testimonianza.
Concordo con le tue conclusioni, l’ospedale e tanto meno il PS non è un luogo adatto a un morente.
E trovo inaccettabile (oltre che incomprensibile) che nel 2022, ancora in molti ospedali, un tampone Covid possa far rischiare a un paziente una morte senza familiari presenti.