Cos’è il burn out?
Ne abbiamo già parlato su empills in una delle puntate del viaggio alla scoperta del lato oscuro della medicina d’emergenza, e di tutti gli aspetti oscuri il burn out è il più oscuro di tutti perché porta all’abbandono. Alla perdita della speranza. Alla rinuncia.
Fermi tutti.
Abbandono, perdita, rinuncia: sono indubbiamente termini molto forti, ma che sottendono tutti la stessa, medesima cosa.
Il medico non ce l’ha fatta. Ha abbandonato la lotta.
Non era abbastanza forte. Non era sufficientemente resiliente.
Era un debole, e forse dovrebbe essere destinato ad un lavoro più adatto a lui, più consono alle sue debolezze.
Non lo avevo mai realizzato con chiarezza, ma il punto focale che continuava a disturbarmi è proprio questo: e non l’ho compreso fino alla visione dell’illuminante video di Zubin Damania, geniale medico statunitense diventato famoso come ZDoggMD, grazie a video e a canzoni parodistiche (o drammaticamente serie, come alcune dedicate al fine vita), e in grado di produrre sferzanti video polemici mascherato da Darth Vader. In questo video ZDoggMD è serissimo, non indossa i panni di Doc Vader, e affronta la questione burn out: sostiene che non dovremmo più usare questo termine in quanto tende a colpevolizzare i medici quando in realtà sono vittime di un sistema che ci procura una “Moral Injury“, ossia un danno morale. Consiglio a tutti di guardare attentamente il video, in calce a questo post.
Un danno morale?
Cosa significa?
Il paragone, che Dean e Talbot formulano in un bell’articolo, è con il danno morale inflitto ai soldati: prendi un ragazzo normale, lo costringi ad uccidere e ad assistere a morte e violenza in un contesto straniante, e poi lo riporti nella sua vita, affermando che soffre di disturbi correlati allo stress: in realtà è stata la società a causargli un danno morale per averlo obbligato a compiere azioni che la sua morale gli avrebbe impedito di compiere.
In che modo i medici potrebbero soffrire di “moral injury”?
Perché siamo costretti a svolgere un lavoro che è diverso da quello che vorremmo fare, perché siamo costretti ad accettare continui compromessi, perché non abbiamo tutti gli strumenti e le possibilità per lavorare in autonomia.
Il medico sbotta di fronte all’ennesima giornata con dieci, quindici paziente “in boarding” da giorni in attesa di un posto letto che non arriva? non è burn out, ma “moral injury” perché il sistema non è in grado di fornirgli i posti letto necessari per svolgere il suo lavoro.
Il professionista è in crisi per il paziente in fine vita che muore in pronto soccorso dietro un paravento? non è burn out, ma una vittima di “moral injury” perchè ha partecipato ad una azione non dignitosa per l’individuo.
Il medico chiede il trasferimento perché non tollera più di visitare 40 pazienti ogni notte? soprattutto perché la maggior parte sono prestazioni ambulatoriali non urgenti che gli succhiano tempo ed energie? il sistema gli offre un corso per superare il burn out, senza capire che quel medico è vittima di moral injury perché è costretto a svolgere un lavoro che non è il suo, essendo ben lontano dall’attività di emergenza-urgenza.
Tutti noi, ogni giorno, tolleriamo tutto questo, accettiamo standard lavorativi sempre più bassi, con risorse sempre più ridotte, e tutto questo è “moral injury”.
Lavoriamo in pronto soccorso sapendo che tutti, intorno a noi, lo considerano come una struttura indefinitamente e infinitamente espansibile.
Il curante non riesce ad organizzare una visita in tempi rapidi per un suo assistito? “Vada in pronto soccorso”. Lo specialista vuole ricoverare un paziente ma non ha posto? “Vada in pronto soccorso”. E così via, in un sistema così perverso che ormai i pazienti saltano tutte le tappe e spesso raggiungono direttamente noi.
Ebbene, se il sistema non ci protegge e accetta tutto questo, ci causa un danno morale.
Se non è dignitoso che un reparto di medicina debba avere i pazienti ammassati nel corridoio sulle barelle, perché dovrebbe essere accettato dai medici di pronto soccorso? E’ quello che ci viene chiesto di fare, ogni giorno.
E cosa accadrebbe se le sale operatorie venissero assaltate dai pazienti inviati da ogni specialista, da ogni medico di medicina generale, senza una organizzazione del flusso di lavoro? sarebbe il caos, e ci sarebbero rischi enormi per i pazienti.
E’ un esempio paradossale, ma non tanto lontano da quello che osserviamo ogni giorno: il sistema accetta che i pronto soccorso, luoghi deputati alla gestione dell’emergenza e dell’urgenza, siano perennemente e cronicamente sovraffollati da patologie non urgenti e perennemente e cronicamente intasati per la carenza di posti letto.
Con quale rischio per i pazienti? e con quale rischio per gli operatori?
Questo è il problema dei problemi, quello responsabile della “moral injury” più grave e che viene scambiata con troppa leggerezza per burn out…
Davvero, questo non è burn out: se potessimo occuparci solo di emergenza-urgenza, quasi nessuno abbandonerebbe il pronto soccorso, e su questo punto Zubin Damania (aka ZDoggMD) ha ragione da vendere a chiedere di non parlare più di burn out.
Come ha detto Muhammad Alì
“Spesso non è la montagna avanti a te che ti consuma. E’ il sassolino nella scarpa.”
Per noi, che abbiamo scelto la strada dell’emergenza, non sono i pazienti critici a spaventarci, ma la marea di codici bianchi e verdi che attraversano il nostro cammino. Nessun corso, nessun supporto, nessun intervento su di noi risolverà il problema del pronto soccorso se il pronto soccorso dovrà sopperire a tutte le carenze del sistema sanitario. E se non correremo ai ripari, il sistema crollerà e l’unico a rimetterci davvero sarà il paziente.
E se ci dicono che è impossibile cambiare le cose, ricordiamoci quello che uno dei più grandi combattenti della storia, il già citato Muhammad Alì, diceva a proposito:
“Impossibile è solo una parola pronunciata da piccoli uomini che trovano più facile vivere nel mondo che gli è stato dato, piuttosto che cercare di cambiarlo. Impossibile non è un dato di fatto, è un’opinione. Impossibile non è una regola, è una sfida. Impossibile non è uguale per tutti. Impossibile non è per sempre. Niente è impossibile”
Letto tutto d’un fiato…
Bellissimo. Mi ci voleva, un toccasana
http://www.artspecialday.com/9art/2017/07/19/street-art-falcone-borsellino-palermo/
Anni addietro ad un congresso nazionale ho presentato una relazione sul BURNOUT e ho concluso con l’immagine di questo famoso murales che ritrae i giudici Falcone e Borsellino. Ho commentato dicendo “le istituzioni spesso fanno questo: prima ti lasciano solo a morire, poi ti fanno un bel murales per lavarsi la coscienza”!
Il tuo post è in linea con il mio pensiero
Grazie Mauro, per questa preziosa integrazione! Dobbiamo difendere questo lavoro, per noi ma soprattutto per i pazienti, che devono avere medici esperti e motivati, non professionisti scoppiati che non vedono l’ora di andarsene.
Bene. Cambiamo la terminologia e quindi aumentiamo la consapevolezza. Il che serve senza dubbio ad alimentare la nostra felicità (come la intende Aristotele nella Sua Etica nicomachea). Ma quali gli strumenti per cambiare le cose in modo strutturale tanto da rendere il PS il luogo che sogniamo e non quello da cui fuggire? Grazie
“Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia”: ad Aristotele rispondo con il mio amato Shakespeare, per dire che non ho una risposta a questa domanda. Senza dubbio, una consapevolezza del problema può portare ad una maggiore capacità di opporsi alle realtà malsane che subiamo. Faccio un esempio: nel mio pronto soccorso e medicina d’emergenza ci siamo sempre rifiutati di accettare la logica delle barelle; allo stesso tempo, abbiamo ottenuto un documento della Direzione Sanitaria che obbliga gli specialisti a gestire i ricoveri degli ambulatori (se i pazienti sono stabili) senza passare per il pronto soccorso per ottenere un pezzo di carta, che in realtà è un documento che attesta la nostra responsabilità sul ricovero (per intenderci, una mia collega di un altro ospedale è stata trascinata in un processo penale per un paziente che neppure aveva visitato, ma di cui aveva firmato il verbale di accettazione ricovero). Certo, devi avere un Direttore “alleato”, una Direzione sensata e collaborativa, ma è possibile, e sarà possibile se tutti inizieremo a comportarci allo stesso modo. Senza dubbio, iniziare con il rifiuto a farci “etichettare” come vittime del burn out può essere un piccolo, ma importante, passo in avanti. Il resto, ovviamente, non dipenderà solo da noi…
I parenti dei pazienti sono Moral Injury.
A volte… A volte neppure si limitano al danno morale. Ma questo è un altro problema, oppure è un epifenomeno del problema di fondo, ossia il sistema perverso che si è creato e che dobbiamo risolvere
Grazie, Alessandro, grazie davvero.
Un attimo di consolazione ci voleva proprio. Giusto un attimo, però.
Il tempo di leggere, riflettere e… riprendere il lavoro.
Si scopre, finalmente e detto da medici che, tra l’altro, operano in un contesto quasi esclusivamente privatistico, che è il “sistema” (entità onnicomprensiva come da te descritta) a stritolarci l’anima.
Che non è il nostro organismo ad ammalarsi per debolezze intrinseche allo stesso. La causa è fuori di noi. L’inquinamento è strutturale e tale da rendere (quasi) vano ogni tentativo di sottrarci alle manifestazioni principali della patologia che induce. Esasperazione, disperazione, tentativi di fuga… depressione etc. etc. La diagnosi parrebbe quindi fatta. Sono stati delineati i connotati di una nuova sindrome: la “Moral injury”. Le vittime sono ineluttabilmente ed esclusivamente i medici di pronto soccorso. Saremmo a buon punto se… se solo ci fosse uno straccio di cura. Ma, forse anch’io ormai contagiato e malato, penso che la cura non ci sia. Che la patologia sia altamente maligna e inesorabile. Come per il paziente del tragicomico Dottor Galvan. Una teoria infinita di scatole cinesi. Di ipotesi su ipotesi. Ognuna delle quali porta un pezzo del granitico quanto inesorabile “sistema”. Hai una risposta, una cura. Risolvi un problema, immediatamente se ne presenta un altro che provi nuovamente a risolvere. A curare. E così via. Sino all’estremo tentativo di fuga (appunto) da un ambiente così tossico. Ormai, comunque, da malato. Ne provi, di volta in volta, uno qualunque. Non una fuga fisica. Possono essere estraniazione, rinuncia alla lotta, sublimazione. A volte complicità (?). Rafforzamento dell’interesse… L’affascinante, ma ancora poco definita (i.m.h.o.), resilienza.
Infine, e forse, unica vera via di fuga totale, la “quiescenza”.
In ogni caso: ” il canarino della miniera di carbone” (cit.), no. Non deve mai accadere.
(Leggevo, sui quotidiani di ieri, che in una delle nostre 20 regioni – costituenti il nostro “sistema” statuale – contagiata anch’essa da ben altra, ma altrettanto grave patologia, pare sia in organico, in una unità operativa ospedaliera di pediatria, un illustrissimo et esimio professor-one.
Un Geriatra.)
No, il canarino no… Forse lo siamo? Possiamo fare qualcosa, però, ossia cercare di non accettare tutte le scorrettezze che ci circondano, allearci con i pazienti onesti, parlare con i furbetti… Non so, non credo esista una soluzione. Vero è che il momento è critico per molti problemi, ma credo sia ancora possibile uscirne. Grazie per il commento!
Grazie Alessandro uno dei più bei post pubblicati su EmPills!
La lettura mi ha dato speranze e consapevolezza della nostra quotidiana attività lavorativa, siamo dei lavoratori speciali, resilenti nonostante il “danno morale” cerca di abbatterci… spero che questo post venga letto anche da chi dovrebbe burocraticamente tutelare il nostro lavoro la nostra missione perchè noi non molliamo continuiamo a risollevarci sempre a testa alta ….
Grazie a te per questo commento e per l’entusiasmo che trasmetti!
Bel post!
Quello che percepisco del mio vissuto lavorativo è che la nostra attività in buona parte supplisce alla richiesta sanitaria di una popolazione che non trova risposte altrove. La richiesta sanitaria può essere opportuna o meno, ma l’utenza chiede quello. A me, in Pronto Soccorso, sembra di fare una medicina di base avanzata.
Quello che non percepiamo, della medicina di base, è lo stesso stipendio, a fronte di responsabilità dirette e turni che, fatica, stress, moral injury e burnout a parte, rendono socialmente poco praticabile la vita extralavorativa e sociale. E questo secondo me ci moralìngiura parecchio.
Altra causa di moral injury potrebbe essere il fatto che le nostre possibilità di rivalsa “sindacale” siano pressoché nulle? Non possiamo scioperare o rallentare il lavoro e nemmeno ricoverare ad oltranza per protesta.
C’è un disagio enorme tra noi medici di urgenza, che stride con le nostre enormi abilità e capacità professionali.
Stiamo a darci pacche sulle spalle e a dirci sempre che siamo bravi, belli, buoni, intelligenti, eroici e coraggiosi. Ma non sarebbe il caso di tirare due pugni sulla tavola e dire una buona volta che siamo anche stanchi?
Che ne pensate?
Moralingiurare mi piace tantissimo! E si, hai ragione, a furia di darci le pacche sulle spalle, non ci rendiamo conto che tutti gli altri hanno fatto venti passi indietro e siamo da soli con il cerino acceso! Non sono così convinto che non abbiamo potere contrattuale… Se è vero che non possiamo astenerci dall’emergenza urgenza (ma chi di noi vorrebbe farlo?), è altrettanto vero che potremmo decidere di applicare un rigido protocollo di triage, con i verdi ed i bianchi ad attendere l’esaurimento dei rossi e dei gialli… Potremmo decidere di non svolgere tutte le mansioni che esulano dal nostro mandato istituzionale… Se fosse così ovunque, cosa potrebbe accadere?