È curioso come l’embolia polmonare richiami un’attenzione così forte nell’ambito della medicina. Penso questo dipenda in buona parte dal fatto che è una patologia sfuggente e temuta. Da un punto di vista strettamente personale trovo affascinante il processo di astrazione che l’inquadramento diagnostico inevitabilmente richiede. In effetti, nella maggior parte dei casi, la scarsa specificità del quadro clinico, comporta la necessità di considerare compositamente molti elementi indiziari, al fine di fare una stima della probabilità clinica. Un tale percorso intellettuale implica, per ogni medico, una sfida che attinge all’essenza del suo ruolo e alla padronanza delle proprie nozioni. In tutto questo processo di ponderazione razionale capita, quasi invariabilmente, di dimenticare che l’embolia polmonare è una complicanza della trombosi venosa profonda. Tuttavia anche questa puntualizzazione è approssimativa.
Infatti, correttamente, si dovrebbe fare riferimento a queste due entità non separatamente, ma come ad un unico problema: la tromboembolia.
Ebbene, questo non è solo un cavillo di definizione accademica, ma il nocciolo del problema. Ciò che dovrebbe, in effetti, preoccupare è il contesto fisiopatologico che determina questa malattia, favorendo in primis, l’insorgenza della trombosi venosa e, conseguentemente, creando la possibilità dell’embolizzazione polmonare. Un insieme di situazioni diverse concorrono alla formazione delle trombosi venose. Già Virchow aveva indicato nella triade di stasi, ipercoagulabilità e danno endoteliale, il milieu che favorisce il processo trombotico. Quest’osservazione è brillante ed esemplificativa del problema. Tuttavia le condizioni biologiche che concorrono a questa triade sono molteplici e, soprattutto, non sempre suscettibili di modifica, tant’è che questa patologia è spesso a rischio di ricorrenza.
È stato pubblicato, ancora ad agosto di quest’anno, uno studio che sta suscitando un acceso dibattitto nella comunità dell’emergenza. Il titolo dello studio è di per sé chiarificatore sull’argomento studiato: Risk profile and clinical outcome of symptomatic subsegmental acute pulmonary embolism.
Abbiamo affrontato in altre occasioni il dibattito sulla rilevanza delle embolie subsegmentarie. Io ho sviluppato un’opinione piuttosto netta su quest’argomento e devo farmene carico anche quando l’evidenza apparentemente va contro le mie convinzioni.
È uno studio rilevante per un motivo principalmente: non è ancora sufficientemente chiarito se l’embolizzazioni subsegmentarie siano gravate dagli stessi rischi di quelle più prossimali. Le embolie polmonari sono state sempre considerate, conservativamente, come un’unica malattia. La terapia anticoagulante è generalmente consigliata indipendentemente dalle dimensioni dell’embolo, sebbene anche nelle linea guida ESC ed in altre pubblicazioni si tenga presente che, probabilmente, le embolizzazioni segmentarie isolate, in assenza di trombosi venosa, potrebbero beneficiare solo di un follow-up stretto. Non abbiamo, in effetti, elementi inconfutabili per sostenere che si possa fare di tutte le embolie un unico calderone. I dati sino a poco tempo fa disponibili sembrano indicare che le embolie polmonari periferiche hanno un impatto irrilevante sull’outcome dei pazienti, tanto che non tutti concordano sulla necessità di trattarle.
Le evidenze a sostegno della benignità di questi riscontri sono prevalentemente di tipo indiretto:
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Lo studio pubblicato su Blood ad agosto è rilevante perché aggiunge un altro tassello d’informazioni lì dove l’incertezza lascia spazio a molte speculazioni, comprese le mie. Si tratta di un lavoro retrospettivo che ha analizzato una popolazione formata dall’unione di due coorti, analizzate in precedenti lavori, di pazienti valutati per sospetta embolia polmonare. Entrambi gli studi, rispettivamente il Christopher study ed il lavoro di Klok et al., sono pressoché identici per metodologia di selezione dei pazienti e questo avvalora la rivisitazione composita dei risultati. Accomunando i dati è emerso che nei pazienti con difetti subsegmentari, il rischio di ricorrenza tromboembolica è identico a quelli con embolie prossimali.
Vediamo i numeri dello studio:
– 3769 pazienti valutati per sospetta embolia polmonare (di cui 3306 consecutivi dal Cristopher study e 463 consecutivi dallo studio di Klok ed altri)
– 2688 sottoposti a CTPA (se embolia polmonare probabile secondo Wells e/o D-dimero positivo)
– 2980 pazienti in cui l’embolia polmonare è stata esclusa o per la negatività dell’angioTc o per la combinazione della bassa probabilità clinica e D-Dimero negativo.
– 789 Pazienti con embolia polmonare confermata alla CTPA (21%) di cui:
– 632 avevano una localizzazione segmentaria o più prossimale (EPP)
– 116 (15.5%) invece presentavano difetti subsegmentari (EPSS)
– 41 pazienti con diagnosi confermata sono stati esclusi poiché non era possibile ricostruire la localizzazione dell’embolizzazione (tutti appartenenti al Cristopher study).
Veniamo al sodo. Il risultato innovativo di questo studio è che il rischio di ricorrenza tromboembolica a tre mesi nei pazienti con EPP e EPSS è del tutto simile (2.5% vs 3.6%). In entrambi casi è significativamente più elevato rispetto a quelli in cui la CTPA è risultata negativa.
Non solo. Il rischio cumulativo di morte nei pazienti con EPSS è del 10.3%, ancora una volta simile a quelli con EPP (6.3%), e, significativamente più elevato, rispetto ai pazienti con CTPA negativa.
Questo nonostante tutti i pazienti siano stati sottoposti a terapia anticoagulante.
Gli autori pertanto concludono che le embolie polmonari subsegmentarie hanno lo stesso profilo di rischio clinico e di outcome di quelle prossimali.
Il follow-up dei pazienti è stato pressoché completo, quasi del 100%, e ciò rafforza i risultati dello studio. Non vi è, inoltre, differenza in gran parte delle caratteristiche di base dei pazienti (distribuzione tra sessi, durata dei sintomi, provenienza tra pazienti esterni e i ricoverati) che possano influire sui risultati.
Emerge il fatto che la prevalenza dei fattori di rischio tromboembolici tra i pazienti con EPP e EPSS sono del tutto simili. Rispetto ai pazienti in cui l’embolia polmonare è stata esclusa quelli con EPSS hanno un rischio decisamente più elevato. In particolare, con riferimento al rischio di morte, i pazienti con EPSS sono più frequentemente anziani e affetti da comorbidità (neoplasie, BPCO e scompenso cardiaco).
Gli autori affermano che i dati ottenuti mettono fortemente in dubbio l’ipotesi, emersa come prima rilevato da precedenti analisi, che le embolie polmonari subsegmentarie siano clinicamente insignificanti.
Questo lavoro riapre sicuramente il dibattito, mai peraltro cessato, sulla rilevanza dei difetti periferici e principalmente rende ancora più urgente la necessità di avere evidenze affidabili che chiariscano in modo appropriato i dubbi che rimangono aperti. Come gli stessi autori sottolineano, probabilmente, avremo una risposta conclusiva da uno lavoro prospettico che è attualmente in fase di svolgimento.
In attesa di un chiarimento penso sia necessario fare alcune considerazioni.
Come spiegavo in precedenza i risultati sono stati ottenuti dal riesame cumulativo delle popolazioni di due studi.
Il primo è il Cristopher study che, sebbene pubblicato ancora nel 2006, rappresenta ad oggi uno dei lavori più importanti sulla sicurezza dell’utilizzo di una strategia diagnostica differenziata fondata sulla valutazione della probabilità clinica secondo lo score di Wells. Il secondo è lo studio di Klok e altri. L’intento di quest’ultimo studio era di valutare il possibile ruolo prognostico di alcuni marker bioumorali e della dilatazione ventricolare destra, misurata durante l’esecuzione della CTPA. L’obiettivo principale era quello di capire il possibile ruolo predittivo per eventi avversi definiti come l’insieme di: morte, rianimazione cardiopolmonare dopo arresto, trasferimento presso l’unità di terapia intensiva, la necessità di ventilazione meccanica, l’uso d’inotropi o l’uso dei trombolitici.
Un po’ per disincanto e un po’ per scetticismo mi sono abituato a ripercorrere le cifre degli studi, particolarmente di quelli che accomunano coorti diverse, per capire se il contributo dei singoli studi è omogeneo.
Sebbene non abbia a disposizione i dati del lavoro di Klok è possibile stabilire il contributo dei singoli studi indirettamente, poiché i risultati del Christopher study erano già stati pubblicati in una precedente metanalisi.
Nel Christopher study sono state identificate 110 embolie subsegmentarie (98 per mezzo di multi-detector e 12 con metodica single detector). Di altri 41 pazienti, di questa coorte, non è stato possibile ricostruire dai dati di archivio la localizzazione dell’embolo e pertanto sono stati esclusi. Un tale difetto di completezza evidenzia la debolezza dello studio in termini di affidabilità nell’identificazione del livello del circolo polmonare coinvolto.
Possiamo pertanto facilmente calcolare che 110 pazienti su 116 di quelli presi in esame provengono dal Christopher study. La stragrande maggioranza. Questo evidenzia che le due coorti hanno caratteristiche differenti. Infatti, la proporzione di EPSS nel Cristopher study è del 17.4% mentre nello studio di Klok è solo del 5.2%. Tale differenza è rilevante ai fini della fondatezza delle osservazioni poiché indice di eterogeneità.
A questo bisogna aggiungere che nel Christopher study non è stato esplicitamente previsto, come nello studio di Klok, un metodo sistematico di localizzazione delle embolie polmonari. Pertanto considerando la variabilità con cui i radiologi identificano correttamente la sede delle embolizzazioni, è possibile che nel Christopher study vi sia una quota di erronea classificazione del livello, e questo potrebbe influenzare i risultati. è abbastanza acclarato, infatti, che l’interpretazione della CTPA da parte dei radiologi per questi difetti può essere erronea sia in eccesso che in difetto.
Dai dati pubblicati nello studio di Klok, dieci pazienti hanno sviluppato eventi avversi a seguito dell’embolia polmonare entro le prime sei settimane dalla diagnosi. Tutti e dieci presentavano un quadro di embolia polmonare submassiva alla presentazione come deducibile dall’impegno delle sezioni cardiache destre e dagli indicatori bioumorali elevati (Troponina, NT-pro-BNP)e, pertanto, non potevano presentare un quadro di embolizzazione subsegmentaria isolata. Stando a tale osservazione apparentemente nella coorte di Klok et al. le dimensioni dell’embolizzazione correlano con la prognosi. Tuttavia una volta accomunati i dati dei due studi questa correlazione sembra venire meno, il ché mi lascia perplesso.
Sfortunatamente dai dati pubblicati non è possibile comprendere il contributo delle singole coorti nel determinare l’outcome delle EPSS, ma ho il sospetto che il peso del Chirstopher study, in cui la localizzazione delle embolie è meno affidabile, sia preponderante.
Vorrei fare delle ulteriori considerazioni che sono state, in parte, riportate anche in altre sedi.
Questo studio ha considerato solo le embolie polmonari subsegmentarie sintomatiche. Di per sé la definizione è potenzialmente contradditoria, sebbene frequentemente utilizzata. S’intende essenzialmente che i difetti subsegmentari sono stati riscontrati non accidentalmente nel corso di indagini effettuate per altri fini, ma in pazienti con una sintomatologia suggestiva, in base al giudizio dei medici in carico dei pazienti, di una embolia polmonare. Rimango perplesso sul fatto che le EPSS possano causare sintomi, salvo che non si tratti di eventi simultanei multipli. In effetti, il riscontro di questi eventi periferici è frequente nelle serie autoptiche anche quando l’embolia polmonare non è implicata nel decesso dei pazienti. Peraltro emerge chiaramente il fatto che i pazienti con EPSS sono più frequentemente affetti da altre comorbidità come BPCO, insufficienza cardiaca, neoplasia. Esse possono, di per sé, giustificare la sintomatologia del paziente e indurre inappropriatamente l’attribuzione del sintomo a piccoli difetti embolici. Una volta operata la correzione per le covariate la hazard ratio per la mortalità dei pazienti con EPSS e pazienti in cui l’embolia polmonare è stata esclusa è sostanzialmente non significativa (1.4). Questo indica essenzialmente che i pazienti con EPSS muoiono delle loro comorbidità anziché come conseguenza della loro tromboembolia.
Non è stato peraltro valutato quanti dei pazienti con EPSS avessero una trombosi venosa al momento della diagnosi. Questo è un fatto da tenere in considerazione perché la ricorrenza degli eventi tromboembolici è strettamente correlata. La maggior parte degli studi che depongono per la benignità delle EPSS includevano una diagnostica di imaging per escludere la presenza delle trombosi venose.
Non sappiamo inoltre quanti di questi difetti periferici fossero isolati o multipli. Un difetto isolato, infatti, in assenza di trombosi venosa, è più probabilmente un riscontro innocuo. Contrariamente difetti multipli stanno ad indicare generalmente la frammentazione di un trombo più grande o molteplici eventi ravvicinati.
Rispetto ai dati precedenti, l’incidenza sia della mortalità che della ricorrenza tromboembolica, sono più basse di quelle solitamente riportate, rendendo la popolazione meno rappresentativa.
Non ultimo il campione è numericamente sottopotenziato per permettere di identificare piccole differenze di outcome.
Detto questo, non si può ignorare, che, pur con i limiti specificati, al momento è una delle evidenze migliori che abbiamo a disposizione, sebbene non rappresenti per i limiti dello studio una prova provata.
Quale lezione dobbiamo trarne?
Ritorniamo nuovamente al nocciolo del problema: il retroterra tromboembolico. Il riscontro delle embolie polmonari va correlato al rischio clinico. Questo studio ha innanzitutto il pregio di ricontestualizzare i riscontri alle condizioni del paziente. Quelli con EPSS hanno evidentemente una trombofilia di base che spesso non è modificabile (oncologici). Soprattutto sono più malati e per tale motivo hanno una mortalità più elevata, che non è correlata direttamente all’evento tromboembolico. Quest’ultimo è un indice dello stato clinico complessivo. A riprova di ciò gli eventi tromboembolici e la mortalità sono diversi da quelli senza embolia polmonare nonostante la terapia anticoagulante.
La CTPA è un’indagine come altre. Per questo motivo il riscontro di un piccolo difetto di riempimento vascolare è tanto più vero quanto più elevata è la probabilità clinica della malattia. Ad onore del vero già dalla rivalutazione del PIOPED2 è stata proposta una interpretazione differenziata dei risultati della CPTA in base alla stratificazione della probabilità clinica, dal momento che il numero di falsi positivi è molto elevato nei pazienti con embolia polmonare subsegmentaria e basso rischio pretest.
Credo che in nessun modo questo studio debba rappresentare un incoraggiamento a perseguire la ricerca dell’embolia polmonari là dove il rischio è basso e sul piatto della bilancia vanno messi anche i rischi sia dell’overtesting sia del trattamento anticoagulante.
Personalmente credo che nei pazienti con basso rischio questi difetti richiedano innanzitutto l’esclusione di una possibile trombosi venosa ed eventualmente uno studio del profilo coaugulativo del paziente, ma non un trattamento. Per i pazienti con rischio moderato credo vadano soppesati i rischi della terapia anticoagulante rispetto a quelli dell’embolizzazione, qualora non si possa trattare la causa sottostante.
Per il momento rimango cauto in attesa di evidenze più solide poiché, è bene ricordarlo, anche questo studio ha tutti i limiti degli studi retrospettivi e su tali limiti sarà il caso di riflettere ancora da qui a beve.
Mattia, innanzitutto grazie per questa bella e completa revisione su un tema così dibattuto. Come hai sottolineato in questi ultimi mesi su questo argomento sono arrivati al medico pratico messaggi discordanti.
Quale atteggiamento dobbiamo tenere di fronte al riscontro occasionale di un embolia polmonare sub segmentaria isolata in un paziente asintomatico?
Come avevo avuto modo di dire in un precedente post http://empills.com/2012/12/dobbiamo-anticoagulare-tutti-i-pazienti-con-embolia-polmonare/ è bene tenere conto non solo dei potenziali vantaggi di un certo trattamento ma anche dei suoi rischi; in questo senso penso che la malattia tromboembolica polmonare sia paradigmatica.
Come mi comportavo in questi casi sino ad ora? Eseguivo un’ecografia compressiva in pronto soccorso e se negativa avviavo il paziente a un follow up mediante un ecodoppler venoso da eseguire dopo 7-10 giorni, e se anche questo fosse risultato negativo per TVP non iniziavo alcuna terapia anticoagulante.
Lo studio di Blood cambierà il mio atteggiamento? Non so, ma penso di no, aspettando i risultati del trial su TEP subsegmentaria e ecodopppler venoso in corso.
Grazie Carlo. Vorrei però precisare che in questo caso l’articolo è focalizzato sulle embolie polmonari subsegmentarie “sintomatiche”. Come dicevo nel post non credo che le embolie periferiche possano essere causa di sintomi, probabilmente neppure nei pazienti con una riserva respiratoria/cardiocircolatoria compromessa. Penso questo sia un punto cruciale. Per avere riprova della rilevanza di questi riscontri dovremmo sapere quanti pazienti asintomatici presentano tali difetti periferici. Ho l’impressione che nei pazienti già defedati, in particolare quelli oncologici, trovare una subsegmentaria abbia un valore prognostico sfavorevole, ma non so se questo si traduca nella necessità automatica di una terapia. Aspettiamo di vedere lo studio in corso e diamo il giusto peso a questa evidenza.
Oops, è dire che aveva letto il post due volte.. Ho bisogno di riposo o di una casa di riposo. Scherzi a parte pur concordando con quanto detto da Paolo e da te sull’acquisizione della capacità di leggere in modo critico i lavori scientifici credo che il buon senso debba essere alla base delle nostre azioni. Ho difficoltà a credere, come te che l’embolia polmonare subsegmentaria possa essere la causa prima dei sintomi presentati dai pazienti dello studio pubblicato su Blood, stiamo a vedere se lo studio in corso confermerà o meno queste impressioni basate sul buon senso.
Complimenti per il post.
Concordo con te che questo lavoro presenti dei punti deboli ma che abbia il pregio di inquadrare il fatto trombo-embolico in un quadro più ampio. A mio avviso l’unica evidenza potenzialmente risolutiva dovrebbe essere un trial randomizzato in pazienti con embolia subsegmentaria vengono suddivisi in gruppo di trattamento e scoagulati e in un gruppo di controllo in cui assumono un placebo. Chiaramente uno lavoro di questo tipo potrebbe rafforzare l’idea che una sperimentazione di questo tipo non sia etica.
Concludo con un piccolo “pistolotto”: io credo che la capacità di condurre questo tipo di analisi approfondite della letteratura debbano diventare bagaglio del professionista sanitario. Quando approfondisco gli aspetti tecnici le sezioni “materiali e metodi” e “Risultati” di uno studio ho sempre l’impressione di aver acquisito anche una maggiore comprensione degli aspetti clinici del tema trattato.
Paolo grazie per il commento. Sono pienamente d’accordo con te riguardo al fatto che trovo oramai indispensabile fare una disanima approfondita delle pubblicazioni. Al di là di capire la rilevanza dei dati pubblicati, questo approccio consente di distillare le informazioni essenziali per aggiustare il calibro della pratica clinica quotidiana e di consolidare la padronanza dell’argomento analizzato. Certo è che richiede molto tempo. Tuttavia una volta avviati a questo metodo di valutazione è difficile tornare indietro, limitandosi a leggere passivamente le conclusioni degli autori. Forse uno dei pregi della FOAM e proprio quello di permettere di accedere con relativa facilità alle analisi più raffinate (penso a SMARTEM, emergency literature of note, e molti altri), sugli argomenti più disparati ma comunque di interesse alla medicina d’urgenza. Riguardo all’idea dello studio randomizzato cui accennavi vorrei fare una riflessione: sebbene la terapia anticoagulante abbia sicuramente un ruolo essenziale nella gestione della trombo-embolia non abbiamo paradossalmente evidenze che lo dimostrino. Che mi risulti gli unici studi che abbiano avuto un braccio di non trattati sino ad oggi sono solo due: lo studio di Barrit e Jordan del 1960 che è metodologicamente fallimentare e di fatto non dimostra nulla, e lo studio di Nielsen del 1994 che è comunque sottopotenziato. è strano che non ci si ponga problemi di eticità anche per quanto riguarda le complicanze del trattamento anticoagulante.