mercoledì 27 Settembre 2023

“Questo paziente non ha stoffa”. Speranze, false speranze e self-fulfilling prophecy

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La mia storia di medico in formazione mi ha portato qui. Da qualche settimana in un nuovo ospedale: tanti traumi (molti brutti) e per competenza tanti malati “cranici”, neurochirurgici, pazienti vittime di incidenti sul lavoro o della strada, emorragie cerebrali, ESA. Tante persone che un momento prima erano “normali”, stavano più o meno bene insomma, e che il momento dopo sono su un letto antidecubito, con un tubo in gola o una tracheotomia, un sondino che dà loro da mangiare e una flebo che dà loro da bere, chiusi in un mondo che molto spesso non sappiamo se sia solo più il loro o anche il nostro. Sai quando dici o pensi “la vita può cambiare in un secondo”.

Tanti ne ho conosciuti in questi anni tra Pronto Soccorso, Rianimazioni, Sub-intensive. Alcuni ti segnano di più e li ricordi più di altri: tra i molti un ragazzo, 20 anni più o meno, vittima di un incidente sul lavoro con conseguente arresto cardiaco e danno cerebrale post-anossico, fuori e dentro un letto di rianimazione per almeno 6 mesi. Guardavo lui e guardavo sua mamma, che veniva a trovarlo tutti i giorni, le sue carezze e le sue parole, guardavo gli infermieri e la cura meticolosa e attenta che avevano per lui, guardavo gli sforzi dei medici, guardavo la sua ragazza, vent’anni anche lei, le loro foto -sorridenti- attaccate al muro della stanza e mi si stringeva il cuore, un po’. Mi commuove la sofferenza, ma più ancora mi commuove (e mi interroga) la mia incapacità di sapere che cosa ne sarebbe stato di lui . Che vita avrebbe avuto? Se avrebbe avuto ancora vita… Come lui tanti altri. Penso è solo questione di tempo e poi capirò, lo studierò, lo saprò; ma mi guardo intorno e vedo colleghi che -con tanti anni, tanta competenza e tante qualità in più di me- non riescono comunque a rispondere, non sempre. Già perché proprio non lo sappiamo, a volte possiamo fare ipotesi (magari davvero attendibili), ma il destino dei nostri pazienti, la loro prognosi (in qualsiasi campo siamo impegnati, e qui parlo del nostro, dell’emergenza) risultano spesso difficili da predire, e non di rado le nostre previsioni risultano disattese. Nonostante innumerevoli tabelle di rischio e scores di stratificazione a nostra disposizione, “se la caverà dottore?” o “vale la pena insistere con questo paziente?” rimangono domande che mai ci vorremmo sentire rivolgere o rivolgerci.

“Ci approcciamo ai nostri pazienti, che cercano di sopravvivere alle loro malattie, talvolta arenati in un delicato equilibrio tra la vita e la morte, con il nostro giudizio critico e insieme compassionevole…[e] la nostra totale dedizione” scriveva MG. Yasargil (1).

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Grazie ad Alberto, un amico e collega che ora lavora oltreoceano, mi sono imbattuto in una lettera, scritta da un grande neurochirurgo americano, Harold Wilkinson, qualche anno fa (2). Lascerei parte per un attimo farmaci e procedure, condividendo le riflessioni di questo autore, grande medico e grande docente; padre di un ragazzo morto a trent’anni dopo due anni di sofferenza in seguito proprio a un danno cerebrale, ironia del destino. L’autore sviluppa tre concetti:

La Speranza. Oltre a fare parte del vissuto e delle credenze personali del singolo e della sua famiglia, può essere instillata, rafforzata o indebolita dal personale sanitario. La speranza dei nostri pazienti, intesa non come visione rosea del futuro fine a se stessa, ma come coraggio, determinazione nel continuare a lottare; non solo sopportare, ma partecipare attivamente al percorso di cura e quando possibile di guarigione. Siamo abituati, soprattutto nel dubbio, a concedere poco spazio alla speranza; dovremmo però ricordarci, scrive un altro eminente neurochirurgo americano W. Sweet, la differenza (non così banale) tra 0 e 1: anche solo una minima possibilità di outcome favorevole è maggiore della assoluta mancanza di possibilità e anche una sola ragione di speranza, quando basata su dati di realtà, ha un forte valore e non andrebbe negata (3).

Tutt’altro che positivo è invece dare ai nostri pazienti una falsa speranza. È una menzogna, anche se in buona fede o detta per “nobili” ragioni. Poco da aggiungere. Ha effetti distruttivi sulla fiducia su cui si basa la relazione medico/caregiver-paziente, che guida e condiziona l’andamento della storia clinica di chi abbiamo in cura.

Nell’articolo è sottolineato infine il concetto di Self-fulfilling prophecy (la profezia che si auto-avvera) con cui si intende il verificarsi -l’accadere- di previsioni o assunzioni per il solo fatto di essere state formulate. Il più delle volte, nel nostro ambito, sono previsioni di esito negativo (“Questo paziente non ha stoffa”, quante volte ognuno di noi ha pensato o condiviso con un collega questa affermazione), talvolta però questa profezia non si basa su dati di realtà inequivocabili, o taglia comunque fuori elementi di speranza ancora presenti. A tutti è capitato, ne sono certo. Il dato però più sconvolgente è che questo atteggiamento, ingiustificatamente pessimistico, comporta di conseguenza (e qui sono i dati della letteratura scientifica a parlare) un peggioramento dell’outcome dei nostri pazienti. Sono convinto che quel paziente andrà male, bene è molto più probabile che questo davvero si verifichi. Soprattutto in ambito neurologico e neurochirurgico (dove certa letteratura è più fiorente), in cui da sempre si cerca di identificare marcatori di outcome o score prognostici il più possibile affidabili (anche se in realtà molti studi sono falsati proprio da una troppo precoce sospensione dei trattamenti intensivi), ci si è resi conto che ad oggi il più importante determinante nella prognosi è il livello di supporto medico e assistenziale cui sono soggetti questi pazienti. Si è visto che, quando trattati in maniera intensiva, i pazienti normalmente considerati come “poor outcome” possono in realtà andare incontro ad esiti neurologici soddisfacenti, e che anche a medio-lungo termine sono molto più numerosi i miglioramenti negli scores neurologici in quei pazienti che raggiungono la dimissione dall’ambiente di cura intensivo (4-5-6).

Perché tutto questo? Come agisce la self-fulfilling prophecy? Agisce su noi medici innanzitutto, che spesso, anche solo inconsciamente, smettiamo di fare “our best” per i nostri pazienti, rinunciando a quello sforzo in più, quella procedura in più, quell’antibiotico in più… che magari per quel paziente avrebbe fatto la differenza. Agisce su pazienti e famigliari, che a loro volta smettono di lottare, di mettercela tutta e si rassegnano a un esito infausto, privati di quella speranza di cui sopra. Agisce infine sui colleghi e sulle altre figure sanitarie che ruotano intorno al paziente, che rapidamente saranno influenzate e quindi convinte dell’ineluttabilità dell’andamento negativo del caso. E così, quasi inevitabilmente, la profezia infausta, spesso non giustificata, si auto-realizza. Dati alla mano.

È chiaro che conclusioni in questo ambito è quasi impossibile darne, sicuramente ogni caso è storia a sè, lo sappiamo, e spesso arriviamo a farci una idea personale della cosa come frutto della nostra personalità e delle nostre credenze, sommate agli anni di esperienza sul campo e agli incontri fatti nel corso della nostra professione. Ognuno ha qualcosa da raccontare, un paziente, anche solo uno, con cui ha vissuto tutto questo. Ma quale atteggiamento suggerisce l’autore? Senza la pretesa di avere la ragione in tasca, ci parla con una delicatezza e una umanità che ho sentito vicine e che vorrei anche solo idealmente fare mie.

La speranza, scrive, non è efficace o credibile se non è basata su dati di realtà. Ma la realtà deve sempre essere “temperata dalla gentilezza”. C’è una bella differenza tra il dire a un paziente “Non c’è nulla da fare” e il compatirlo (nel senso profondo, latino: cum-patire) dicendo che “Non c’è nulla che serve sia fatto in questo momento”, non abbandonandolo a se stesso e non retraendosi da quella relazione (bellissima) tra medico e assistito o medico e familiare. Queste cose, dice, andrebbero insegnate fin dall’università.

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Citando nuovamente Gazi Yasargil: “Il nostro ruolo è tenere la porta aperta, così che speranza e ottimismo possano entrare e sostenere e rinvigorire il paziente nel corso della sua malattia. […] Rispetto quei colleghi che vogliono essere eticamente corretti, cercando di dire sempre la assoluta verità ai loro pazienti e dichiarando che il paziente ha il diritto di sapere la verità. La mia domanda però è: chi conosce la verita?”

Evitare i reali pericoli della falsa speranza da una parte, e della self-fulfilling prophecy dall’altra, ci permette di essere -conclude Wilkinson- non dei tecnici, ma medici sul serio, nell’accezione “old-fashioned, supportive, gratifying, and truly therapeutic” del termine. Grazie Dr. Wilkinson, ce la metteremo tutta.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

  1. Yasargil MG. A legacy of microneurosurgery: memoirs, lessons, and axioms. Neurosurgery 1999; 45:1025- 91.
  2. Wilkinson H.A. Hope, false hope and self-fulfilling prophecy. Surgical Neurology 63 (2005) 84-86.
  3. Sweet WH. The difference between 0 and 1. Clin Neurosurg, vol 23. Baltimore: Williams & Wilkins; 1975. p 32-51
  4. Rabinstein AA and Diringer MN. Withholding care in intracerebral hemorrhage. Realistic compassion or self-fulfilling prophecy? Neurology 2007; 68: 1647-1648
  5. Becker KJ et al. Withdrawal of support in intracerebral hemorrhage may lead to self-fulfilling pfophecy. Neurology 2001; 56: 766-772
  6. Hemphill JC et al. Prospective validation of the ICH Score for 12-month functional outcome. Neurology 2009; 73: 1088-1094
Marco Ulla
Marco Ulla
Urgentista, per un po' 118ttista, tra un po' magari intensivista Università di Torino Main research focuses: sepsis/trauma/acute coagulopathy @marcoulla | + Marco Ulla | <a

10 Commenti

  1. Grazie mille Marco. Questo è un post con gli attributi giusti! Le tematiche end-of-life sono sempre un terreno minato e hai saputo affrontare l argomento con grande prsonalità… Il più grande garante della prognosi è l idea che il medico ha su quel paziente…

    • Grazie Mauro, talvolta è davvero così, nella mia esperienza trovo che infatti il lavoro d’Equipe e il confronto possano giovare assai, sarà una banalità, ma spesso in pronto soccorso, nei turni notturni o nelle situazioni di reale emergenza non sempre ci è possibile. Credo che anche il confronto a posteriori sia però indispensabile in situazioni come queste, e dobbiamo forse un po’ vincere una certa “innata riluttanza” a metterci in gioco…se non altro parlo per me! Un caro saluto e a presto!

  2. Marco, grazie davvero per un post così coinvolgente e ricco di spunti di riflessione.Vorrei soffermarmi sull’aspetto della self fullfilling-prophecy che ci vede spesso attori inconsapevoli con i risultati che hai bene descritto.
    A questo proposito, secondo me ci sono due categorie di pazienti su cui rischiamo di commettere maggiormente l’errore di formulare prognosi basate su preconcetti piuttosto che su dati obiettivi: gli anziani e quelli affetti da neoplasia. La scarsa aspettativa di vita che caratterizza entrambi a volte ci rende più pessimisti anche quando non dovremmo esserlo, mentre all’opposto alcuni di noi non si arrendono a quello che è spesso è ineluttabile fornendo a questi pazienti cure intensive senza via di uscita al posto di una compassionevole palliazione.
    Essere obiettivi cercando la soluzione giusta per ogni paziente condividendo le nostre decisioni con tutto il team che ha in gestione il paziente, credo sia l’unica soluzione per cercare di fare il meglio possibile.
    Ancora grazie per avere attirato l’attenzione su temi cosi importanti e che non hanno risposte precostituite.

  3. Non posso fare altro che unirmi ai grazie precedenti. L’aspetto umano del nostro lavoro-vita è intriso da evidenze che, spesso, non identifichiamo. E’ una questione di etica intesa come adesione alla parte spirituale del nostro quotidiano impegno nel lavoro. In questi giorni stavo mettendo giù un protocollo sul percorso del diabetico territorio-ospedale (io mi occupe dalla fase del DEU) con schema hub & spoke. Nello scrivere gli attori del percorso, (Medico 118, infermiere 118, Infermiere triage etc.) sono repentinamente tornato indietro con lo scroll del mouse pensando a Fabio de Iaco e Giampiero Foccilo che al cosro sul malato critico hanno presentato delle relazioni sull’etica del medico d’urgenza e sulla fitness del malato critico. Bene ho modificato la lista degli attori 1: Lui! Si il malato. Da sempre considerato complemento oggetto delle nostre frasi. Lui! Quando ho mandato la mail agli amministratori del progetto (laureati in medicina.-..), mi hanno chiesto se Lui era una siglia di uno score, di una device, una procedura, insomma un complemento oggetto. La costruzione di un etica parte dal nostro io e da quanto siamo disposti a rivoluzionare le regole invertendo soggetto e complemento oggetto, utilizzando gli aggettivi e gli avverbi non come corollari di un pensiero ma come doni in una frase rivolta agli occhi di chi ci sta di fronte. Grazie ancora.

  4. Belle parole, grazie!
    Sono venuto a conoscenza di questi pensieri un po’ casualmente, tramite un conoscente che me le ha girate. Ho letto con attenzione, approvazione e un po’ di compiacimento (quel compiacimento che si prova a leggere cose che anche tu pensi ma che ogni tanto si affievoliscono di fronte alla sensazione di scontrarsi con tanti attorno a te che la pensano diversamente). Infine ho voluto vedere chi avesse scritto questi pensieri ed è stata una piacevole coincidenza leggere che stai facendo la specialità di Emergenze a Torino, in quanto il mio attuale obiettivo è di tentare la stessa strada nella stessa Università. Magari ci si conoscerà prossimamente.
    Buon lavoro!
    Andrea

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