Si parla tanto in questo momento di un allarmante incremento dell’incidenza e della prevalenza dello scompenso cardiaco tanto che molti giornali non di settore titolano in maniera scandalistica: “epidemia”!
Questo dato apparentemente spaventoso ha anche dei lati positivi. Se il numero di casi di scompenso cardiaco aumenta, “di cuore” si muore un po’ meno rispetto al passato. E se è assolutamente vero che il numero di casi è aumentato non è proprio vero che sono sorte nuove strutture atte ad arginare il problema.
L’Area di Emergenza come sempre se n’è fatta carico, madre di un figlio orfano con troppi genitori. Gli specialisti dello Scompenso Cardiaco Acuto in un prossimo futuro saremo noi, anche se probabilmente già lo siamo.
Che il DEA abbia ruolo cruciale nella gestione dello scompenso cardiaco acuto (AHF) se n’è accorta pure l’ACCA (importante sottogruppo dell’ESC che si occupa del paziente cardiologico acuto) tanto da sentire l’esigenza di pubblicare un “position paper” sulla dimissione/gestione in Area di Emergenza.
“European Society of Cardiology – Acute Cardiovascular Care Association position paper on safe discharge of acute heart failure patients from the emergency department”
European Heart Journal: Acute Cardiovascular Care 2017, Vol. 6(4) 311 –320
Lavoro interessante e buon punto di partenza che utilizzeremo come filo conduttore.
Diamo uno sguardo al diagramma.
L’Area di Emergenza ha ruolo nella stabilizzazione, nella valutazione della gravità e nella stratificazione del rischio dello scompenso cardiaco acuto.
Dopo questa prima fase il paziente verrà indirizzato a UTIC/terapia intensiva, degenza ordinaria (Cardiologia, Pneumologia, Medicina Interna) o dimesso.
Ruolo chiave l’avrebbe l’OBI perché permette la rivalutazione dopo trattamento del caso grigio chiarendoci un po’ le idee.
Ho effettuato due modifiche allo schema originale, non me ne voglia l’ESC, che credo lo rendano più consono alla realtà italiana. Ho esteso la zona grigia anche all’insieme giallo perché spesso il paziente che necessita di ricovero permane così a lungo in OBI da non necessitarne più.
Non è una cosa giusta ma purtroppo succede. Ho raddoppiato il tempo di permanenza in OBI, quindi dalle 12-24h suggerite siamo arrivati a 24-48h. Spesso prima di questo intervallo di tempo non si riesce a rivalutare il paziente o a trovare un posto letto. Concordo però con il “position paper” che asserisce che non tutte le Aree di Emergenza riescono ad effettuare delle osservazioni (“intensive”) così lunghe (riferendosi all’intervallo da loro suggerito).
Il documento ESC/ACCA non fornisce chiari criteri per il ricovero in UTIC, in degenza o per la dimissione.
Viene però sottolineato che la dimissione andrà effettuata con un chiaro programma di follow-up verso ambulatorio o DH.
Abbiamo parlato di osservazione … il DEA non va però considerato una palude dove il nostro paziente si impantana e dal quale non riesce ad uscire, ma un lettino da campeggio sul quale ristorarsi ed adagiarsi per un breve periodo mentre si sceglie la strategia più corretta.
L’OBI e lo scompenso cardiaco acuto non dovrebbero alimentare il problema del sovraffollamento in PS, che è davvero una STORIA INFINITA, ma semplificarci la vita.
E’ un concetto che dobbiamo comprendere e che devono comprendere soprattutto i colleghi nei reparti. L’OBI nasce per salvaguardare il paziente, non il DRG.
Il “position paper” citando “Disposition of emergency department patients diagnosed with acute heart failure: an international emergency medicine perspective” ci informa che le Aree di Emergenza con OBI dovrebbero avere un tasso di dimissione del 40%, un tasso di riammissione a trenta giorni <20% ed una mortalità <2%. Aree non munite di osservazione breve dovrebbero ricercare una soglia più bassa per il ricovero al fine di evitare pericolosi scivoloni.
Nonostante i cut-off suggeriti, in un certo qual modo arbitrariamente, la “real life” non è questa e le percentuali di dimissione dal DEA non corrispondono. Canada viene promosso a pieni voti con un 36% mentre Spagna raggiunge la sufficienza con un 24%. Fanalino di coda sono gli Stati Uniti d’America con un misero 16% (le mie insegnanti avrebbero detto: è intelligente ma non si applica). Avete idea nel vostro PS quali sono le percentuali di ricovero e dimissione? Credo che sia un dato importante da sapere per correggere il tiro.
Ma la dimissione da PS è fattibile? E’ sicura? Espone il paziente e noi a rischi?
Non è facile riuscire a capire se l’outcome del paziente ricoverato con AHF è migliore di quello dimesso direttamente dall’Area di Emergenza perché probabilmente vi è un importante BIAS ab initio (si tende a ricoverare chi è più grave o compromesso). Detto questo.
Brar ha dimostrato che l’outcome combinato (morte, ospedalizzazione e rivalutazione urgente in DEA) è migliore nei pazienti dimessi dal reparto, rispetto alla dimissione diretta dall’Area di Emergenza e che i centri ad elevato volume e turn-over sembrebbero andare meglio rispetto a piccoli e medi ospedali.
Altri studi come quello di Lee mostrano in realtà un outcome tutto sommato sovrapponibile anche se a favore della dimissione ospedaliera, mortalità a 90 giorni 9.5% vs 11.9%. Queste percentuali hanno un NNT=42. Cosa vuol dire? Devo ricoverare 42 persone per evitare un decesso (se questo 42 vi sembra una esagerazione vi confido un segreto: il Sacubitril ha un NNT di 52).
Il recente studio IMPROV-ED invece ha mostrato dati contrastanti.
Nonostante l’analisi cruda dei dati sembri favorire la dimissione diretta dal DEA in realtà questo vantaggio non è mantenuto dopo aggiustamento statistico.
Per i pazienti dimessi direttamente dal PS furono indentificate 5 variabili associate con l’outcome combinato (nuovo accesso in DEA, ospedalizzazione, decesso) a 180 giorni: insufficienza renale cronica, cardiopatia ischemica, pregresso episodio di AHF, classe NYHA III-IV ed ipotensione arteriosa all’arrivo.
Alla luce di questi dati (che non fanno realmente pendere la bilancia da nessun lato) la dimissione da PS è fattibile; bisogna capire chi è il candidato alla dimissione e chi il candidato al ricovero. Allargherei il problema a “chi si giova del ricovero” e non rimarrei bloccato al concetto “chi è a più alto rischio”. Supponiamo che il nonnino di 103 anni con 10% di FE abbia il rischio maggiore a 30 giorni: è lui il candidato al ricovero?
Tornando al Position Paper dell’ACCA, nel tentativo di identificare il paziente dimissibile viene suggerito l’utilizzo di score.
Ne abbiamo a disposizione essenzialmente 3:
- Ottawa Heart Failure Risk Scale (OHFRS)
- The Emergency Heart Failure Mortality Risk Grade (EHMRG)
- Multiple Estimation of risk based on the Emergency department Spanish Score In patients with AHF (MEESSI-AHF)
Il terzo è molto recente e non è citato nel documento ACCA.
The Ottawa Heart Failure Risk Scale (OHFRS) è stato sviluppato basandosi su dieci variabili cliniche ed ha una buona capacità di identificare eventi avversi a 15 giorni (c-statistic 0.77). L’ultima variabile è una sorta di mini-test del cammino da effettuare dopo trattamento (una sorta di prova del nove), ovviamente non applicabile a tutte le Aree di Emergenza e tutti i pazienti.
Lo score ha mostrato la capacità di incrementare la sensibilità del medico dimettente per gli eventi avversi dal 71.8% al 91.8%. Il prezzo da pagare è stato l’incremento della percentuale di ricoveri dal 57.2 al 77.6%.
Questa soglia di ricoveri è probabilmente troppo alta per la realtà italiana e non farebbe che peggiorare il sovraffollamento in PS.
Anche questo score si basa su alcuni parametri che non combaciano perfettamente con la nostra realtà.
Ad esempio l’arrivo in ambulanza spesso non è un parametro di gravità ed il metolazone non è così diffuso dalle nostre parti. Inoltre parametri come l’età o la presenza di cancro attivo possono in alcuni casi far propendere verso una gestione domiciliare più tranquilla o verso la palliazione. Nonostante questo ha un’ottima capacità di identificare eventi a 7 giorni.
Ultimo score suggerito (appena pubblicato) è il Multiple Estimation of risk based on the Emergency department Spanish Score In patients with AHF (per gli amici MEESSI-AHF probabilmente in onore del calciatore).
Tra i tre score è quello con l’AUC più alta (0.83). È stato estrapolato dal registro Epidemiology of Acute Heart Failure in Emergency Departments (EAHFE) e successivamente validato esternamente. Lo Score prevede 13 variabili che sono facilmente ottenibili anche all’arrivo del paziente.
Lo score è in grado di identificare il 40% di pazienti a basso rischio (con mortalità <2%) che possono essere considerati candidati per la dimissione ed il 10% ad alto rischio (papabili per il ricovero).
L’ho provato più volte e mi è sembrato da subito affidabile. Unico neo secondo me è l’utilizzo del Barthel Index.
Il paziente fragile, che spesso cerchiamo nel suo interesse di non ospedalizzare, becca un punteggio più alto.
È dimostrato che la probabilità di sviluppare eventi del paziente fragile con scompenso cardiaco acuto è maggiore del soggetto non fragile (13% vs 4.1% a 30 gg stando ad un recente studio di Martin-Sanchez pubblicato su Academic Emergency Medicine).
Quello che non è dimostrato è se l’ospedalizzazione possa modificare l’outcome e se il paziente ne possa beneficiare anche solo come miglioramento della sua qualità di vita.
Concludendo la stratificazione due parole su BNP & Company. Sebbene i peptidi natriuretici sono da sempre considerati indicatori prognostici potenti, l’utilità di un singolo dosaggio in Area di Emergenza nell’identificazione del paziente a basso rischio non è mai stata dimostrata. Uno degli studi più grandi (REDHOT II) mostrò nessun effetto nel modificare la durata dell’ospedalizzazione, la riammissione a 30 giorni e la mortalità per tutte le cause.
Inoltre con l’utilizzo del sacubitril il ruolo prognostico dei peptidi natriuretici nel tempo si perderà ulteriormente.
Dopo aver parlato ed analizzato questi score resto ancora perplesso.
Nessuno score che faccia almeno un accenno alla diuretico-resistenza o dose di diuretico domiciliare (anche quella è un marker di gravità).
Nessuno score che valuti un dato ecografico quando è dimostrato che anche la presenza di linee B o le dimensioni della vena cava inferiore sono potenti marker di mortalità ed eventi avversi.
Supponiamo un dato paziente con bassi punteggi a tutti e tre gli score ma che dopo bolo di diuretico abbia 150-200 cc di diuresi a 6h… che ne pensate? Siete soddisfatti? È ad alto o basso rischio? E se il paziente ha VCI ancora dilatata e linee B? Lo mandereste a casa con serenità? O vorreste prolungare l’osservazione magari aumentando il diuretico? La diuresi nel paziente con scompenso cardiaco deve diventare un parametro centrale, per me è quasi una ossessione, ma molti autori non ne sottolineano l’importanza.
La risposta diuretica è un importante parametro prognostico.
Testani in un famoso studio pubblicato sulla rivista Circulation Heart Failure dal titolo “Loop Diuretic Efficiency: A Metric of Diuretic Responsiveness With Prognostic Importance in Acute Decompensated Heart Failure” ha mostrato come l’efficacia diuretica sia un importante parametro prognostico.
In questo studio si definiva efficienza diuretica la quantità di urine prodotto ogni 40 mg di furosemide. Il gruppo con bassa efficienza diuretica (si parla di 200ml/40 mg furosemide vs 1000ml/40 mg furosemide) aveva prognosi nettamente peggiore rispetto al gruppo con alta efficienza.
È mia opinione che purtroppo i pazienti non sono figurine da attaccare su un album dopo l’analisi di uno o più score.
Lo score aiuta, indirizza, ma dietro la decisione finale per ora c’è ancora un cervello e dovrebbe esserci un cuore, in sintonia con il debole cuore del paziente e le sue esigenze.
Ma a questo punto qual è la soluzione da adottare?
Beh gli score, visto che li abbiamo sono un buon punto di partenza ma non di arrivo. Vanno fatti perché ti danno una idea asettica ed imparziale del paziente, mettono ordine nella testa e ti permettono di rivedere alcuni punti che magari nella confusione del PS e delle consegne avevi tralasciato.
La chiave giusta secondo me è l’osservazione e la valutazione della risposta alla terapia, non solo all’interno dell’OBI ma più in generale anche nelle sale d’osservazione. Bastano 4 o 6h per capire l’andazzo del paziente, le modifiche della cenestesi, la scomparsa di dispnea, la riduzione della frequenza o la presenza di diuretico resistenza.
ACCA ed ESC ci sottopongono una serie di punti da analizzare prima della dimissione. Li ho riassunti nella seguente figura.
Nonostante le variabili consigliate sono le stesse che valutiamo un po’ tutti prima della dimissione o del ricovero in OBI, questo elenco mi lascia interdetto per i cut-off riportati.
Ad esempio FR <25 apm è un limite troppo alto, è ancora tachipnea. Una diuresi di 1500 ml/24 in un paziente con congestione sistemica può considerarsi oliguria. La curva piatta della troponinemia è sicura anche se i valori superano di molto il cut-off?
Molto meglio di questo elenco è la flow-chart proposta in Disposition of emergency department patients diagnosed with acute heart failure: an international emergency medicine perspective”(European Journal of Emergency Medicine: February 2017) che ho modificato e diviso in due parti.
Sembra uno strumento utile e valido che dona indicazioni a tutti gli snodi decisionali: criteri per la semi-intensiva, necessità di OBI, di ricovero, possibilità di dimissione. Inoltre i dati riguardanti la diuresi sono compatibili con la realtà dei fatti.
Qui vi allego una versione super-semplificata che mi ha suggerito un mio collega, Francesco.
Ci sono tante domande non risposte come ad esempio:
In OBI il paziente deve fare diagnostica di II livello? Un monitoraggio ECGrafico od un EcgHolter per valutare il rischio aritmico? Deve essere effettuato un Ecocardiogramma completo? Il buon senso mi farebbe dire di si, non ho evidenze da allegare alla mia risposta.
Siamo arrivati alla fine del post ed alla dimissione del paziente, spero di non avervi confuso. Un ultimo sforzo: i consigli domiciliari.
Informare sempre il paziente:
- sui possibili segni o sintomi d’allarme riguardanti lo sviluppo di congestione o ipo-perfusione (basti pensare a fatica, dispnea, edemi declivi),
- sulla necessità di periodici (anche giornalieri) controlli del peso
- di evitare alcuni farmaci potenzialmente dannosi come ad esempio i FANS
- di evitare fumo ed alcolici
- sulla necessità di una dieta povera di grassi, senza alcuna restrizione al sale e con un introito di liquidi < 1.5 l/die
Mi raccomando la restrizione idrica e nessuna restrizione di sale (senza esagerare ovviamente). Il paziente con scompenso cardiaco ha già tanti problemi… dargli pure del cibo insipido è un altro delitto.
Cito questo lavoro, ma c’è tanta roba su Pubmed.
Impact of Dietary Sodium Restriction on Heart Failure Outcomes.JACC Heart Fail. 2016 Jan;4(1):24-35.
Prima di mettere la firma sul nostro verbale e consegnarlo sinceriamoci della assenza di barriere o difficoltà nella gestione domiciliare (scarsa compliance del paziente e familiare, mancata comprensione dell’importanza della terapia, paziente non autosufficiente, assenza del care-giver, etc). Se gli ostacoli incontrati non sono aggirabili o valicabili spesso saremo costretti a rivedere la nostra decisione.
Vi lascio con un piccolissimo estratto del libro “An account of the foxglove and some of its medical uses; with practical remarks on the dropsy, and some other diseases” scritto nel 1700 da William Withering, colui che scoprì la digitale. Descrive una donna sui 50 anni con scompenso cardiaco acuto trattata con successo con digitale. Si ipotizza fosse una donna con stenosi mitralica reumatica. Descrive tutto, dall’ortopnea agli edemi declivi, dall’ipoperfusione alla cianosi, financo l’oliguria… l’impotenza dei medici di fronte questa sindrome, che proponevano la scarificazione delle gambe, è ancora attuale…
Ci vediamo presto, anche se non so quando, con la seconda parte del post sulla terapia… sarà pianto e stridore di denti…
Sempre eccellenti i tuoi post. Peccato che non sono un medico di emergenza.