http://empills.com/2013/09/06/nitrati-insufficienza-cardiaca-acuta-quali-evidenze/
Uno studio recente, non riportato nei 4 lavori, mostra come l’utilizzo del nitrato in associazione al diuretico non riduca la mortalità e la ri-ospedalizzazione ma possa essere responsabile di un aumento della durata della degenza e dei costi ad essa correlata.
Il problema frequenza cardiaca non è particolarmente considerato nei quattro documenti analizzati. In assenza di aritmie, questa rappresenta certamente un marker di gravità del paziente e molto probabilmente un target terapeutico importante. Un recente studio di Lancellotti ha mostrato come la mancata riduzione della frequenza cardiaca a 24-36h indichi una prognosi peggiore del nostro paziente.
Devo dire di non prestare troppa attenzione alla frequenza cardiaca nelle primissime fasi della gestione dello scompenso cardiaco. Molto spesso è un fenomeno compensatorio o una conseguenza della attivazione catecolaminergica che si ha in quella fase e che si autorisolve con la stabilizzazione del paziente. Considero la riduzione della frequenza cardiaca un segno prognostico positivo, un segno di efficace risposta alla terapia.
Questo è un problema da considerare dato che circa il 50% dei pazienti con Scompenso Cardiaco ha una coronaropatia sottostante. I meccanismi attraverso cui un infarto miocardico acuto possa fungere da trigger ad uno scompenso cardiaco acuto sono rappresentati da aritmie, insufficienza mitralica acuta o danno miocardico esteso. La reale incidenza di sindromi coronariche acute sottostanti nello scompenso cardiaco acuto non è nota. In assenza di chiari sintomi ECGrafici e clinici (tipico dolore toracico) la diagnosi non è sempre delle più semplici dato che tra il 30 ed il 50% dei pazienti con scompenso cardiaco presentano un incremento degli enzimi miocardiospecifici a causa dell’aumentato stress di parete. Solitamente la curva della troponinemia è piatta e non presenta la salita e la discesa tipica dell’ischemia acuta. A meno di modifiche ECGrafiche chiare (ST sopra, BBS nuovo, ST sopra in aVR, ST sotto diffuso a tutte le precordiali) o di sintomi d’allarme quali la presenza di dolore tipico il paziente con AHF solitamente non necessita rivascolarizzazione entro 24 h dall’accesso. Non esistono dati di beneficio clinico.
- Utilizzo routinario degli oppiacei non è raccomandato
In piccoli studi la morfina ha mostrato degli effetti benefici quali riduzione della dispnea, frequenza cardiaca e precarico. Il registro ADHERE ha evidenziato come l’utilizzo della morfina coinvolga pazienti con maggiore rischio di ventilazione meccanica, ricovero in terapia intensiva e morte. Non essendoci dati su un miglioramento dell’outcome legato agli oppiacei, l’utilizzo routinario del farmaco è sconsigliato ed andrebbe individualizzato. - Esiste davvero poco spazio per i vasopressori ed i farmaci simpatico mimetici nei pazienti con scompenso cardiaco acuto escludendo lo shock cardiogeno; andrebbero riservati ai pazienti con segni di ipoperfusione persistente nonostante adeguato riempimento.
Nessun ruolo per le amine nei pazienti con sistolica superiore a 110 mmHg in assenza di segni di ipoperfusione. Non esiste nessuna evidenza che la dobutamina dovrebbe essere utilizzata nell’EPA con pressione sistolica normale alta.
Su centinaia di pazienti con scompenso cardiaco trattati, la somministrazione di amine credo si possa contare sulle dita di una mano: decorsi ospedalieri complicati da sepsi (solitamente polmoniti) o necessità di NIV in pazienti con instabilità emodinamica (pazienti che ovviamente non hanno indicazione terminare la propria vita in terapia intensiva). Sono sempre situazioni estreme. - Non esistono però chiare evidenze che le amine migliorino la sopravvivenza nei pazienti con scompenso cardiaco, tutt’altro. L’unico dato, indiretto, dell’efficacia o meglio di un possibile effetto positivo della amine è la presenza di alcuni pazienti definiti “amine-dependent” in cui la sospensione del farmaco non è più possibile per lo sviluppo di ipotensione. Nella mia breve esperienza, per quanto può servire mi sembra giusto condividerla, gli unici pazienti che possono rispondono alle amine sono i “settici” in cui l’ulteriore depressione della funzione ventricolare sinistra o destra è legata ai mediatori della sepsi… se il problema è organico so già che il paziente non risponderà. Nel momento in cui mi vedo costretto ad iniziare le amine, comunico ai familiari l’elevata probabilità di esito infausto anche in poche ore e cerco di instaurare un minimo di cure palliative.
- In caso di riesacerbazione di scompenso cardiaco cronico bisogna cercare in tutti i modi di mantenere la terapia domiciliare orale specifica (cosiddetta evidence-based/disease modifying). Con il termine disease modifying si intende quel calderone di terapia domiciliare che racchiude ACEi/Sartani/Betabloccanti/Risparmiatori di potassio.
- Gli unici parametri che dovrebbero limitare l’utilizzo della terapia domiciliare, secondo la consensus, sono rappresentate da ipotensione (sistolica minore di 85 mmHg, frequenza cardiaca minore di 50 bpm) o la presenza di iperkalemia. In queste condizioni gli autori consigliano la temporanea interruzione o riduzione del dosaggio dei farmaci. In particolare viene sottolineato, sulla base di uno studio di Joundau del 2009, che il betablocco può essere tranquillamente continuato nei pazienti con scompenso cardiaco, magari a dosaggio ridotto.
- Nel caso dello scompenso cardiaco acuto de novo invece è indispensabile l’inizio di queste terapie il prima possibile
Dai dati presenti in letteratura sembrerebbe vera la seguente regola: carvedilolo meglio di bisoprololo che è meglio di metoprololo/atenololo che non hanno mostrato chiara efficacia rispetto al placebo.
Secondo il documento ESC-ACCA, e pure secondo me 😉 , sebbene vi sia accordo nel gestire i pazienti estremi (EPA refrattario, severa insufficienza respiratoria, shock cardiogeno) in ambiente intensivo (unità coronarica, rianimazione), la restante parte (che dovrebbe rappresentare circa il 90% dei pazienti) non ha nelle prime 24h dall’accesso in Area di Emergenza un percorso definito all’interno dell’ospedale come lo avrebbero uno STEMI o NSTEACS. Tristemente affermano che i pazienti con scompenso cardiaco spesso concludono il loro percorso di diagnosi e terapia all’interno dell’Area di Emergenza.
In accordo con il documento HFA/SAEM la dimissione rapida e facilitata dal dipartimento di Emergenza può essere considerata negli ospedali che presentano un programma di gestione ambulatoriale dello scompenso cardiaco, una volta identificato e trattato l’evento responsabile della riacutizzazione mentre lo Scompenso de Novo non dovrebbe essere dimesso direttamente dall’Area di Emergenza.
La mortalità e la ri-ospedalizzazione dei pazienti con scompenso cardiaco risulta elevata. Vi è carenza di strategie o di strumenti/score di valutazione in grado di identificare correttamente il paziente che necessiti il ricovero, condizione che spinge a ricoverare in modo arbitrario buona parte dei pazienti. Si ritiene che circa il 50% dei ricoveri possa non essere appropriato.
Le condizioni cliniche possono variare anche nell’arco di poche ore in modo drammatico ed è solo in seguito all’iniziale risposta del paziente che si può decidere il percorso più appropriato. L’attesa di alcune ore per valutare la risposta del paziente non significa adagiare il paziente in un limbo di attesa. Sei-otto ore di osservazione in Area di Emergenza sono più che sufficienti per valutare gli scambi respiratori del paziente, la meccanica respiratoria, la riposta diuretica ed una rivalutazione ecografica. Sei-otto ore sono sufficienti per capire se il paziente può essere dimesso direttamente, dopo qualche altra ora di osservazione, gestibile in OBI o necessiti di ricovero.
La notte scorre senza grossi problemi… manca mezz’ora alla smonta, ma la testa è sempre alla paziente. Non mi va di lasciare una “doppia protesi meccanica” dispnoica in OBI senza un ecocardiogramma fresco. Niente si vede che oggi smonterò con qualche minuto di ritardo! Carico in sedia la paziente, che nel frattempo mi dice di stare molto meglio, e la porto in cardiologia.
Il quadro ecocardiografico purtroppo è disarmante.
- Indicatori di buona risposta alla terapia iniziale sono:
- Miglioramento della cenestesi
- Frequenza cardiaca inferiore a 100 bpm
- Assenza di ipotensione ortostatica
- Output urinario adeguato
- Saturazione periferica superiore a 95% in aria ambiente
- Assenza o solo modico peggioramento della funzione renale
Sebbene presenti alcuni score di rischio di mortalità a breve-medio termine non esistono score in grado di predire la riospedalizzazione.
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22665814
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/26449993
Il documento americano sottolinea che sarebbe opportuno ed auspicabile, per effettuare la dimissione direttamente dall’area di Emergenza, riuscire ad identificare il paziente con rischio di mortalità o di complicanze serie ma non fatali a 30 giorni inferiore allo 0.5%. L’assenza di score validati in grado di identificate questa classe di paziente con così basso rischio porta i medici d’urgenza americani al ricovero di circa 80% dei pazienti con AHF(!).
Dati alla mano il rischio di mortalità intra-ospedaliera dei pazienti con scompenso cardiaco oscilla tra il 4 ed il 10%, mentre il rischio di ri-ospedalizzazione supera il 50%/anno.
Visto che non siamo in grado di identificare il paziente ad alto rischio vediamo se riusciamo ad identificare quallo ad alto rischio. L’identificazione si basa sui soliti fattori prognostici: peggioramento della funzione renale, troponinemia, peptidi natriuretici, iponatremia ed ipotensione.
Il BNP, che nella puntata precedente ho un po’ tartassato, sembrerebbe invece avere un importantissimo ruolo prognostico. Da una analisi del registro ADHERE i pazienti con BNP <430 pg/ml rappresentavano il quartile con prognosi migliore. L’outcome combinato Rivalutazione in Area di Emergenza + Ospedalizzazione + Mortalità per Scompenso Cardiaco è incredibilmente più basso nei pazienti con BNP<230 pg/ml rispetto il gruppo BNP>480 pg/ml (2.5 vs 51%).
Insieme ai livelli di BNP deve essere considerata anche la troponinemia prima di una dimissione dall’Area di Emergenza. Sempre in accordo con il registro ADHERE i pazienti con troponinemia elevata necessitano con maggiore frequenza di trattamenti più aggressivi, ricoveri in UTIC (37% vs 16% p .0001) e presentano degenze più lunghe in terapia intensiva (2.9 vs 2.3 giorni, p .001) rispetto la controparte con troponinemia non elevata. La mortalità intraospedaliera è ovviamente più alta (8% vs 2.7% p .001). L’accoppiata BNP >840 pg/ml e Troponina positiva presentano una elevatissima mortalità intraospedaliera.
È stato recentissimamente pubblicato (Gennaio 2016) un nuovo score prognostico per i pazienti con scompenso cardiaco denominato AHEAD score.
- A: Atrial Fibrillation
- H: Hemoglobin < 13 g/dl
- E: Elderly (Età > 70 anni)
- A: Abnormale Renal Parameters (Creatinina > 1.4 mg/dl)
- D: diabete mellito
Sebbene fornisca dati interessanti di mortalità a medio-lungo termine ed utilizzi parametri facilmente reperibili (insufficienza renale acuta, iponatremia, etc…) l’applicabilità in Area di Emergenza è probabilmente non possibile. Il 100% dei miei pazienti ha almeno 3-4 parametri di routine.
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/26386914
La consensus europea suggerisce che in assenza di significativi fattori di rischio (Troponinemia, BNP e Creatininemia in range “accettabili”) potrebbe permettere l’osservazione del paziente in Area di Emergenza (magari nel nostro OBI), e dopo una attenta valutazione della risposta alla terapia, la dimissione. Oltre ai parametri clinici e laboratoristici è importante analizzare prima della dimissione le condizioni sociali in cui versa il paziente (compliance ed attenzione familiare, capacità di comprendere le istruzione, presunta aderenza alla terapia) che risultano al pari importanti dei fattori di rischio clinico. Il documento americano suggerisce la possibilità di una distinzione in 3 gruppi:
- Pazienti ad alto rischio che necessitano ricovero in unità coronarica/terapia intensiva
- Pazienti non ad alto rischio che suddividiamo in :
- pazienti non ad alto rischio ma con fattori di rischio clinico e sociale => gestione ospedaliera
- pazienti senza fattori di rischio clinico e sociale => gestione domiciliare
Fondamentale risulta sempre essere il follow-up a breve termine del paziente (anche entro 72 h) secondo le consensus. Settantadue ore sono tre giorni. Credo che a meno che non facciamo tornare il nostro caro paziente in PS (come sono spesso costretto a fare) o non ci si affidi al cardiologo curante od al medico di medicina generale, un controllo in tre giorni dalla dimissione non sia fattibile in tutte le realtà professionali. Nella mia realtà è presente un ambulatorio CHF (Chronic Heart Failure), ma le prenotazioni permettono follow-up a non meno di due-tre settimane. Un mio collega presso un altro ospedale è stato tacciato di peculato dalla sua direzione sanitaria per aver fatto tornare a controllo un paziente con una polmonite in PS in quanto toglierebbe soldi agli ambulatori… capiamo la realtà in cui siamo costretti a lavorare. Ormai del singolo malato non gliene frega più niente a nessuno… e tanti malati diventano una statistica
CRITERI PER IL RICOVERO IN REPARTO VS TERAPIA INTENSIVA/UNITA’ CORONARICA
- Pazienti con significativa dispnea o instabilità emodinamica dovrebbero essere gestiti in ambiente adeguato e da personale esperto
- Pazienti ad alto rischio dovrebbero essere gestiti in reparti semi-intensivi/intensivi
- I pazienti ammessi in terapia intensiva/unità coronarica dovrebbero poi essere trasferiti in una cardiologia
- Tutti gli ospedali dovrebbero avere un percorso per i pazienti con scompenso cardiaco acuto
- La decisione del più corretto percorso per il paziente dovrebbe basarsi su dati oggettivi più che soggettivi, quali l’azotemia, la creatininemia, pressione arteriosa, saturazione e frequenza cardiaca in associazione a score di rischio.
MONITORAGGIO OSPEDALIERO
- Il paziente dovrebbe essere pesato ogni giorno e ricevere un accurato bilancio idrico
- Monitoraggio non invasivo di frequenza cardiaca, pressione arteriosa e frequenza respiratoria
- Monitoraggio giornaliero di funzione renale e elettroliti
- La valutazione pre-dimissione dei peptidi natriuretici atriali può essere utile per il planning post- dimissione
- Monitoraggio ECGrafico continuo può essere indicato per pazienti con sottostante sindrome coronarica acuta ed a rischio di aritmie maligne.
In accordo con il documento turco il monitoraggio invasivo può essere limitato a:
- Pazienti con ipotensione/shock cardiogeno
- Pazienti con complicanze meccaniche di sindromi coronariche acute
- Pazienti non responsivi alla terapia
- Pazienti in attesa di trapianto cardiaco o LVAD
La durata media dell’ospedalizzazione varia da 5 giorni negli Stati Uniti d’America a 12 giorni in alcuni paesi europei. In un momento in cui si cerca di accorciare il più possibile la degenza ospedaliera bisogna cercare di dimettere il paziente con una tempistica ottimale. Un ricovero troppo breve (dimissione con congestione persistente) o troppo lungo (rischio di infezioni nosocomiali) non giova al nostro paziente. Le consensus sono abbastanza concordi sui criteri di dimissibilità.
- Emodinamicamente stabile
- Euvolemico
- È stata iniziata una terapia orale con beneficio
- La funzione renale è stabile per almeno 24 h
- Il paziente è stato educato al self-care
Le linee guida europee sottolineano come sia necessaria una osservazione della risposta alla terapia orale per almeno 24h. Ciò è davvero molto bello, ma spesso infattibile in una situazione in cui i tagli ai posti letto ci impongono ricoveri sempre più brevi ed PS sempre più affollati.
Il paziente dovrebbe essere inoltre:
- Arruolato in programmi di gestione ambulatoriale
- Rivisti dal medico curante entro una settimana
- Visti dal team di cardiologi ospedalieri entro due settimane se possibile
Lo shock cardiogeno può essere l’evento finale di un paziente end-stage o può incorrere in modo improvviso a seguito di sindromi coronariche acute (80% dei casi, con o senza complicanze mccaniche quali rottura di cuore o rottura di muscolo papillare), per vizi valvolari acuti (rottura di corde tendinee, rotture di cuspidi aortiche, endocarditi, dislocazioni e disfunzioni protesiche), miocarditi o sindrome Takotsubo. Rappresenta circa il 5% delle forme di scompenso cardiaco acuto. Secondo gli ultimi dati la mortalità a breve termine è 40%.
- ECG ed ecocardiogramma immediatamente in tutti i pazienti con sospetto shock cardiogeno
- Necessario monitoraggio invasivo con una linea arteriosa
- Non presente accordo sul miglior metodo di monitoraggio emodinamico (compreso il cateterismo cardiaco)
- Se non è presente sovraccarico di liquidi un fluid challenge (soluzione salina o ringer lattato, > 200ml/15-30 min) è raccomandato
- La dobutamina può essere utilizzata per incrementare la portata cardiaca; il levosimendan può essere considerato specialmente nei pazienti che assumono betabloccanti
- In caso di necessità di vasopressori, preferire la noradrenalina alla dopamina
- Tutti gli shock cardiogenici andrebbero centralizzati presso istituti con emodinamica attiva o la possibilità di supporto circolatorio meccanico (in particolare se papabili per trapianto cardiaco)
- Il contropulsatore aortico non è raccomandato in modo routinario
- Non vi è evidenza che un metodo di supporto meccanico sia superiore all’altro
Tutti i pazienti con shock cardiogeno secondario a infarto del miocardio devono essere rivascolarizzati, in modo indipendente dall’esordio temporale del dolore (livello I-B) e sebbene con ancora un certo livello di dubbio in modo completo (trattare tutte le lesioni emodinamicamente significative e non solo quella responsabile dell’ischemia acuta, livello di evidenza IIa-B). Sono dati ottenuti dallo studio SHOCK (Should We Emergently Revascularize Occluded Coronaries for Cardiogenic Shock). Lo studio CULPRIT-SHOCK dovrebbe chiarire definitivamente il problema.
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/16757723
Un recente studio di Weissler-Snir ha mostrato come in situazione di shock cardiogeno secondario a STEMI l’outcome dei pazienti con singolo vaso malato/trattato sia uguale a quello pazienti malattia multivasale e trattamento del singolo vaso “colpevole”.
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/26406235
In questa situazione gli inotropi dovrebbero essere utilizzati per il minore tempo possibile. È suggerito l’inizio con inotropo (dobutamina, levosimendan) e poi l’aggiunta eventuale di un vasopressore puro (noradrenalina). L’adrenalina, spesso usata in ambiente anestesiologico, sembra avere il profilo beneficio/rischio peggiore (anche aritmico). Non ho dati né esperienza personale per poter commentare.
Per quanto riguarda i device nonostante una recente metanalisi abbia mostrato un profilo emodinamico migliore nei pazienti con LVAD rispetto al contropulsatore aortico (IABP) l’outcome finale era identico. Sulla base di questa metanalisi non vi è accordo su quale supporto meccanico sia superiore.
Le conclusioni sono le mie e non quelle delle consensus. Dopo questa rassegna posso dire che presi tutti e insieme questi lavori sono abbastanza esaustivi e sfiorano (sottolineo sfiorano) buona parte degli aspetti dello scompenso cardiaco acuto. Mi aspettavo un po’ di più però per una sindrome che conta migliaia di accessi ogni giorno e con una mortalità così elevata di cui continuiamo a conoscere sempre troppo poco.
Risultano senza risposta numerose mie domande.
- Quando l’ecografia bed-side avrà un ruolo ufficiale nella gestione del paziente con scompenso cardiaco?
- Che tipo di strategia diuretica devo adottare al fallimento del mio primo approccio? Improvviso come faccio solitamente? Aspetto il consulente che mi propina l’infusione di furosemide o lo switch per os ad un dosaggio più elevato? (è capitato, ve lo assicuro)
- L’ultrafiltrazione? La abbandoniamo? A chi spetta tale competenza? Al nefrologo? All’intensivista? All’urgentista?
- Come controllo la frequenza cardiaca in urgenza? Non la controllo?
- Nonostante metanalisi e nuovi studi posso utilizzare la soluzione salina ipertonica nello scompenso cardiaco? Sono legalmente coperto?
- I nitrati li posso utilizzare in bolo come faccio sempre? Sono legalmente coperto dato che ora se non si seguono pedissequamente le linee guida siamo “off-label”?
- Le amine? Vietate, non vietate? Grande mistero…
- C’è ruolo per i colloidi? L’albumina è un trasportatore di furosemide. No albumina-no party?
- I vizi valvolari? Come influenzano la mia gestione? Una stenosi mitralica serrata nell’acuto può essere gestita al pari di una stenosi aortica serrata? Nella mia esperienza si, ma qualcosa di scritto non guasterebbe
- Ma la cosa che più mi preme sono le cure palliative, vi giuro. Questa è una cosa che mi attanaglia… perché propinare a queste nonnine di 90 anni il pacchetto completo di NIV, alte dosi di diuretico, prelievi giornalieri, polmoniti nosocomiali, EGA ARTERIOSI S-E-R-I-A-T-I di default?!?! Non si può campare 90 anni per morire in una settimana tra atroci sofferenze. Perché queste consensus non hanno fatto nemmeno lo sforzo di parlare di cure palliative? Come identificare il paziente refrattario alla terapia medica? Come supportare il paziente che probabilmente non ce la farà? Nessuno sforzo di identificare uno score in grado di predire il paziente refrattario? Perché?
L’unico appiglio che abbiamo è il documento condiviso SIMEU-SIARTI-ANMCO-AIPO etc che ho letto più e più volte ed è una buona base di partenza ma non ha tutte le risposte purtroppo.
Consideration for initial therapy in the treatment of acute heart failure
Critical Care 2015
http://www.ccforum.com/content/19/1/399
Intensive Care Med Sept 2015
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/26370690
Come sempre ottimi i tuoi post! Concordo pienamente con l’osservazione finale sull’approccio palliativo nel grande anziano: dove lavoro trattiamo in strutture sul territorio i grandi anziani con scompenso cardiaco con grande attenzione alla terapia palliativa permettendo loro di vivere i propri ultimi giorni in un ambiente sereno e “familiare” non subendo accanimenti talora davvero “tragici”
Grazie ancora!
Marco
Grazie Marco. Purtroppo è difficile riuscire a capire quando arrendersi in uno scompenso cardiaco. Ho visto situazioni ritenute terminali divenire risolvibili con semplici cambi della terapia… Non è facile, ma tutto è reso più difficile dato il mancato interesse delle società scientifiche.
Scusa la mia ignoranza: volevo chiederti come mai, nel caso di Maria la vena cava era piccola e normalmente modulante al punto di non convincerti?
Nel caso di Calogero si tratta di uno “scompenso diastolico”? ho visto che non se ne parla nel post. E’ un distinzione ormai superata? Richiede un trattamento diverso?
Forse troppe molte, ma il tuo post, oltre ad avermi insegnato molte cose, hanno anche stimolato il mio desiderio di approfondire.
Con vive cordialità
Ciao Stilicho. I Domanda. La VCI era solo un aspetto della paziente che non mi convinceva. Solitamente nei quadri di scompenso cardiaco con congestione così marcata (versamento pleurico bilaterale) è dilatata e non modula con gli atti del respiro. Paziente con versamento pleurico bilaterale secondario a polmonite senza una linea di febbre e con solo modico incremento degli indici di flogosi? Possibile ma strano… Le protesi hanno poi il vizio di complicarsi in tanti modi: trombosi, deiscenza, endocarditi… Non mi convinceva tutto qua il quadro generale.
II domanda. Lo nuova nomenclatura non prevede lo scompenso cardiaco diastolico o sistolico. Si è visto che tutti i pazienti con scompenso cardiaco hanno disfunzione diastolica (a prescindere dalla FE). Dall altro lato i pazienti con frazione d eiezione normale (>45-50%) presentano altri indici ecocardiografici di funzione sistolica ridotti rispetto ai soggetti normali. Proprio per questo le società internazionali hanno deciso di suddividerlo in base alla frazione di eiezione: frazione d eiezione ridotta e preservata.
Nel post non ne parlo perchè le consensus non ne parlano. Non c è differenza in acuto nella gestione dei pazienti in base alla FE. Almeno non è nota
Bel post sicuramente!! Ma le chiazzette della signora Maria non sembrerebbero associabili maggiormente a scompenso che a b.polmonite, vista la cardiopatia e la negatività degli indici di flogosi?
Invece una precisazione riaguardo alla SCAnste sottostante all AHF. La presenza di quest’ultimo rappresenterebbe un criterio di alto rischio e quindi comporterebbe indicazione alla PCI proprio entro le 24 h – credo sia surreale al momento pensare ad una gestione in emodinamica entro le 2 h come indicherebbero le linee guida 2015 della ESC per la gestione della SCANSTE –
Giuseppe
Ciao Giuseppe. Grazie per il commento preciso. Ho omesso due dati nel mio racconto di Maria. Primo. Gli indici di flogosi non erano del tutto assenti ma dubbi per l’entità del quadro clinico (PCR 70 con v.n. 200. Forse è stata solo fortuna.
Per quanto riguarda le sindromi coronariche acute sono d’accordissimo con te… la conferma di una NSTE ACS come causa di Edema polmonare necessita la rivascolarizzazione precoce.
Credo che la rivascolarizzazione in 2 h sia utopia