Quando arriva nella shock room ci sono decine di persone ad attenderlo, la rianimazione procede, il Trauma team leader urla ordini e tradisce più volte la sua posatezza, molto inglese, ma molto lontana. I nonni seguono il tutto a poca distanza, hanno seguito l’ambulanza in auto, e adesso osservano impietriti quel corpicino che ogni istante che passa perde colore e vita, l’accesso intraosseo, il riposizionamento del tubo endotracheale, i drenaggi toracici, le sacche di sangue, gli sguardi di medici e infermieri che perdono, attimo dopo attimo, fiducia e speranza.
Passano due ore, sembrano istanti, ma sono due ore. “Asistolia, le gasanalisi parlano chiaro, acidosi metabolica irreversibile, iperpotassiemia, lattato alle stelle, emoglobina che crolla, liquido libero in peritoneo, lacerazione del parenchima epatico, non indicazioni chirurgiche, trauma cranico chiuso”. Quei due anziani, ammutoliti guardano, ascoltano, non capiscono. Quando però tutto quel frastuono si trasforma in silenzio, tutta quella frenesia in immobilità, non c’è bisogno di capire o spiegare. I due vecchi si tengono per mano, socchiudono gli occhi e una lacrima scende sui loro volti segnati dalla vita e da quelle due ore, più lunghe e brevi insieme di tutta una vita.
Non solo differenze culturali tra la loro visione e quello a cui ero abituato finora, ma forti motivazioni scientifiche, a loro dire. Per cui ho messo da parte l’uomo per un attimo e ho provato a pensare da medico.
In una revisione sistematica inclusa nelle ultime linee guida per la rianimazione cardio-polmonare e disponibile nella sezione worksheet del sito ILCOR , Douglas Diekema prende in analisi la letteratura tentando di rispondere al seguente quesito: durante l’arresto cardiaco del bambino o dell’infante si osserva un miglioramento nell’outcome del paziente o dei famigliari a seconda della presenza di questi ultimi durante le manovre rianimatorie?
Sono stati presi in analisi 29 lavori pubblicati fino al settembre 2009: in somma sintesi 26 lavori supportano il quesito clinico (outcome positivo), 10 di questi con livello di evidenza 5; 2 lavori si esprimono in maniera neutrale (livello di evidenza 5) e un solo lavoro descrive evidenze contrarie al quesito (livello di evidenza 4). Queste in sintesi le riflessioni dell’autore: dall’analisi dei lavori emerge che le figure più restie alla presenza dei famigliari siano i medici rispetto agli infermieri (potenziale interferenza dei famigliari o sincope degli stessi durante le manovre rianimatorie e preoccupazioni di ordine medico-legale sarebbero le principali motivazioni). L’autore sottolinea però come i dati disponibili siano in realtà a supporto della presenza dei famigliari durante le manovre rianimatorie, sia che si tratti di pazienti pediatrici o di pazienti adulti: la norma “storica” di tenere i famigliari al di fuori della shock room sarebbe priva di ogni fondamento scientifico. Sono i famigliari stessi a voler essere presenti durante la rianimazione dei loro cari, adulti o bambini, ed è interessante notare come chi ha avuto modo di essere presente una volta, ripeterebbe la cosa e la raccomanderebbe ad altri. La presenza dei famigliari non avrebbe alcun impatto negativo sulla performance del team e anzi i famigliari percepiscono la loro presenza come un beneficio per l’outcome del paziente e per loro stessi: una miglior capacità di adattamento all’idea della morte del caro e un modo più salutare di vivere il dolore della perdita.
Evidenze analoghe sono a supporto della presenza dei famigliari durante manovre invasive in Dipartimento di Emergenza e in Terapia Intensiva. L’autore conclude che offrire a membri selezionati della famiglia (adulti e intenzionati) la possibilità di presenziare a manovre rianimatorie o procedure invasive è ragionevole e auspicabile, a meno che il paziente, se adulto, non abbia espresso esplicita obiezione alla cosa. Non ci sono ad oggi dati definitivi in letteratura riguardo all’importanza di avere personale dedicato al supporto dei famigliari durante le manovre rianimatorie, ma viene comunque raccomandato sulla base dell’esperienza dei singoli.
Il solo studio incluso in questa revisione che si esprime in maniera negativa è un lavoro condotto nel 2006 e che prende in analisi la presenza dei famigliari durante le manovre rianimatorie eseguite in ambiente pre-ospedaliero [1]: secondo l’esperienza di questo autore, una percentuale significativa dei sanitari dedicati al soccorso pre-ospedaliero percepisce che la presenza dei familiari durante le manovre rianimatorie influisca in maniera negativa sulla loro prestazione e sugli esiti della rianimazione stessa. A questa obiezione sembra però rispondere puntualmente un trial randomizzato condotto in Francia e pubblicato su un recente numero della rivista New England Journal of Medicine (http://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMclde1301020?query=featured_home) [2].
Lo studio, condotto su 570 famigliari di vittime di arresto cardiaco, ha preso in analisi l’incidenza di sintomi associati a disturbo post-traumatico da stress, ansia o depressione a 90 giorni dall’evento in due gruppi di studio: al primo veniva richiesto di presenziare alle manovre, al secondo di non assistere. Tra gli outcomes secondari si è valutato l’impatto della presenza dei famigliari sulla performance del team di soccorso. I risultati dimostrano come il rischio (odds ratio = 1.7) di sviluppare sintomi da disturbo post-traumatico da stress sia più elevato nel gruppo di controllo (coloro che non avevano assistito alla rianimazione), così come l’incidenza di sintomi associati ad ansia o depressione. La presenza dei parenti non sembra inoltre avere alcun impatto significativo sulle modalità della rianimazione, sulla sopravvivenza dei pazienti, sul livello di stress emotivo del team o sull’occorrenza di contenziosi medico-legali.
Volendo concludere: ringrazio innanzitutto Carlo per lo spazio e la fiducia che mi ha concesso permettendomi di scrivere sul suo blog. Il tema non è certamente nuovo né tantomeno semplice. La letteratura ci viene in aiuto e ho provato a fare una sintesi di quelle che sono le evidenze. Ripensando al caso drammatico di Prince, allo sguardo dei suoi nonni, rimango tuttavia perplesso. Continuo a chiedermi che cosa avrei voluto io, per me o per i miei cari. Credo che in fondo tutti noi dovremmo ogni tanto svestire i panni dei “professionisti della salute” e immedesimarci nelle persone che incontriamo ogni giorno nella nostra professione, non so se saremmo migliori o peggiori, ma certamente più uomini. Un grande scrittore francese, Charles Péguy, diceva: “Un vero scienziato, uno che lavora nel suo laboratorio, non scrive scienza con la S maiuscola”. Mi auguro di non fare mai questo errore. Buon lavoro a tutti.
1. Compton, S., A. Madgy, et al. (2006). “Emergency medical service providers’ experience with family presence during cardiopulmonary resuscitation.” Resuscitation 70(2): 223-8.
2. Jabre P, Belpomme V, Azoulay E, et al. Family presence during cardiopulmonary resuscitation. N Engl J Med 2013;368:1008-18.
Marco Ulla, Emergency Medicine Registrar, St. Mary’s Hospital, Imperial College, London – UK
Account Twitter @marcoulla
Marco,
veramente un bel post e che ci fa ragionare. Vedere come funzionano le cose in luoghi lontani da noi, almeno dal punto di vista culturale, sicuramente aiuta. Il nostro modo di sentire e vivere affetti e malattie è certamente diverso rispetto al popolo anglosassone e credo sia difficile vedere questo tipo di comportamenti applicati anche da noi, almeno in un futuro prossimo. La strada mi sembra però quella giusta. Vedere tante persone che si affannano per salvare la vita di un nostro caro è certamente un’esperienza che nessuno di noi vorrebbe vivere, ma che alla fine ci può dare quel senso di rassegnazione che tutto quello che si poteva fare è stato fatto e nel miglior modo possibile. Questo poi aiuta noi operatori sanitari a sentire meno il peso del nostro fallimento e del giudizio altrui sul nostro operato.
Verissimo Carlo, grazie ancora!
ho lavorato 5 anni in ticino,in strada e in ospedale,la realtà è molto differente dalla nostra e molto vicina al modello inglese descritto:premetto un iniziale scetticismo a questo approccio che ho poi apprezzato nel tempo,sia per quanto riguarda la presenza a domicilio durante una REA(rianimazione alla ticinese)dei parenti sia in ospedale dove le cure intense(rianimazione) sono aperte:quindi i famigliari (con dovute eccezioni)possono “interagire” con il loro caro in ogni momento della giornata ed assistere anche al livello di cura prodotto.mi/vi pongo però una riflessione:cosa accadrebbe oggi in italia?saremmo pronti a questo sistema o(a torto o ragione)avremmo il timore di quello che è una costante(purtroppo)per chi lavora in DEA o in strada o in TI:cioè la causa legale incombente che oramai fa tristemente parte del nostro lavoro.non è di poco conto che ,ad esempio in svizzera,non hanno il numero di cause legali che abbiamo in italia in ambito sanitario.
dc,
hai ragione. La realtà italiana è molto diversa. In genere i parenti vengono fatti uscire dalla sala visita anche solo per fare un prelievo di sangue, ma anche da noi però sono sempre di più le rianimazioni “aperte”, segno di una sempre maggiore attenzione verso queste tematiche. La medicina difensiva è uno dei mali del nostro tempo. Quando ci si renderà finalmente conto che lo spreco di risorse per evitare errori che spesso errori non sono è enorme, e che le stesse risorse potrebbero essere destinate alla vera cura dei pazienti, forse le cose cambieranno, almeno lo spero.