domenica 1 Ottobre 2023

Riflessioni di un reduce

Avviso ai lettori: in questo post si useranno espressioni e parole che appartengono al lessico della guerra. Non c’è nulla di più lontano dal nostro sentire, ma la metafora bellica sembra essere l’unica maniera per raccontare la pandemia. Adattiamoci.

La voglia di cambiamento secondo Banksy.
I want change: Banksy (forse), Melbourne

Sono un reduce del Covid19. Come me sono reduci i miei Colleghi, quelli che ci sono proprio stati dentro. In prima linea. Esclusi i malati, nessuno come noi ha vissuto davvero lo sgomento dell’assalto, l’angoscia delle armi impari, il dramma delle morti.

Riconosco di essere vittima di una scadente filmografia: nel mio immaginario i reduci la guerra l’hanno fatta sul serio, la conoscono senza retorica o romanticherie, senza la cialtroneria di chi racconta senza aver vissuto. I reduci sono coloro che hanno una storia vera da raccontare e che ben pochi vogliono ascoltare. Coloro che ancor oggi pagano le conseguenze di quel che è accaduto, un po’ fuori di testa, imprigionati nelle proprie stereotipie con le quali continuano a importunare sfortunati passanti. Che si vorrebbero decorare per il valore dimostrato ma non meritano dieci minuti di ascolto attento.

Una doppia condanna, per i reduci: pagare un prezzo personale, intimo ma non solo, perché inevitabilmente ricade sulle persone che stanno loro accanto, e allo stesso tempo subire quella specie di marginalizzazione sociale che spetta a chi rappresenta la memoria dolorosa e gli errori attuali della Società. 

La foto simbolo della guerra dei sanitari al Covid-19. Scattata da Francesca Mangiatordi l'8 marzo 2020, ritrae l'infermiera Elena Pagliarini, che mesi dopo verrà nominata Cavaliere della Repubblica.
Foto di Francesca Mangiatordi

Noi reduci vediamo il futuro

Qual è il nostro prezzo personale? Cercate tra le manifestazioni della sindrome da stress post-traumatico: molti di noi le conoscono bene, purtroppo. Da un po’ la nostra vita corre sul filo sottile di una vaga depressione, i nostri sguardi cercano in lontananza un orizzonte sereno ma sono continuamente costretti a volgersi indietro, verso quel che è stato e non dimentichiamo. Stiamo scoprendo una nuova manifestazione della sindrome del reduce: non più i veri flash-back (quelli vividi e violenti dei reduci dal Vietnam, per capirci). I nostri flash peggiori sono i flash-forward (lo so che è un neologismo bruttissimo!): noi vediamo il futuro. Perché quel futuro l’abbiamo già vissuto. Non riusciamo a elaborare il passato perché sappiamo che quel passato non è concluso e può diventare, drammaticamente, il nostro nuovo futuro. Non sono presagi: sono probabilità.

E la marginalizzazione sociale? “Ma dai, amico, non vorrai mica dire che voi, proprio voi che siete stati i nostri eroi, adesso vi sentite abbandonati! Ma se vi abbiamo salutati tutti i giorni dai nostri balconi, vi abbiamo riempiti di doni, disegni, canzoni, post sui social!”. Sì, ma oggi non volete più ascoltarci. Ci avete ridotti al Savonarola di Troisi: il menagramo che ripete una grottesca cantilena “ricordati che devi morire!” e in cambio riceve, inevitabilmente, la canzonatura che merita (“Mo’ me lo segno…”). 

Ricordati che devi morire!!!

È evidente il desiderio di rimozione che si è scatenato dopo il lockdown. Una rimozione più sottile e pericolosa di quella dei quattro imbecilli negazionisti che imperversano sul web, che neppure degniamo di considerazione. Piuttosto la necessità di ritrovare fiducia nel futuro (necessità sacrosanta, che forse proprio noi sentiamo più di tutti) viene mal interpretata e si traduce nella banalizzazione del passato e nella minimizzazione dei rischi futuri. Un’operazione irrazionale e pericolosa, addirittura disonesta nel momento in cui diviene il centro di una contesa ideologica: protagonismi sfrenati, dispute televisive, strumentalizzazioni politiche. Si è creato un clima in cui ribadire la possibilità di una recrudescenza della pandemia equivale, per qualcuno, al reato di disfattismo, di memoria fascista. Un clima al quale non sono estranei neppure alcuni nostri stimati Colleghi.

Il turno più lungo e sfortunato

Tutto questo non ci aiuta: i comportamenti di oggi vanificano, agli occhi dei reduci, l’impegno di ieri. E il disagio cresce: attribuire il giusto valore a quel che è stato fatto permetterebbe di elaborare positivamente un vissuto che rischia viceversa di rimanere irrisolto, sospeso nella percezione di una drammatica sterilità, privato del possibile conforto che verrebbe da un significato alto come l’aver agito per il superiore bene comune.

Come ci siamo già detti, la retorica degli eroi ha consentito di liquidare con noncuranza e superficialità una vicenda che ha significati ben più profondi e complessi. Un esempio banale: noi reduci assistiamo perplessi ai litigi sulle dimensioni del premio in denaro che dovremmo ricevere per il valore dimostrato durante la guerra in trincea. Ma non avevamo mai pensato di meritare un premio straordinario per aver svolto il nostro lavoro in un momento eccezionale. Noi che sappiamo bene che la nostra vita è fatta di turni più o meno faticosi, più o meno fortunati, consideravamo l’eccezionalità del momento come il turno più lungo e sfortunato della nostra vita, per il quale mai avremmo chiesto un premio speciale. Piuttosto abbiamo sempre sostenuto che fosse la natura stessa della nostra attività a meritare una differente valorizzazione: la presenza continua, la garanzia di una risposta pronta a eventi drammatici, complessi, inattesi. Se mai abbiamo pensato al denaro, l’abbiamo fatto dicendoci “adesso si capirà che meritiamo di più” per quel che facciamo ogni giorno, per quel che siamo in questo sistema, non certo pensando a monetizzare un impegno che ci faceva sembrare eroi quando invece eravamo i semplici combattenti di sempre, di fronte a un compito straordinario. 

Foto di Francesca Mangiatordi. I reduci continuano a lavorare.
Foto di Francesca Magiatordi

Un po’ “reduci” e un po’ “veterani”

Ho cercato la traduzione inglese della parola “reduce”, scoprendo che non esiste un’espressione specifica. C’è solo il termine “veteran”, che mette insieme due significati: il reduce come noi lo intendiamo e il veterano, l’esperto, colui che ha una conoscenza profonda basata sull’esperienza. E allora, seguendo il filo di una riflessione forse un po’ estrema ma plausibile, una volta assunta come inevitabile la metafora bellica, c’è da chiedersi quale utilità trovi, oggi, l’irripetibile esperienza maturata dai reduci. 

A cominciare dall’ipotesi della “seconda ondata”, in quella gigantesca sala scommesse che è diventato il nostro Paese, in cui prudenza e spavalderia troveranno ben presto una quota alla quale giocarsi la sorte. Stiamo scommettendo sul risultato di una partita, dimenticandoci che quella partita la stiamo giocando noi. Come se fosse importante solo sapere se l’ondata arriverà o no, ignorando quanto servirebbe capire come arriverà, in quali proporzioni, in quale contesto organizzativo, sociale, ambientale. È in questo che sarebbe doveroso ascoltare i reduci: perché i reduci sanno con certezza che una seconda ondata arriverà. Forse non sarà epidemica, forse non sarà il virus, ma certamente sarà il risultato di quel che il virus ha già prodotto. In un Paese che ha perso in tre mesi il 10% del PIL e il 15% della produzione industriale, in cui la povertà ha raggiunto livelli storici, noi reduci sappiamo con certezza che l’ondata arriverà quando in autunno verranno meno i meccanismi che sinora hanno parzialmente sostenuto la capacità economica dei nostri concittadini. Sarà un’ondata fatta di necessità socio-economiche non soddisfabili, che inevitabilmente si tradurranno in necessità sanitarie. Sta già succedendo. È una vecchia storia che nessuno più di noi conosce: da sempre il ricorso al Pronto Soccorso è anche il riflesso della difficoltà socio-economica della popolazione. 

Già, il Pronto Soccorso: torniamo sempre lì. Ovvio, si dirà: siete gente di Pronto Soccorso, di cos’altro dovreste parlare? Ancora una volta è quel che facciamo ogni giorno a conferirci un titolo speciale. Il Pronto Soccorso è il più formidabile punto di osservazione per un Sistema Sanitario: la citazione è vecchia e abusata ma sempre validissima, in tempi normali così come nei mesi della pandemia. Nessuno più di noi ha la percezione chiara di quel che è accaduto, di quel che sarebbe stato necessario, di cosa più è mancato. Dal nostro punto di osservazione abbiamo sempre superato il confine del Pronto Soccorso per guardare con attenzione e competenza al prima e al dopo, al fuori e al dentro l’Ospedale, oltre le porte del Pronto Soccorso. Per noi l’obiettivo da perseguire non potrebbe essere più evidente: prepararci con urgenza alla possibile “seconda ondata” imparando dall’esperienza irripetibile che abbiamo maturato e contemporaneamente realizzare un sistema che stabilmente nel futuro possa rispondere alle esigenze del Paese, in condizioni normali o eccezionali. Coniugare l’emergenza della guerra con le esigenze del tempo di pace, se vogliamo continuare con il lessico bellico. Mettere in sicurezza il Sistema Sanitario Nazionale, come ha detto qualcuno ben più autorevole di chi scrive.

#nonèandatotuttobene, foto di Francesca Mangiatordi
Foto di Francesca Mangiatordi

Durante il pieno della pandemia abbiamo vissuto un periodo di formidabile concretezza. Pur nelle drammatiche carenze di quei giorni (non le elenco, le conosciamo bene) il collegamento tra le esigenze e le decisioni era immediato. Abbiamo vissuto il contatto continuo, sulla base delle cose da fare, con i vertici decisionali a tutti i livelli, aziendali, regionali e nazionali. Quel breve periodo di assoluta concretezza ci ha indotti a credere che davvero stessimo attraversando un crocevia della storia, che davvero, non appena fosse giunta la tregua che anelavamo, il momento eccezionale che vivevamo sarebbe inevitabilmente proseguito nella costruzione di un sistema nuovo ed efficiente.

Ci aspettavamo di essere ascoltati.

Ci prepariamo alla “seconda ondata” (!!!)

Ci sbagliavamo. Terminata la battaglia campale si è riapprofondito il solco che separa le necessità dalle decisioni. Proprio nel momento in cui le decisioni sarebbero imperative. È quasi banale raccontarlo: gli ospedali hanno perso capienza, le procedure per l’accesso sono sempre più lunghe e complicate, i percorsi differenziati sottraggono spazio e risorse. La complessità è aumentata. E sui Pronto Soccorso pesa il carico massimo. Mentre gli accessi sono tornati quelli del pre-Covid le risorse sono diminuite, in termini di strutture e di personale. La chiamata alle armi di febbraio-marzo è cessata e a guardare il fortino sono rimasti gli stessi di prima (anzi qualcuno di meno). I soliti reduci. Nel silenzio dei decisori.

Tutto ciò di cui sentiamo parlare è l’incremento dei posti di Terapia Intensiva: uno slogan della politica, che tranquillizza l’opinione pubblica trasmettendo un falso messaggio di futura sicurezza. Al di là delle enormi oggettive difficoltà per una simile operazione (pur necessaria) sappiamo bene che le strutture non corrispondono alle funzioni. Chi popolerà quelle Terapie Intensive? Dove sono le professionalità che potranno dare significato alle strutture? E soprattutto, dove mai è scritto che quella sia la soluzione reale per una possibile “seconda ondata”? Gli stessi Colleghi di Anestesia e Rianimazione stanno profondamente rivisitando le soluzioni che abbiamo creduto necessarie per un breve momento (leggete qui). Tutti noi (almeno coloro che coltivano la virtù dell’onestà intellettuale) sappiamo bene che le soluzioni non stanno solo nell’ultimo gradino di una drammatica scala. Tutti i gradini precedenti sembrano ignorati, liquidati in una sorta di rassegnata impotenza: territorio inesistente, Pronto Soccorso e Subintensive dati per scontati. Come sempre.

Scommesse aperte…

La nostra magica capacità di vedere il futuro è anche la nostra condanna. Mi viene in mente Cassandra, in grado di predire il futuro ma condannata all’irrilevanza. Ci stiamo domandando quale sarà lo scenario peggiore. Proviamo insieme a mettere giù qualche ipotesi.

Scenario 1: scoppia nuovamente la pandemia. Torniamo al recente passato. Crolla l’accesso ai PS per altre patologie, tutto diventa Covid19, ritorniamo a curare (tentare di…) una sola malattia. Nuova tragedia nazionale. Nuova chiamata alle armi. Ma i reduci non sono più quelli di prima. C’è stanchezza e sfiducia. È venuta meno la spinta morale dell’emergenza. Sono subentrate la delusione e la rabbia per le decisioni non prese. La capacità di risposta non può essere la stessa di qualche mese fa. E intanto chi soffre di altre patologie resta indietro, come prima ma peggio di prima, partendo da una posizione di svantaggio che non ha ancora recuperato.

Scenario 2: la pandemia non scoppia nuovamente ma prevedibilmente risale il numero dei contagiati e quel numero si somma all’emergenza sociale di cui ho già parlato. E poi arriva anche il periodo dell’epidemia influenzale. La tempesta perfetta. Non c’è nessuna chiamata alle armi. Ancora una volta tutto grava su ospedali e Pronto Soccorso, più poveri di risorse a causa dell’immobilità di oggi, dell’assenza di decisioni strategiche. Sinceramente, credo, lo scenario peggiore di tutti: la somma di vecchie e nuove inadeguatezze. Rassegnata impotenza, si diceva…

Scenario 3: la pandemia sparisce magicamente (ci credete?). Resta l’emergenza sociale e certamente si somma all’epidemia influenzale. Nuova situazione da tregenda. La protesta della Medicina d’Emergenza Urgenza è, come tutti gli inverni, l’unica voce nel silenzio di chi si chiede cosa mai sia cambiato rispetto agli anni scorsi. Ci si attende che comunque ne verremo fuori, come sempre. Non ci si chiede a quale prezzo, per i malati e per gli operatori. Si continua a contare sul sacrificio dei reduci.

Comunque vada, qualunque sarà lo scenario (sbaglierò, ma continuo a pensare che il 2 sia assolutamente il più probabile), l’elemento comune sta nell’inadeguatezza di strutture e sistema, nell’assenza di una progettualità. Il Covid-19 porta con sè un rischio intrinseco, legato alla pandemia. Ma produce anche un secondo, drammatico rischio: essere l’ultimo elemento instabile di una catena già instabile, che può condurre al collasso del sistema.

Non possiamo continuare a nasconderci dietro alla parola “emergenza”. Noi gente di Pronto Soccorso la conosciamo bene: quella parola racchiude il concetto dell’inatteso e dell’improvviso. E siamo abituati a sentirla usare a sproposito: ogni anno l'”emergenza inverno” diviene oggetto di articoli e reportage, come se quel che accade stagionalmente nei Pronto Soccorso non sia ampiamente prevedibile, connaturato a cicli epidemici noti da decenni. Continueremo a sentir usare la parola “emergenza” a sproposito. Il Covid19, passato lo sgomento per i 35.000 morti, verrà trattato come l’annuale epidemia influenzale: vi sembrano parole forti? Guardate alla realtà dei fatti. Cosa c’è di inatteso e improvviso in quel che accadrà?

A pensarci bene, “reduce” è proprio la parola giusta

Un’ultima considerazione, che rafforza la nostra identità di reduci. Ne aveva già parlato Alessandro qui, ne avevamo già parlato nei corsi SAU. Il concetto di “moral injury” è nato per i veterani di Iraq e Afghanistan:

“Eventi potenzialmente lesivi dal punto di vista morale, come perpetrare, non prevenire o essere testimoni di atti che tradiscono aspettative e valori morali profondamente radicati, possono essere deleteri nel lungo termine, da un punto di vista emotivo, psicologico, comportamentale, spirituale e sociale (è questa la lesione morale).”

La lesione morale così intesa si consuma nella sfera personale ma ha conseguenze sul piano collettivo, potremmo dire sociale. Il concetto è stato poi esteso al personale sanitario:

“Il fallimento nella presa in carico delle necessità dei pazienti ha un impatto profondo sul benessere dei sanitari: la pietra angolare della conseguente lesione morale.”

Siamo proprio come i reduci dell’Afghanistan. Questi mesi ne sono la prova: soffriamo di una lesione morale che, oltre a lasciare una cicatrice personale che non scomparirà, segnerà per il futuro l’intero sistema. È la cosa più grave. In fin dei conti, se questa è una guerra, non siamo proprio noi l’armata che dovrebbe combatterla?

Nonostante tutto, guardiamo avanti. Foto di Francesca Mangiatordi
Foto di Francesca Mangiatordi

“In guerra non devi riuscire simpatico. Devi soltanto aver ragione”. Sir Winston Churchill

Post scriptum: un grazie speciale a Francesca Mangiatordi, che ci ha regalato le immagini di questo post. A cominciare dalla sua foto più famosa, divenuta un simbolo mondiale, la storia vera dei reduci si può leggere scorrendo le sue immagini di questi mesi. Che trovo forti, incredibilmente vere e totalmente prive di retorica. Come sempre: la retorica ce la mettono gli altri.

Fabio De Iaco
Fabio De Iaco
In Pronto Soccorso da una vita, fondatore del gruppo SAU, impegnato nella formazione. Appassionato di tanto (forse troppo): analgesia e sedazione, comunicazione, temi etici, organizzazione. Coltiva le sue passioni raccontando storie. Un genovese a Torino, passando per Imperia, dirige il Pronto Soccorso e la Medicina d'Urgenza dell'Ospedale Martini. Su Twitter @fabiodeiaco

10 Commenti

    • Cara Cristina, immagini quanto mi dispiace. Uno dei problemi enormi che abbiamo è proprio questo, oltre alla scarsa attrattività di un lavoro duro, scarsamente considerato e discriminato economicamente rispetto a tanti colleghi: quelli dei nostri che se ne vanno disgustati. E di solito sono i più esperti e bravi. Mi resta il gran piacere di aver lavorato con te per tanto tempo, e con tanta allegria. Con enorme affetto. Un abbraccio

  1. grazie per il post sul quale faccio alcune considerazioni:
    – In Piemonte è stato istituito il “Dipartimento Interaziendale Malattie ed Emergenze Infettive” (D.I.R.M.E.I.) dentro il quale c’è di tutto, ma non ci sono rappresentanti MECAU.
    – La SIMEU, società scientifica che principalmente rappresenta le MeCAU, sull’ argomento, mi sembra un po’ pigra (se non erro l’ultimo documento è dell’ 11 maggio 20)
    – Visto che hai parlato di guerra e di film di guerra. Sulla foto di Francesca Mangiatordi , faccio le stesse considerazioni di Clint Eastwood in “Flags of Our Fathers”

    • Ciao Luigi, scusa il ritardo.
      Primo punto: è la conferma di quanto scritto nel post… ne ho preso atto come te.
      Secondo punto: non credo che questa sia la sede più adatta per discutere di SIMEU ma non voglio sfuggire alla domanda. Qualcuno sa che in SIMEU mi sono impegnato molto, e continuo tuttora, ma non ho mai risparmiato critiche: con tutti i limiti di una Società Scientifica che da tempo cerca con difficoltà la visibilità che meriterebbe a livello istituzionale (non fosse altro che per la rappresentatività che giustamente sottolinei) so di un’attività importante (forse poco visibile, questo sì) nel pieno della pandemia. So anche di commissioni che stanno lavorando e, tutti ci auguriamo, produrranno documenti. Ma so anche di divisioni e difficoltà interne, che certamente non aiutano e che appesantiscono ogni iniziativa. Dovremmo essere tutti più uniti: il problema principale, banalmente, credo sia questo. Ma ripeto, l’argomento è complesso e merita tempi e sedi più adatte.
      Terzo punto: confesso l’ignoranza. Non ho visto il film. Sono curioso di conoscere le considerazioni di Clint Eastwood.
      Naturalmente grazie per il contributo.

  2. Squisito post, scritto da chi sa lavorare e da chi sa scrivere.

    Mi chiedo: possibile che non riusciamo a fare niente ? All’interno della nostre realtà non riusciamo a essere quello sguardo verso il futuro che tanto farebbe del bene ?

    • Davide, come risponderti? È la lotta che portiamo avanti da anni. Continuiamo a provarci. È chiara una cosa: le nostre istanze, per essere realmente ascoltate, richiedono modifiche radicali del Sistema. L’impresa è difficile, per quanto sacrosanta.

  3. Laddove concordo pienamente con le considerazioni su PS, futuro e organizzazione del SSN, mi permetto di dissentire su un unico punto: la metafora bellica non è necessaria. Anzi, è dannosa. Il correlare con la guerra l’evento catastrofico ed inatteso del Covid sparge nebbia sul alcuni eventi di cui faremo bene a tenere memoria. Certo, è stato un periodo eccezionale. Ed è alla sua irripetibile eccezionalità che devo la mia minima ed immeritata fama sul web (ho per primo pubblicato una foto di due persone connesse ad un ventilatore, cosa probabilmente successa migliaia di volte in scenari “tattici”, per usare un eufemismo caro ai militari).
    Però chiamarla guerra giustifica ex post comportamenti irrituali, inadeguati e lesivi da parte di colleghi e superiori.
    Così come l’introduzione della legge marziale permette processi sommari, il considerarsi in guerra ha permesso derive autoritarie che hanno solo aggravato la moral injury del personale. Dai diktat isterici “le mascherine spaventano i pazienti” alle imposizioni muscolari stile “questo è il protocollo terapeutico e va seguito”, l’ambiente “bellico” ha fatto esacerbare le relazioni gerarchiche e fatto credere ai colonnelli Buttiglione di essere il sergente Hartman (citazione cinefila per palati rozzi), con conseguente danno per tutti.
    Non a caso, molti costruttori di pace, (Fredo Olivero, i monaci di Bose) avevano ammonito, in corso di pandemia, a non usare terminologia bellica, affermando che l’esaltazione dell’atmosfera di conflitto avrebbe aperto le porte al dispotismo. Ricordo un bel post dal titolo “non siamo in guerra, siamo in cura!”.
    Tutto questo scritto nell’articolo si spiega benissimo (e senza inficiare ciò che viene detto, che è sacrosanto) senza parlare di battaglie, di fronte, di reduci ma solo, appunto, di cura.
    L’emergenza continua, il sovraffollamento, la subordinazione alle Terapie Intensive (se non a tutto l’Ospedale) sono preesistenti al Covid e, come prevedibile, sopravviveranno a immutate al Covid. La demolizione complice del territorio è avvenuta ben prima del Covid e dopo la pandemia si manifesta semplicemente ancora più aggravata. Il ricorso al Pronto soccorso perché unico ed ultimo asilo rimasto esisteva da tempo e sarà solo un filino più grave.
    La nostra moral injury deriva non dal Covid ma dal sussiego con cui siamo trattati dalle direzioni, dalla meritocrazia azzerata, dal constatare di avere una professionalità di urgentisti e di fatto fare i geriatri o i palliativisti per il 90% del tempo, dal passare per truci eugenetici quindi proponiamo che il malato terminale muoia tra le sue lenzuola e non in un corridoio.
    Non ho visto la guerra in casa, ho aspettato, con una candelina in mano ed un desiderio di pace nel cuore, l’avvio dei conflitti in Iraq e in Jugoslavia. Non riesco ad pensarmi come soldato, recluta, reduce.
    Se devo pensare ad una parola inglese che mi descriva scelgo “civil servant”.
    Servant, perché sono lì per gli altri, nei termini e per i compiti stabiliti. Civil, perché comunque esigo il rispetto delle regole, da parte di tutti. E se sbaglio, non mi deve attendere il plotone di esecuzione.
    Con grande stima,
    Marco.

    • Caro Marco. Concordo pienamente con quanto hai scritto. All’inizio del post lo dico: adattiamoci a un lessico che non ci appartiene. Il mio è solo un artificio, il tentativo di spiegare le cose adeguandomi al livello e alle categorie mentali di chi dovrebbe davvero leggere (non “i nostri”, che già sanno tutto, ma gli altri, quelli che dovrebbero decidere e aiutarci).
      È la stessa cosa di quando usavo la parola “eroi” rifiutando al contempo quella definizione.
      Ma, ripeto, concordo con tutto quanto hai scritto.
      E grazie per il contributo prezioso.

      • Ho letto con interesse il post di cui condivido diversi passaggi e trovo largamente condivisibile l’osservazione di Marco; l’uso di un lessico appartenente ad un’altra area semantica apre le porte anche al passaggio dei significati di quell’altra area (lo usiamo un sacco in docenza, se ci pensi, per “cavarcela” con metafore e parallelismi quando magari la relazione causa-effetto della pura fisica sfugge a noi o al discente). In questo caso però il parallelo non ha aiutato a costruire una competenza, ma ha contribuito a dare un senso ed una identità a chi, investito dalla pandemia e dalle sue conseguenza, ha visto mutare senza possibilità di controllo sia il senso di quel che stava facendo sia l’identità entro la quale lo faceva. Il senso è cambiato profondamente quando ci è stato detto di fermare gli infetti al triage, di prepararci a visitare malati vestiti in tute mai usate prima, a fronteggiare una sola malattia prevalente, a smettere di parlare di persona ai parenti, ad adottare eventualmente criteri di razionamento per l’accesso alle risorse intensive. L’identità ha subito spostamenti tanto da dentro quanto da fuori, basti pensare non solo ai vari eccessi dei termini “eroi” e “assassini”, ma anche agli spostamenti coatti da un reparto ad un altro, alla chiusura e riconversione delle sale operatorie e di altri interi reparti di degenza. Il caos mediatico ha poi acuito l’intensità di questo processo già sufficientemente complesso.
        Da un certo punto di vista è facile cogliere delle analogie con il contesto bellico (anzi, tattico), ma questo non significa di per sé che mutuarne il lessico (e i significati) sia stata una buona idea, semmai segnala che ci sono mancate le parole (e quindi i pensieri) per denominare quanto stava e ci stava accadendo.
        Ricordo che a marzo avevo condiviso una riflessione con dei colleghi circa il fatto che noi rianimatori eravamo stati molto brevemente e molto teoricamente preparati a far parte di una maxi-emergenza, ma che nessuno si era mai sognato di illustrare e diffondere un piano di risposta per una maxi-emergenza di durata indefinita e su scala internazionale. Bene, sicuramente tante mancanze del nostro sistema sia educativo che organizzativo sono state messe a nudo ed ora non ci sono più scuse per non correre ai ripari, ma è altrettanto chiaro che questo tipo di risposta tutto è tranne che militare. Non per questo non richiede disciplina, non per questo non richiede un alto livello di coordinamento, non per questo non richiede un alto livello di adattabilità. Si tratta, però, di una risposta civile ad un complesso problema civile.
        Con stima per entrambi,
        Enrico

  4. Ultime ore dei miei soli 4 giorni di ferie in questi ultimi 23 mesi
    – Il concetto di Emergenza legato al COVID, si è venuto a sommare all’emergenza cronica (dichiarata già a molti di voi) in cui versava il mio PS dovuto a carenza di personale, di infrastrutture e di strumentazioni –
    PER TRE MESI ho diviso la Medicina d’Urgenza in due Reparti il preCOVID semi intensiva e il Non Covid con personale infermieristico ed OSS dedicato ma solo con me ed un altro dirigente medico sottoposti a turni massacranti da tutti i punti di vista , tale lavoro sembrato a TUTTI NATURALE e ch venisse svolto dal solo personale MeCAU è stato poi prontamemte dimenticato ,si è deciso con l’estate di chiudere,accusando me ed il personale dedicato al preCOVID quali untori e poi quali causa di un mancato decollo delle attività assistenziali del Nosocomio e non curanti dell’epidemiologia si è chiuso !!
    Io, come Fabio e tutti voi ,non mi sono mai rilassata, perchè -era evidente- CHE NON SI POTEVA cantare ancora vittoria !,
    Lo scenario 2 si stà già palesando specialmente per i COVID asintomatici e chiaramente l’organizzazione di un percorso è un’altra volta rimessa al responsabile della MeCau (me) che si sobbarcherà con tutto il personale del PS, e con le stesse esigue risorse, e adesso ,anche degli spazi , ad effettuare
    doppio triage,test rapidi a tutti ,tamponi ai pauci-sintomatici,assistenza ai pazienti in isolamento,assistenza in OBI, e poi Codice Rosso dei sospetti e non,codici gialli ,verdi e bianchi e ricerca dei posti letto per i ricoveri tremando per ripettare il distanziamento!
    MI MANCA LA SIMEU come manca un pò a tutti , io ,forse come molti di voi,mi sento CONGELATA ed INCAZZATA,si INCAZZATA con tutti i colleghi non in prima linea e le Direzioni che hanno pensato che il COVID come loro, avesse bisogno di andare ad Agosto in vacanza e ci sono andati , invece di approfittare per effettuare modifiche e organizzare percorsi e NON SOLO sulla carta!
    Stolti ed irresponsabili prima loro, e poi tutti coloro che non sono del settore!
    SE NE USCIAMO VIVI (è chiaramente un modo di dire anche per esorcizzare la paura di morire che abbiamo avuto e penso abbiamo ancora noi in prima linea) dovete promettere ,anzi DOBBIAMO prometterci
    1) DIGNITA’ per chi lavora in Emergenza facendo comprendere che l’intensità del lavoro in Urgenza NON E’ qualcosa di normale ma e’ SPECIALE ed ECCEZIONALE e DEVE passare anche per un riconoscimento ECONOMICO;di INDENNITA’ ; e PENSIONISTICO adeguatì !
    2) CHE in tutti i Pronto Soccorso si debba tutelare la SICUREZZA degli operatori e degli utenti e che essa passa anche da requisiti minimi strutturali e strumentali DA RISPETTARE pena la chiusura dello stesso
    Teniamoci stretti ed in contatto ,sempre!
    Vi ringrazio e specialmente Fabio, per avermi dato il là per buttare giù anche se confusi ma molto molto amari report e concetti di una Incazzata Responsabile ( in attesa da 12 mesi del concorso ) di un Pronto Soccorso cittadino che soffre per la scarsa attenzione da parte delle Direzioni
    e mi fermo qui !
    Buon lavoro a tutti

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