L’argomento è di quelli trattati spesso su EMpills.com e non potrebbe essere altrimenti, vista la frequenza con cui si presenta nella nostra pratica quotidiana (basti pensare che rappresenta il motivo di accesso del 9% dei pazienti di Pronto Soccorso secondo una rilevazione del CDC di Atlanta).
Oggi abbiamo strategie e strumenti che ci permettono di escludere con buona probabilità la presenza di un infarto in atto nell’arco di alcune ore. Spesso però è difficile individuare i pazienti per i quali, superato questo primo scoglio, sono comunque indicati ulteriori accertamenti dopo la dimissione dal Pronto Soccorso nè vi è accordo rispetto a quali test ricorrere. Lo spunto per discutere di questo argomento ci viene offerto da uno studio pubblicato recentemente su JAMA Internal Medicine (1).
Lo studio
Si tratta di un lavoro osservazionale retrospettivo basato su dati amministrativi. Da un ampio database assicurativo americano (contenente i dati di 58 milioni di pazienti residenti in 50 stati), sono stati estratti i dati riguardanti gli accessi di Pronto Soccorso per i quali vi era una diagnosi principale o secondaria di dolore toracico. La coorte ottenuta è stata suddivisa in due gruppi: nel primo vi erano i soggeti sottoposti ad un test di provocativo o ad angio-TC coronarica entro i primi 7 giorni dalla dimissione dal PS, nel secondo quelli a cui tali esami non sono stati prescritti. Da entrambe i gruppi sono stati esclusi i pazienti che presentavano una diagnosi di infarto miocardico o una procedura di rivascolarizzazione percutanea o cardiochirurgia entro le prime 24 ore dalla visita in DEA. Dal secondo sono state scartate anche le cartelle di chi aveva ricevuto una diagnosi alternativa rispetto a quella coronarica (polmonite, dissezione aortica, pericardite, patologia vascolare polmonare).
I risultati
A partire da una popolazione iniziale di circa 7,5 milioni di accessi in PS, sono stati confrontati i dati di 127.986 pazienti sottoposti a test provocativo entro 7 giorni e di 293.788 controlli. I primi erano più anziani, più frequentemente uomini e presentavano una maggiore prevalenza di diabete mellito, ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia e coronaropatia nota rispetto a chi non veniva sottoposto ad alcun test. Essendo questi parametri anamnestici potenziali fattori di rischio per la presenza di cardiopatia ischemica, gli Autori hanno operato una correzione dei risultati per mezzo di un’analisi multivariata, rendendo i due gruppi confrontabili.
Tabella 1. I risultati dello studio.
Come si può vedere i pazienti sottoposti a test provocativo andavano più frequentemente incontro ad una procedura di rivascolarizzazione. Di contro, il rischio di infarto miocardico, sia precoce che a distanza, era lo stesso, a prescindere dalla strategia diagnostica intrapresa, confermando quanto già dimostrato nel 2014 da Safavi e colleghi (2).
Limiti dello studio
Vi sono quattro limiti fondamentali a questo lavoro:
- non è stato impiegato come outcome principale la mortalità, la quale non è registrata nel database interrogato dagli Autori. La prevalenza degli outcome presi in considerazione, in particolare la rivascolarizzazione, potrebbero dipendere dalle variazioni nelle procedure diagnostiche e terapeutiche nei vari Stati americani (2).
- In secondo luogo, i pazienti dei due gruppi di confronto era decisamente diversi e non si può escludere che vi fossero differenze anche a carico di ulteriori confondenti che, non presi in considerazione nell’analisi multivariata, potrebbero aver influenzato la decisione di sottoporre o meno il singolo paziente a test provocativo (per esempio, le caratteristiche del dolore toracico).
- Trattandosi di dati di popolazione, vanno applicati con cautela ai singoli pazienti.
- Infine, questo disegno di studio non esclude del tutto la possibilità che il maggior numero di procedure endo-vascolari registrato nel gruppo di pazienti sottoposto a test provocativo non abbia contribuito a prevenire qualche episodio successivo di sindrome coronarica acuta.
Il rischio di infarto miocardico dopo la dimissione
Il primo pensiero, rassicurante, che mi è venuto in mente leggendo questo lavoro riguarda la bassa incidenza di ricovero per infarto, pari allo 0,11% nei pazienti sottoposti a test provocativo e allo 0,33% nei controlli. Diversamente da quanto sostenuto dall’Autore dell’editoriale allegato (link), non penso che questi risultati mettano del tutto in discussione l’utilità dei test provocativi nel follow up dei pazienti con dolore toracico in Pronto Soccorso. Piuttosto dovrebbero spingere a individuare strumenti clinici (leggi clinical score) che permettano di individuare in modo accurato i soggetti più a rischio di eventi avversi.
Quale test usare? Forse l’ecocardiogramma da sforzo.
Seguendo la logica alla base dello studio, secondo cui il ricorso a ulteriori test diagnostici non riduce il rischio di infarto miocardico, l’esame più appropriato, se si ritiene necessario prescriverne uno, è quello che determina il minor ricorso a coronarografia, ovvero proprio l’ecocardiogramma da sforzo (stress echocardiography, SE). In base ai dati riportati, la SE aumenta la probabilità di essere sottoposti a coronarografia del 10% entro 7 giorni rispetto ai controlli mentre il test ergometrico del 63%. Ciò conferma la tendenza dell’esame a creare falsi positivi, aspetto di cui abbiamo già parlato sul blog in passato (qui e qui) e confermato (3) ancora di recente. In questa prospettiva, scintigrafia miocardica da sforzo e angio-TC coronarica vanno anche peggio.
Anche un lavoro pubblicato da Innocenti e colleghi nel 2013 suggerisce la validità del SE in questo contesto. Si tratta di uno studio osservazionale che ha arruolato pazienti con dolore toracico in Pronto Soccorso, per 398 dei quali erano disponibili i dati di follow up a 2 anni. Nei 2 anni successivi l’arruolamento, dei 266 pazienti con test negativo 4 sono andati incontro a un episodio di sindrome coronarica acuta (dunque l’1,5%) e in 3 è stata riscontrata una stenosi coronarica significativa alla coronarografia (1,1%). Un ottimo risultato se si tiene conto che la popolazione era discretamente anziana e con una prevalenza di fattori di rischio cardiovascolari quali ipertensione arteriosa, dislipidemia e coronaropatia piuttosto elevate. Il grande limite, soprattutto dalle nostre parti, è la scarsa disponibilità dell’esame e i suoi maggiori costi rispetto al test ergometrico, i quali però potrebbero essere mitigati dal minor ricorso alla coronarografia.
Bibliografia
1. Foy AJ, Liu G, Davidson WR, Jr, Sciamanna C, Leslie DL. Comparative effectiveness of diagnostic test strategies in Emergency Department patients with chest pain. An analysis of downstream testing, interventions, and outcomes. JAMA Intern Med 2015; 175 (3): 428-436. Link
2. Safavi KC, Li S-X, Dharmarajan K, Venkatesh AK, Strait KM, Lin H, Lowe TJ, Fazel R, Nallamothu BK, Krumholz HM. Hospital variation in the use of noninvasive cardiac imaging and its association with downstream testing, interventions, and outcomes. JAMA Internal Med 2014; 174 (4): 546-553. Link
3. Poldervaart JM, Six AJ, Backus BE et al. The predictive value of the exercise ECG for major adverse cardiac events in patients who presented with chest pain in the emergency department. Clin Res Cardiol 2013; 102: 305 – 312. Link