Siamo in area verde, ultimamente spesso rinominata “medio-bassa intensità”.
Ossia un coacervo di sintomi sfumati, patologie croniche, pazienti che non riescono a prenotare un esame al CUP o non vogliono pagarlo, patologie subdole potenzialmente mortali.
E soprattutto un gran numero di pazienti. Tanti pazienti che non possono permanere troppo a lungo in pronto soccorso, pena il sovraffollamento. Il nostro ruolo è allocare in modo razionale le risorse umane e diagnostiche, per non rallentare la gestione dei pazienti critici.
Dal nostro punto di vista il protagonista è ovviamente il medico di pronto soccorso. Riferimento, bersaglio e speranza dei pazienti. Medico che non gestisce un malato alla volta, ma “cura” un’ambiente più o meno affollato di persone bisognose di cure e percorsi. Pazienti che talvolta si considerano unici e bisognosi di tutte le attenzioni.
Su tutto questo scenario aleggia lo spettro della responsabilità professionale e ovviamente della medicina difensiva.
La medicina non è una scienza esatta: ogni paziente è diverso e ovviamente la statistica gioca a nostro sfavore. Se visitiamo 25 pazienti in 12 ore sono 250 in 10 turni. 1000 in 40. Prima o poi il caso aneddotico, l’imprevisto o l’errore di valutazione capitano.
II caso aneddotico può turbarci, spaventarci, rovinarci la vita.
Ma non dovrebbe cambiare il nostro modo di lavorare.
A complicare lo scenario il sempre più frequente ricorso al pronto soccorso per gli anziani ultranovantenni. Pluripatologici, dove spesso non si sa con precisione quanto la famiglia accetti la malattia e la sua possibile evoluzione. Anziani che sempre più spesso muoiono soli in ospedale, perché la morte è ormai un evento medico, una patologia. E se avviene nel focolare domestico accanto ai familiari è oramai percepita come una forma di malasanità..
Pazienti ultranovantenni che per pura statistica hanno una probabilità di morire nei giorni seguenti l’accesso in pronto soccorso. Così come dopo essere stati al supermercato, alle poste o in chiesa. Ma ovviamente se questo accade dopo l’accesso in PS il presunto responsabile è il medico d’urgenza.
Evitare la medicina difensiva senza immolarsi
Questo è il lavoro che abbiamo scelto e amiamo. Ma il difficile equilibrio è tutelarsi senza scadere nella medicina difensiva: fare tutto a tutti, non dimettere nessuno e riempire il collega di consegne sarebbe la morte della medicina d’urgenza.
Un principio che dovremmo accettare è che se un paziente rientra in pronto soccorso non vuol dire che sia stato commesso un errore. Le situazioni cliniche sono spesso sfumate e dall’evoluzione incerta. Un conto è morire poche ore dopo la dimissione con un nesso causale, un conto rientrare in pronto soccorso tre giorni dopo per un peggioramento.
“Torna in pronto soccorso se..”
Un modo per tutelarsi e garantire un adeguato iter diagnostico-terapeutico al paziente è indicare chiaramente tra le note i motivi per cui tornare in pronto soccorso, spiegandoli bene al paziente e facendogli firmare la presa visione del verbale.
Insieme alla mitica frase “si riaffida al curante”..
Vediamo alcuni casi clinici, inventati ma verosimili.
Colica renale
Un ragazzo di 30 anni viene in pronto soccorso per dolore al fianco sn. Apiretico, pcr negativa, creatinina nella norma. All’ecografia presenta un idronefrosi di I grado. Con 10 mg di ketorolac il dolore svanisce. Lo dimettiamo.
Dopo 3 giorni torna con febbre con brivido. Agli esami pcr e pct alterati. Esegue una tc dell’addome dimostrante una formazione litiasica di 4 mm al terzo distale dell’uretere.
C’è stato un errore al primo ingresso in pronto soccorso? Avremmo dovuto trattenere il paziente? Eseguire sin da subito una TC?
Le nostre indicazioni alla dimissione in ogni caso erano precise. Torna in pronto soccorso se:
- febbre
- persistenza del dolore
- vomito
- peggioramento delle condizioni generali
Trauma cranico
Il trauma cranico è forse il capostipite del “torna se..”!
Considerando che in gran parte dei pronto soccorso vengono rilasciate le classiche istruzioni.
Un 72enne cade accidentalmente in casa a causa di un pavimento bagnato. Giunge con una ferita occipitale, che viene suturata, e un sensorio integro.
Assume la cardioaspirina.
Da protocollo interno eseguiamo una tc encefalo al tempo zero, negativa per sanguinamenti, e una seconda a 24 ore, anch’essa negativa.
Dimettiamo il paziente con le nostre istruzioni precompilate: torna in caso di nausea e vomito, cefalea, convulsioni, alterazioni del sensorio o del comportamento.
Dopo 24 ore il paziente torna per cefalea e un episodio di vomito.. Sensorio sempre integro. Ripetiamo la TC encefalo che risulta nuovamente negativa.
Polmonite
Una paziente di 78 anni giunge per febbre e tosse. Superato il “percorso protetto” covid, con tampone negativo, diagnostichiamo un focolaio pnuemonico basale dx.
L’emogasanalisi mostra una pO2 di 72 mmHg, la paziente è lievemente disidratata, l’antigene urinario della Legionella è negativo.
Siamo tentati di utilizzare gli score CURB-65 e PORT SCORE, ma c’è un grave sovraffollamento e l’intuito ci suggerisce che un tentativo di gestione a domicilio è prudente e da percorrere.
Iniziamo la terapia in pronto soccorso ma la dimettiamo con terapia antibiotica amoxicillina-acido clavulanico + claritromicina.
Torna se..: – peggioramento delle condizioni generali – persistenza di febbre >38°C dopo 48 ore di terapia – saturazione di ossigeno inferiore a 94%
Un’epistassi a evoluzione imprevedibile
Un paziente di 30 anni giunge per epistassi dalla narice dx. Non assume farmaci, nega traumi. I parametri vitali sono nella norma, senza sintomi associati né sanguinamenti da altre sedi. Non vengono eseguiti esami ematici.
Viene posizionato un tampone e dimesso in pochi minuti con indicazione ad eseguire visita otorinolaringoiatrica in caso di nuovi episodi di sanguinamento.
Dopo 48 ore torna con emottisi, ematemesi e melena.. in shock emorragico.
Diagnosi: leucemia promielocitica, la cosiddetta “leucemia fulminante”.
Errori? Sottovalutazioni? Approccio sbrigativo? Ma quanti pazienti visitiamo con l’epistassi dove tutto si risolve facilmente?
Morire tra le mura di casa
Paziente di 35 anni, melanoma metastatico. Hospice domiciliare in corso di attivazione.
Giunge per dolore incoercibile, insonnia, fame d’aria, stato di agitazione. La cachessia è galoppante. L’addome è disteso per un abbondante versamento ascitico, che dreniamo.
A domicilio assumere oramorph 8 gocce ogni 4 ore.
Lo trattiamo con paracetamolo 1 grammo ev, 20 mg di morfina ev, una fiala di diazepam.
Parlando con il paziente e i familiari si palesa il desiderio, da noi condiviso, di rientrare a domicilio, considerando pure l’imminente attivazione dell’hospice domiciliare.
Aumentiamo la posologia dell’oramoprh a 16 gocce ogni 4 ore, aggiungiamo il paracetamolo 1 grammo tre volte al giorno, le gocce di diazepam, il buscopan per le secrezioni in eccesso.
Torna se? L’obiettivo è cercare di tenerlo in un’ambiente familiare, sperando nell’imminente attivazione dell’hospice domiciliare. E vista la situazione drammatica, non vediamo particolari rischi medico-legali.
Nel diario specifichiamo il nostro dialogo con il paziente, dove è emersa la strada del tentativo di gestione a domicilio.
Dopo 48 ore il paziente torna in condizioni generali pietose. Purtroppo l’hospice domiciliare non è stato ancora attivato. Dopo 2 giorni muore in ospedale, la notte, da solo.
Grazie mille per questa “pillola”, in questo momento graditissima. Aggiungo tuttavia, anche se so che non è nostra competenza, che il problema andrebbe trattato alla radice, ossia risolvendo il sovraffollamento. Come fare, poi, è tutto un altro paio di maniche…
Grazie mille Tommaso per questo post splendido