Questo lo scenario: una donna di 85 anni si reca in pronto soccorso a causa di un trauma cranio facciale occasionale. Dalla sua storia clinica emerge ipertensione ed una recente PTCA conseguente ad un NSTEMI per cui erano stati posizionati due stents medicati ed inziata, tra l’altro, una terapia antiaggregante con Clopidogrel.
La paziente è lucida e collaborante, ricorda perfettamente l’accaduto e sono passate circa 6 ore dal trauma. L’esame obiettivo e i paramentri vitali non evidenziano nulla di rilevante. Esegue una TC che dimostra solo una lieve infrazione delle ossa nasali ritenuta non chirurgica. Viene quindi dimessa con foglio di istruzione scritta sul trauma cranico e antidolorifici.
Passano 3 giorni, la paziente è caduta di nuovo, questa volta in modo serio. E’ confusa e disartrica e la tac dimostra un cospicuo sanguinamento intracranico. Nel giro di poco la paziente diventa comatosa. Venie sentito il neurochirurgo che non pone indicazioni chirurgiche.
A qualcuno viene in mente di aver letto che in una situazione come questa si potrebbero utilizzare trasfusioni di piastrine. Esiste però un razionale o meglio un’evidenza di un tale approccio?
Ma facciamo un passo indietro.
I pazienti in terapia con antiaggreganti sono veramente a rischio quando subiscono un trauma e di conseguenza devono esser sottoposti a TC?
La risposta sembrerebbe affermativa anche se, per quella che è la mia esperienza e per quello che vale, gli esami neuroradiologici non vengono eseguiti così spesso in questi pazienti.
Uno studio pubblicato su Journal of Trauma nel 2005 evidenziava un aumento di mortalità in pazienti con più di 50 anni che erano stati colpiti da un’ emorragia intracranica conseguente ad un trauma soprattutto se con una GCS>12 e un’età superiore a 76 anni.. Uno studio successivo pubblicato sempre su Journal of Trauma nel 2008 sostanzialmente confermava questi dati
Sappiamo che negli ultimi tempi molte cose sono cambiate nell’approccio al trauma; e che molti condividono quello che viene chiamato Massive Transfusion Protocol che implica un atteggiamento trasfusionale aggressivo che prevede l’utilizzo di emazie, plasma ,piastrine e /o crioprecipitati .Questo orientamento in parte deriva da studi sulla medicina militare: la cosidetta walking blood bank . In questo tipo di approccio il sangue intero di un militare veniva prelevato ed immediatamente trasfuso nel militare ferito, la cui compatibilità per il sistema ABO ed Rh era stata preventivamente testata, con un netta riduzione della mortalità..
Lo scopo di questo trattamento è quello di contrastare la coagulopatia,, uno degli elementi della triade letale nel trauma. Del resto il dare piastrine nel tentativo di arrestare o contrastare l’emorragia in un paziente in cui le piastrine non funzionano a causa dei farmaci ha un suo razionale.
Ma nella pratica funziona?
Cominciamo col dire che non ci sono molti studi.
Nei pazienti con trauma cranico lieve con GCS>13, non sembra essere di aiuto come evidenziato in un recente studio sempre su Journal of Trauma pubblicato quest’anno. Ad analoghe conclusioni giungeva un precedente lavoro pubblicato su Am Surg nel 2009 : nessuna riduzione della mortalità.
Il problema rimane aperto, anche se è opinione di esperti e tra questi Scott Weingart del Mount Sinai che nei pazienti con grave emorragia post trauma in terapia antiaggregante la trasfusione piastrinica possa avere un suo ruolo. Nell’attesa di ulteriori studi sarebbe utile che ogni istituzione provvedesse a stilare un modello di comportamento condiviso per far fronte a situazioni che non hanno al momento avuto risposte definitive dalla medicina basata sull’evidenza.
Neurologi, neurochirurghi, ematologi , medici del trauma a voi la parola….