L’uso dell’acceso intraosseo, un tempo limitato all’età pediatrica, si sta diffondendo sempre di più, almeno negli Stati Uniti, anche nell’adulto.
Attraverso di esso non solo è possibile infondere liquidi ma anche eseguire esami del sangue come recentemente pubblicato su: The Trauma Professional’s Blog, rendendolo un dispositivo potenzialmente molto utile nel campo dell’emergenza proprio per la praticità e rapidità di inserimento.
Per valutare la sua efficacia contro la metodica standard dell’accesso vascolare, la via venosa, è stato condotto uno studio randomizzato che verrà pubblicato il prossimo mese sugli Annals of Emergency Medicine che ha messo a confronto le due metodiche nell’arresto cardiaco in sede extraospedaliera. Vediamo quali sono stati i risultati.
Lo studio condotto negli Stati Uniti aveva come outcome primario la percentuale di successo nell’ accesso vascolare, al primo tentativo, in pazienti con arresto cardiaco non traumatico occorso fuori dall’ospedale. Sono stati così randomizzati l’accesso intraosseo omerale, tibiale e endovenoso. La dislocazione dell’accesso vascolare veniva considerata come fallimento della procedura.
182 pazienti con caratteristiche demografiche simili sono stati inclusi nello studio; la percentuale complessiva di successo al primo tentativo è stata del 62% ( 71% al primo tentativo ma 9% di dislocazioni). L’accesso intraosseo tibiale è stato quello con la maggior percentuale di successo, 91%, ed anche minoir tempo di applicazione rispetto alle altre due tipologie di accesso vascolare. L’accesso venoso, come intuibile, è stato invece in grado di fornire un volume maggiore di fluidi rispetto alla via intraossea, ma la percentuale di successo era piuttosto bassa solo il 43%. La via “omerale” era quella gravata dal maggior numero di dislocazioni: 20%, anche questo risultato mi sembra piuttosto scontato considerando la sede anatomica.
Lo studio ha, per stessa ammissione degli autori, alcune limitazioni : la più importante è che non sono stati presi in considerazione outcomes ben più rilevanti che non la percentuale di successo o la rapidita nell’accesso vascolar, quali la morbididtà ne la mortalita.
Alcune considerazioni poi credo siano d’obbligo.
Pur non avendo che una limitata e ormai lontana nel tempo esperienza diretta, una percentuale di accesso venoso al I tentativo mi sembra abbastanza povera rispetto a quanto vediamo fare tutti i giorni dagli infermieri in DEA.
La seconda , non meno importante, è rappresentata dai costi sicuramente più elevati per l’acceso intraosseo
Last but not least: che dire del fatto che ci sono dati in letteratura che se confermati ci indurranno a non usare per niente l’accesso vascolare nell’arresto cardiaco non traumatico? Si veda a questo proposito il post Niente più adrenalina nell’arresto cardiaco?
Mi aspetto numerosi commenti soprattutto da chi opera sul territorio
La verità sta sempre nel mezzo, giusto?
Io dico che potrebbe non essere male avere a disposizione un dispositivo da intraossea nell’extraospedaliero…specie in quelle realtà con pochi medici ma macchine “infermierizzate”.
Ormai l’infermiere ha competenze che gli permettono di seguire i protocolli ACLS senza grossi problemi…ma chiaramente non riuscire a reperire un accesso venoso, magari con un medico distante più di 20 minuti, potrebbe essere un problema. E allora (sempre dato per scontato che l’adrenalina sia ancora “cosa buona e giusta”) l’intraossea potrebbe rivelarsi davvero utile. Con la giusta formazione e i giusti protocolli…potrebbe non essere una scelta azzardata, anzi!
Marco,
grazie delle tue osservazioni che condivido pienamente