Questo post voleva nascere come un semplice commento al post precedente di Carlo sull’idratazione nel fine vita. Vista la lunghezza del risultato (noi palliatori – o palliativisti, non ho ancora capito come ci dobbiamo chiamare – siamo famosi per NON essere di poche parole) si è deciso di fare un post a parte.
E’ molto frequente che un paziente in end life, spesso non ancora seguito per diversi motivi da un servizio territoriale di cure palliative, finisca in DEA negli ultimi giorni della propria vita. Spesso la causa scatenante che provoca la chiamata al 118 è legata ad ansie del familiare non preparato a ciò che può capitare nella fase di fine vita, più che a veri e propri sintomi del paziente.
Tra queste ansie una delle più comuni è la paura che il paziente, diventato soporoso e disfagico, possa morire di fame o di sete: “L’abbiamo portato in pronto soccorso perché’ non riusciva più neanche a bere un po’ d’acqua”…
Per quanto riguarda l’idratazione nel fine vita, come la maggior parte delle questioni in cure palliative, non esiste una risposta o una indicazione univoca, ma una serie di variabili che vanno valutate di volta in volta in equipe discutendo ogni passaggio con paziente e familiari/caregiver.
Innanzitutto dal punto di vista prognostico tendiamo a definire come “end of life” gli ultimi quindici giorni attesi di vita residua, e questo apre già il problema della stima prognostica che però lascerei per un post futuro…
Normalmente il paziente in End of Life (#EoL) è soporoso, fa fatica ad assumere terapia per os (assume al massimo liquidi a piccoli sorsi) ed è allettato. Questi sono anche i criteri per l’inserimento del paziente in LCP (Liverpool Care Pathway for the dying patient, una checklist pensata per il paziente in end of life in Medicina Interna, ancora in fase embrionale in Italia, già superato per problemi legati ad una applicazione troppo “diretta” e con scarsa comunicazione in UK).
E’ assodato che in pazienti con prognosi inferiori ai quindici giorni l’interruzione dell’idratazione non affretta la morte, quindi da un punto di vista strettamente terapeutico, l’idratazione artificiale in end of life rappresenta una pratica quantomeno non necessaria.
In un quadro di end life l’idratazione andrebbe valutata e discussa nell’ottica non di allungamento o accorciamento della vita, ma in quella di strumento per risolvere o prevenire sintomi disturbanti per il paziente.
Uno stato di disidratazione va a influire ovviamente sullo stato di sedazione del paziente attraverso tre meccanismi principali: ipercalcemia, insufficienza renale prerenale e accumulo di oppioidi.
E’ però molto più frequente nel paziente in end of life un peggioramento dello stato di coscienza per cause legate alla malattia di fondo (cachessia neoplastica, localizzazioni di malattia a livello cerebrale…).
Nel caso in cui ci siano difficoltà nell’individuare la causa, un’idratazione ex adiuvantibus (in assenza di altri mezzi diagnostici) può essere utile, rivalutando la situazione quotidianamente (o anche più frequentemente nelle ultime ore di vita).
Altro beneficio di un’idratazione di minima può essere quello di facilitare l’assorbimento dei farmaci per via sottocutanea, in assenza di accessi ev ed in presenza di grave cachessia.
C’e’ da prendere in considerazione anche il fatto che uno stato di disidratazione può avere un effetto di controllo su agitazione e delirium spesso presenti in questa fase di malattia. E’ chiaro che il parametro della vigilanza è molto soggettivo e varia – e quindi andrebbe modulato e discusso – a seconda dei desideri del paziente.
E’ inoltre dimostrata una associazione tra stato di disidratazione e rilascio di endorfine endogene.
I sintomi comunque più frequenti nell’End of Life sono invece quelli da sovraccarico di liquidi (ad esempio le secrezioni delle alte vie aeree, il cosiddetto “rantolo terminale”, per citarne uno), poiché in questa fase di malattia il malato presenta proprio tutte quelle caratteristiche (ipotensione, scarsa perfusione degli arti, diminuito livello di coscienza, oligo-anuria, insufficienza renale, scompenso cardiaco, sanguinamento attivo, ematuria, ematomi, ecchimosi o petecchie) che Bruera nel suo studio pone come criteri di esclusione…
L’idratazione forzata andrebbe sempre quindi evitata in pazienti con segni o sintomi da eccesso di liquidi (preedema polmonare o, molto frequenti, secrezioni delle alte vie aeree spesso disturbanti più i familiari che il paziente stesso), ma anche in assenza di accessi venosi (non è etico né tantomeno ragionevole pungere dieci volte un paziente in end life per trovare una venuzza e obbligarlo a posizioni forzate da contorsionista per “non perdere la vena”, per non parlare dei CVC posizionati negli ultimi due giorni di vita…), oppure in pazienti che hanno espressamente rifiutato l’idratazione.
La via ideale sarebbe quella ev, ovviamente se già in presenza di accessi stabili, altrimenti la via sottocutanea (ipodermoclisi) è più che sufficiente a garantire un’idratazione nell’EoL. L’accortezza è quella di non superare i 1000 cc /die (500 cc per singolo sito di ipodermoclisi), utilizzando esclusivamente Soluzione Fisiologica o Soluzione Glucosata 5%. Spesso però già con solo 500 cc in ipodermoclisi l’assorbimento sottocutaneo può essere molto lento e quindi si possono avere raccolte di liquidi nelle sedi di infusione che possono risultare fastidiose o più spesso ansiogene per i pazienti e i familiari/caregiver.
Nel prescrivere un’idratazione artificiale andrebbe anche valutato il parametro diuresi. Se il paziente è già portatore di catetere vescicale, il problema è relativo, ma se il CV è stato rifiutato o non è possibile posizionarlo, “assecondare” una diuresi ridotta può essere un vantaggio in pazienti con forte dolore procedurale per manovre di nursing ripetute o a rischio di globo vescicale e conseguente delirium. In questo ambito il punto di vista infermieristico diventa fondamentale, e questo ci riporta all’importanza della discussione e condivisione delle decisioni in equipe.
Anche la sola richiesta “Ma non gli fate nemmeno una flebo? Lo lasciate morire di sete?”, comunissima in pazienti e famiglie appena entrati in un percorso di palliazione, può essere ragione sufficiente a iniziare un’idratazione in assenza di controindicazioni, con l’obiettivo di calmare un’ansia dei familiari che può andare a slatentizzare o peggiorare un eventuale delirium del paziente.
Importante, anche qui nell’ottica di sedare ansie di paziente e familiari, chiarire la differenza tra stato di disidratazione e sintomo sete.
Nell’EoL il paziente cosciente lamenterà xerostomia legata spesso a mucosite o micosi, respiro a bocca aperta, O2 terapia, utilizzo di farmaci anticolinergici. Nella maggior parte dei casi una buona igiene del cavo orale limita il problema della xerostomia. Se nonostante tutto ciò il paziente riferisce il sintomo sete, e questo accade molto raramente, si può passare ad un’idratazione artificiale.
La possibilità per il paziente di essere idratato ad libitum per os andrebbe mantenuta finché possibile, preferendo ghiaccioli, granite e gelati (ottimi per la cura del cavo orale) fino a una semplice garza bagnata per umettare le labbra elle ultime ore. Questa pratica ha un’importantissima funzione accessoria di coinvolgere il familiare/caregiver nel processo assistenziale, sedando anche la sua ansia innata legata alla paura che il paziente “muoia di sete”. Anche questo processo va comunque rivalutato di volta in volta per evitare che nelle ultime ore di vita, in presenza di disfagia completa, anche piccole quantità di liquidi per os possano portare ad un peggioramento delle secrezioni/ristagno di liquidi a livello tracheale e relativa sintomatologia.
Considerazioni Personali
Alla fine di tutto questo discorsone, la risposta alla domanda “idratare sì o no?” è, come in quasi tutte le domande in cure palliative, “forse”…
Nella pratica quotidiana la stragrande maggioranza dei pazienti che abbiamo in carico sia in hospice sia al domicilio negli ultimi giorni di vita finisce per avere in terapia un’idratazione di 500 cc ev o in ipodermoclisi.
Specialmente al domicilio, dove la “tenuta” del caregiver/familiare è fondamentale per evitare passaggi in DEA nelle ultime ore di vita, la presenza di una “flebo” è di enorme aiuto al caregiver, già sotto un’enorme quantità di stress dopo assistenze che spesso durano mesi.
Altro “beneficio collaterale” dell’idratazione nell’end of life è di, in una situazione di ristrettezza di risorse soprattutto nell’assistenza domiciliare, fornire una “scusa” per garantire almeno un passaggio infermieristico al domicilio del paziente, durante il quale l’operatore può rivalutare il paziente e supportare il familiare/caregiver.
Probabilmente la componente più importante della questione (come probabilmente per tutti i problemi concernenti il fine vita) sta in una aperta e chiara comunicazione con paziente e familiari, che andrebbe iniziata precocemente, prima che i problemi attesi si presentino, e che andrebbe ripresa e continuata durante tutto il percorso di malattia e di assistenza. Comunicazione non solo unidirezionale medico –-> paziente/familiare, ma bidirezionale e, forse ancora più importante, con il coinvolgimento di tutte le figure professionali dello staff, in grado di raccogliere dubbi ed istanze del paziente e familiare che spesso non vengono espresse al medico.
Per quanto riguarda quello che è stato detto a Carlo in UK (“se idrati il paziente e gli allunghi solo le sofferenze”), abbiamo visto che, se costantemente rivalutata, un’idratazione di minima di sicuro non aumenta le sofferenze. Sì, forse prolunga la vita, ma la colpa non è della sola idratazione: una individuazione e cura “aggressiva ed intensiva” dei sintomi, una vera “best supportive care”, è dimostrato che aumenti la durata della vita (a tal punto da far uscire un articolo sul Washington Post di qualche settimana fa in cui venivano accusati gli hospice di “rubare” giorni di diaria a Medicare prolungando la vita dei pazienti).
Quell’affermazione è paradigmatica del piano inclinato del “procedurare” le cure palliative, spogliandole della componente di relazione e comunicazione il cui valoriale principale sta proprio nell’affermazione dell’individualità ed unicità del paziente. E’ proprio questa eccessiva “procedurazione” che ha portato a fuorviare il percorso LCP, rendendolo un mero protocollo in cui i pazienti venivano messi per “liberare posti letto in Medicina”…
Ma di questo potremo poi parlare in futuro…
Spero di essere stato utile, magari per complicare un po’ le idee, magari per dare qualche spunto di discussione…
RIFERIMENTI
– Raijmakers NJ, van Zuylen L, Costantini M, Caraceni A, Clark J, Lundquist G, Voltz R, Ellershaw JE, van der Heide A; Artificial Nutrition and hydration in the last week of life in cancer patients. A systematic literature review of practices and effects, Ann Oncol Jul 2011
– Jennifer S. Temel, M.D., Joseph A. Greer, Ph.D., Alona Muzikansky, M.A., Emily R. Gallagher, R.N., Sonal Admane, M.B., B.S., M.P.H., Vicki A. Jackson, M.D., M.P.H., Constance M. Dahlin, A.P.N., Craig D. Blinderman, M.D., Juliet Jacobsen, M.D., William F. Pirl, M.D., M.P.H., J. Andrew Billings, M.D., and Thomas J. Lynch, M.D.; Early Palliative Care for Patients with Metastatic Non Small Cell Lung Cancer, New Eng J Med, Aug 2010
– Franco Toscani, Problemi relativi ad alimentazione ed idrazione, Congresso EAPC , Palermo 2001
– Precisazioni in merito alle implicazioni bioetiche della nutrizione artificiale, SINPE, 2007
– Maciej Sopata, A. Sobcyk, J. Luczak; To feed or not to feed in palliative medicine, Advanc in Pall Med, 7, 2008
– Hospice firms draining billion from Medicare, Washington Post, Dec 26th 2013 http://www.washingtonpost.com/business/economy/medicare-rules-create-a-booming-business-in-hospice-care-for-people-who-arent-dying/2013/12/26/4ff75bbe-68c9-11e3-ae56-22de072140a2_story.html
– UK Department of Health, Overhaul of End of Life Care System, July 2013 https://www.gov.uk/government/news/overhaul-of-end-of-life-care-system
Un grazie davvero sentito a Fabrizio Motta e Carlo D’Apuzzo per il tema trattato: il Blog di Carlo resta sempre un fondamentale punto di riferimento anche per un medico non urgentista come il sottoscritto… dove lavoro proprio oggi abbiamo dovuto valutare come trattare una paziente di 44 anni con occlusione intestinale a livello ileale e sclerosi multipla in stato di vigilanza minima, nutrita attraverso PEG, valutando rischi operatori, post-operatori, spinte dei chirurghi a intervenire, spinte di colleghi che paventano rischi medico-legali “se non fai niente…” e la domanda: “sto facendo bene… sto facendo del bene…?” Domanda a cui in cure palliative prima e ancora di più nell’EOL spesso non ho risposte certe… oggi abbiamo scelto di accompagnare la nostra paziente con una sedazione palliativa terminale dopo un lungo e doloroso colloquio con i genitori… ma le domande restano e resteranno… condividere con voi aiuta…
Fabrizio, ovviamente grazie per questo commento che , per fortuna , è diventato un post. L’aspetto relazionale ed empatico in Medicina, come parte della cura o come mezzo per prendersi cura è fondamentale. Questo vale per ogni tipo di rapporto medico paziente, ma forse in modo particolare è vero per chi lavora in emergenza o nelle cure palliative, almeno così mi piace pensare. Come ha giustamente detto Marco Cardillo, in queste situazioni è difficile seguire schemi preordinati. Dobbiamo idratare i pazienti alla fine del loro percorso esistenziale? In fin dei conti credo che dare una risposta precisa poco importi. E’ importante essere in grado di prenderci cura del paziente e dei suoi care.givers.
Grazie di cuore anche a Marco per avere condiviso la sua esperienza e per i complimenti. Il blog da tempo non è più solo il blog di Carlo. E’ il blog di chi ci scrive e di chi ci legge, una soddisfazione grande e inaspettata.
Fondamentale, molto bello.
Ma, come Medico, non solo Urgentista, ma Tropicalista e – comunque – Medico, a mio parere, con molta serenità, se un paziente terminale afferisce in DEA e viene a morire su una barella solo per mettergli una flebo o anche solo per la palliazione dei parenti, il Palliatore (Palliativista o comunque il suo terapeuta) qualcosa ha fallito (o fallato, o comunque sbagliato), perché non è riuscito a far capire alla famiglia il bene per il paziente stesso.
Per quanto riguarda l’idratazione, invece, prendo appunti da chi ne sa decisamente più di me.
Alla fine la flebo è più utile al caregiver che al paziente.
Grazie a tutti voi per l’interesse ed i commenti. E’ molto bello poter condividere opinioni ed idee con colleghi provenienti da realtà ed esperienze diverse e non solo con i soliti in ospedale vicino alle macchinette del caffè.
PG ha ragione, per noi palliatori il paziente in fase terminale che arriva in DEA è un fallimento. Starebbe a noi il compito, come già accennavo nel blog, di preparare e supportare (come ha detto Carlo al di là di linee guida o schemi preordinati) paziente e familiari ai sintomi attesi e ridurre le ansie che provocano la fatidica chiamata al 118… Le cure palliative non sono solo morfina e pacche sulla spalla, sono anche programmazione precoce al domicilio (anche meramente sul piano organizzativo/logistico, ad esempio addestrare il familiare a somministrare farmaci per via sottocutanea) e comunicazione.
Purtroppo spesso i pazienti da cure palliative che finiscono in DEA non sono seguiti da un servizio di cure palliative… O perchè il servizio non esiste in quel territorio, oppure perchè il servizio non è stato attivato per quel paziente “perchè è troppo presto” o “perchè sta facendo ancora chemioterapia”…
E qui si aprirebbe tutta la discussione sulla Simultaneous Care…
Leggo sempre con molto interesse il Blog ( Carlo sei un grande) e volevo complimentarmi con Fabrizio per questo questo post, utilissimo.
In un periodo in cui si tende sempre più a fare medicina difensiva, seguendo protocolli , linee guida, chi più ne ha più ne metta, l’aspetto pratico, empatico, spesso viene dimenticato.
Non so esprimere quanto queso post (come il precedente) mi siano stati utili moralmente oltre che scientificamente in un momento in cui il mio ruolo di caregiver mi fa quasi sentire schiacciata da responsabolità forse più grandi di me. Grazie.